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Solo, in capo al mondo, sotto un fosco cielo, Magellano va incontro al suo destino

Arriva il momento della verità, nella vita di ogni uomo; il momento in cui le sue forze sono messe alla prova, sino all’ultima scintilla di volontà; in cui il suo morale è provato sino al limite della disperazione; in cui la sua fiducia in se stesso viene scossa dalla fondamenta, come un fuscello afferrato nel turbine d’una violenta tempesta. È soltanto allora che si vede di quale stoffa egli sia fatto: perché in condizioni normali, nella vita d’ogni giorno, quando si va avanti con il pilota automatico inserito, non è possibile saperlo.

Magellano, con le sue cinque navi e 234 uomini di equipaggio, aveva lasciato Siviglia il 10 agosto 1519 ed era salpato per l’Atlantico meridionale, da Sanlucar de Barrameda, il 20 settembre: questo ritardo di cinque settimane, solo per discendere il fiume Guadalquivir, dovuto a cause tecniche, ma anche politiche (l’ostilità delle autorità spagnole verso un ammiraglio portoghese, sospettato di scarsa fedeltà al sovrano, Carlo V) fu, probabilmente, decisivo nel vanificare le sue speranze di trovare lo sbocco verso il Mare del Sud — visto da Balboa il 25 settembre 1513 – prima del sopraggiungere della cattiva stagione, che avrebbe imposto una pausa forzata di molti mesi.

Dopo aver dovuto fronteggiare un primo tentativo di ammutinamento di una parte degli ufficiali e degli equipaggi, il 6 dicembre Magellano entrò nella meravigliosa baia di quella che sarebbe diventata Rio de Janeiro. Lì, trattenuti dal clima favorevole e dall’ottima accoglienza degli indigeni (che li avevano scambiati per esseri divini), gli Spagnoli persero altro tempo prezioso; quando giunse all’altezza del Rio de La Plata, Magellano s’intestardì a risalire il grande estuario, trovando però che la sua acqua era sempre dolce, fino a dover ammettere, a malincuore, che non era quello il sospirato passaggio illustrato in una carta di cui era giunto misteriosamente in possesso. Altrettanto deludenti furono le ricognizioni dei due grandi golfi incontrati più a mezzogiorno, di San Matteo e di San Giorgio; finché, giunto ormai l’inverno australe, il 30 marzo prese l’inevitabile decisione di fermarsi per trascorrere i mesi invernali nel porto di San Julian, a 49°18′ di latitudine Sud.

Né lui, né alcuno dei suoi uomini potevano immaginarlo, ma erano giunti vicinissimi alla meta: invece, avrebbero dovuto passare un inverno durissimo, e, con l’inverno, coi disagi e le privazioni, sarebbe scoppiato un nuovo e più grave ammutinamento, che l’ammiraglio riuscì a domare solo facendo ricorso a metodi spietati. Due capitani vennero giustiziati per le spicce, altri due capi della rivolta furono abbandonati sulla spiaggia. Magellano era sempre più solo: quel piccolo uomo taciturno, autoritario, che non consultava quasi mai i suoi subordinati e non concedeva la sua confidenza ad alcuno, ora era più che mai temuto, ma non amato; aveva imposto l’obbedienza con il terrore e ripreso in mano la situazione, quando già pareva irrimediabilmente compromessa, con tre delle cinque navi in mano ai ribelli. Ma il lungo inverno pareva non finire mai; le razioni erano state drasticamente ridotte; e, sotto quel cielo cupo e tempestoso, che pareva incombere su tutti loro con le sue ombre sinistre, l’avvenire non prometteva nulla di buono. E se il passaggio non fosse esistito affatto? E se la spedizione avesse finito per perdersi, laggiù, verso il regno dei ghiacci e delle tenebre perenni, dove quel pazzo portoghese, chiuso nella sua ostinazione, e illuso dai calcoli dell’astronomo Ruy Faleiro, avrebbe finito per trascinarli tutti a una morte sconosciuta?

Quella, per Magellano, fu l’ora: l’ora dell’agonia spirituale, che precede le grandi disfatte o gli splendidi trionfi. La sua volontà indomabile era tesa fin quasi a spezzarsi. Doveva persuadere quegli uomini recalcitranti a non scoraggiarsi, a non rivolgere indietro le vele; doveva convincerli, con le lusinghe o con le minacce, a perseverare, ad andare ancora avanti, non appena la morsa del freddo si fosse allentata e il cielo si fosse un po’ schiarito. Doveva trascinarli con sé, verso la gloria, oppure verso l’inferno: ma non si sarebbe mai arreso. Era un uomo dalla tempra di ferro, come ne nascono pochi un secolo: incurante dei consigli alla prudenza, solo contro tutti, aspettava ansiosamente il ritorno della buona stagione per proseguire l’esplorazione verso il Sud, costeggiando quelle lande inospitali, alla ricerca ostinata dell’inafferrabile passaggio.

Così Stefan Zweig ha ricostruito quel momento decisivo nella vita del grande navigatore, nella sua magnifica biografia Magellano (titolo originale: Magellan, Der Mann und Seine Tat, Wien, 1938; traduzione dal tedesco di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori Editore, 1938, pp. 159-162):

Dal momento in cui le navi di ricognizione sono tornate deluse, cupi pensiero devono aver gravata l’anima di Magellano. Come si rattrista il suo cuore, così si oscura anche il mondo esterno. Le coste appaion sempre più inospiti, sempre più nude e deserte, il cielo si fa sempre più fosco. Si è spenta la bianca luce del Sud, trasformato l’azzurro Zenit in un grigio ammasso di nubi. Non più foreste tropicali dai profumi intensi e capziosi [sic] che giungevano fin sulle navi! Svanita per sempre la terra benigna del Brasile, coi suoi alberi rigogliosi, carichi di frutta, le palme oscillanti, gli uccelli variopinti, gli ospitali indigeni e le loro donne! Qui, sulla spiaggia nuda e sabbiosa, non si scorgono che pinguini, i quali fuggono arrancando ai primi tentativi di avvicinarli, mentre fra gli scogli si sdraiano le pigre foche. Andando avanti ormai non si scorge nessun’altra creatura viva tutto intorno; uomini ed animali sembrano morti in quell’opprimente deserto. Un’unica volta si vedon fuggire disordinatamente degli uomini alti e selvaggi, tutti rivestiti di pelli, come gli eschimesi; ma non si lasciano allettare né dai campanelli, né dalle stoffe variopinti che vengono loro mostrate. Fuggono ostili e diffidenti appena uno cerca di avvicinarli, ed è vano ogni tentativo di trovar traccia delle loro dimore.

Il viaggio si fa sempre più faticoso e più lento, giacché Magellano conserva inesorabilmente la rotta lungo la costa. Ogni piccola insenatura, ogni minima rada viene scrutata nel modo più esauriente e misurata collo scandaglio. Magellano non confida più ormai in quella mappa misteriosa che lo ha allettato all’impresa e poi tradito durante il viaggio, ma forse potrebbe avvenire il miracolo, il miracolo che all’improvviso, in un punto inatteso, si schiudesse un passaggio, portandolo, ancor prima che inizi l’inverno, fino al "Mar del Sur"! Si sente chiaramente che egli, fattosi incerto, si aggrappa a quest’ultima disperata speranza, che le carte ed i navigatori portoghesi abbiano errato soltanto nel determinare la latitudine, e che la via esista un po’ più al sud di quanto abbiano affermato. Ma quando la flotta il 24 febbraio si avvicina ad un’insenatura ampia e lì per lì non chiaramente determinabile, il Golfo di San Matteo, la speranza fiammeggia ancora una volta come una torcia investita dal vento. Subito Magellano manda avanti le navi più piccole "viendo si habia alguna salida para el Maluco" cercando se l’agognato passaggio per le Molucche non fosse lì. Ma invano! Ancora un golfo chiuso! Non meno vanamente vengono esplorate la "Bahia de los Patos", dal nome dei pinguini, e la "Bahia de los Trabajos", così detta a ricordo dei travagli soffertivi dall’equipaggio sbarcativi. Ma gli esploratori, quasi morti dal freddo, riportano solo i corpi delle foche uccise, non la sospirata novella.

Avanti, avanti dunque sotto il fosco cielo, lungo la costa! La solitudine si fa sempre più orrenda, i giorni sempre più brevi, le notti sempre più lunghe. Non più nel mite azzurro, sospinti da una brezza gentile, scivolano i velieri; gelidi venti investono ora violentemente la velatura, la neve e la grandine frustano i ponti, grigi e minacciosi si accavallano i marosi. Due mesi impiega la flotta per strappare all’ostilità delle intemperie il breve percorso dal fiume La Plata al porto di San Giuliano. Quasi ogni giorno l’equipaggio deve lottare contro le tempeste, contro i famigerati pamperos di quelle regioni, folate brusche di vento che spezzano gli alberi e portano via le vele. Di giorno in giorno cresce il freddo, aumentano le tenebre, ed ancora non si presenta un passaggio. Bisogna scontare ora duramente le settimane perdute. Mentre la flotta andava esplorando ogni angolo ed ogni insenatura, l’inverno la precedeva. Eccolo, ora, il nemico più tremendo e pericoloso, che chiude ogni via con le sue bufere! Un semestre è stato sciupato, Magellano non si sente più prossimo alla meta di quanto lo fosse il giorno in cui è partito da Siviglia.

A poco a poco gli equipaggi cominciano a manifestare apertamente la loro inquietudine. Istintivamente intuiscono che qualcosa non va come deve andare. Non hanno forse dato loro ad intendere, a Siviglia, che il viaggio era diretto alle Isole delle Spezie, verso il radioso mezzogiorno, verso un mondo paradisiaco? Lo schiavo Enrique non ha descritto la sua patria come il paese di cuccagna, dove si raccolgono da terra, senza fatica, gli aromi più preziosi? Non hanno loro promesso la ricchezza e un rapido ritorno? E invece quel fosco uomo taciturno li trasporta in regioni sempre più gelide e desolate. Talvolta un pallido sole gialliccio appare attraverso le nuvole, descrivendo un breve giro, ma per lo più il cielo è tutto nascosto e l’aria odora di neve. Il vento taglia le guance come un rasoio e si insinua gelido fra le vesti sbrindellate; le mani si irrigidiscono appena tetano di afferrare le gomene, ed il fiato diventa fumo all’uscir dalla bocca. E tutt’intorno che desolazione, che spaventosa tristezza! Persino i cannibali sono sfuggiti a questo gelo. Quando si approda, non si trovano né bestie né frutti, all’infuori del pesce e delle foche: nell’acqua gelida la vita resiste meglio che non sulle deserte rive battute dalla tempesta. Dove li ha trascinati quel pazzo portoghese? Dove li trascinerà ancora? Vuol forse portarli fono alle regioni glaciali, fino al Polo Antartico?

Nel mese di maggio, ormai in pieno inverno australe, ma prima della rivolta, una delle navi, la Santiago, era stata mandata in esplorazione, ma aveva fatto naufragio, e solo dopo mille stenti i suoi uomini erano riusciti a rientrare a Puerto San Julian. Dopo quello sfortunato tentativo, fu necessario aspettare fino al mese di ottobre. Finalmente, con la fine della cattiva stagione, le quattro navi superstiti lasciarono quel luogo di desolazione; e il 21 di quel mese giunsero in vista di un promontorio, che Magellano chiamò Cabo Virgenes, Capo delle Vergini (dalla ricorrenza liturgica di sant’Orsola e delle Sante Vergini), oltre il quale si apriva una via d’acqua. Dopo una breve ricognizione, giunse la conferma: sì, il passaggio era aperto e, molto probabilmente, era proprio quello cercato. Un’immensa speranza di accese nel cuore di tutti, ma specialmente dell’ammiraglio; il quale, per non doversi guardare continuamente alle spalle, offrì ai capitani di scegliere se proseguire con lui, o volgere la prua verso la Spagna. Essi decisero di seguirlo; tuttavia, poco dopo, un’altra nave, la San Antonio, disertò e fece ritorno in patria, proditoriamente.

Con le tre navi che ormai gli rimanevano, la Trinidad (ammiraglia), la Concepciòn e la Victoria, Magellano imboccò risolutamente quello stretto passaggio che s’interna fra due sponde — la Patagonia e la Terra del Fuoco – ugualmente ostili, montuose, disabitate, ammantate da tristi boschi piovosi di faggi australi e incorniciate da maestosi ghiacciai che scendono fino al mare: un canale lungo 500 km., disseminato di isole e scogli pericolosissimi, spazzato da venti improvvisi e violentissimi, da grandinate subitanee, che si scatenano perfino nelle rare giornate di sole; dove il clima sembra impazzito e volge dal bello al brutto, più volte, nell’arco d’una sola giornata. Fu necessario procedere con molta prudenza, scandagliare la profondità marina, inviare le scialuppe in avanscoperta ogni qual volta la via acquea pareva biforcarsi e ramificarsi.

Finalmente, il 28 novembre 1520, dopo cinque settimane di navigazione fra quei solitari bastioni di roccia, che avevano qualcosa di alieno e parevano guardare dall’alto in basso le minuscole sagome delle tre caravelle, gli equipaggi — formati da spagnoli, portoghesi, italiani — videro aprirsi, all’estremità nordoccidentale, oltre il Capo Deseado, l’immensa, sgombra distesa del Mar del Sud: e tale fu il sollievo e il senso di liberazione, che Magellano, uomo non facile agli entusiasmi, si affrettò a battezzarlo "Oceano Pacifico", a causa della sua ingannevole calma; nome, in realtà, quanto mai inappropriato, data la furia leggendaria delle sue tempeste. Da lì, egli calcolava di giungere in non più d’un mese alle Molucche, le cosiddette Isole delle Spezie: ci sarebbero voluti, in realtà, tre mesi per traversare quasi tutta l’estensione di quell’oceano smisurato e arrivare non alle Molucche, ma alle Marianne. Una ventina di uomini sarebbero morti; gli altri si ammalarono di scorbuto e si ridussero a bere acqua marcia e a nutrirsi di cibo pullulante di vermi.

Magellano, però, aveva vinto la scommessa col destino: la sua fiducia in sé era stata premiata…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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