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1 Maggio 2016
Il cristiano deve amare il mondo? Papini e la sua battaglia contro la modernità
2 Maggio 2016C’è, nell’epistolario intercorso fra due grandi scrittori francesi, Paul Claudel (1868-1955) e André Gide (1869-1951), un passaggio cruciale, delicatissimo, estremamente intimo, che ancora oggi, letto a tanta distanza di tempo, riesce di straordinaria, conturbante attualità: quello in cui il cattolico Claudel "scopre" l’omosessualità di Gide e lo esorta a espungere dalla Nouvelle Revue Française un passaggio che suona come una apologia della pederastia, nonché a rivedere tutto il proprio orientamento esistenziale, basato su fallaci valori estetici, in nome della salvezza dell’anima. Siamo nel marzo del 1914, quasi alla vigilia della Prima guerra mondiale.
Da parte sua Gide, non credente, mostra, nei confronti di Claudel, un rispetto, una riverenza, una fiducia quasi illimitati; si confessa come davanti a un prete, e, dopo un momento di esitazione, quasi di panico, getta alle ortiche il ritegno e gli confida il suo indicibile segreto: benché abbia contratto un matrimonio, felice in apparenza, con una ragazza che si è votata a lui e che egli ama "più della sua stessa vita", la cugina Madeleine Rondeaux, in realtà non è mai stato attratto dalle donne. Nello stesso tempo, contraddittoriamente, chiede a Claudel, anzi, lo supplica e lo scongiura, di non dir nulla alla dolce e devota moglie, anche se riesce ben difficile, per ovvie ragioni (il matrimonio non fu mai consumato), credere che ella già non sapesse, tanto più che lui stesso aveva in pratica pubblicamente confessato la sua omosessualità nel racconto Corydon: che verrà pubblicato sulla prestigiosa rivista summenzionata nel 1924, ma circolante in forma privata fin dal 1911 e, dunque, già noto nella cerchia dei suoi amici e conoscenti.
Claudel, dopo aver respinto con sdegno l’insinuazione di essere intenzionato a divulgare la confidenza fattagli (ed è il momento più commovente e drammatico del carteggio, incupito da una gelida ombra di diffidenza, subito però superato da entrambi), con la franchezza risoluta di un vero amico e di un vero credente, che si preoccupa non già del bene soggettivo di Gide, ma del suo bene oggettivo, sgombra il terreno da umani ritegni e reticenze, e sprona l’altro a non nascondersi dietro vani ragionamenti, in pratica a non prendere in giro se stesso e le persone a lui care – non solo la mogie, ma anche il giovane critico e scrittore Jacques Rivière, suo ammiratore e futuro direttore della Nuovelle Revue Française – e a non turbare i suoi lettori con uno scritto immorale; bensì ad affrontare la realtà e la verità e ad operare una conversione dell’anima verso il bene autentico, reagendo alle sue tendenze disordinate.
Si tratta di uno scambio epistolare di scottante intensità morale e di straordinaria attualità: anche se, nella cultura oggi dominante, senza dubbio sarà facile vedere nella sollecitudine di Gide una forma di bigottismo cattolico e, in ogni caso, d’incomprensione circa la vera natura del "problema" di Gide; e, da parte di questi, un eccessivo timore di rivelarsi apertamente e di vivere senza remore il proprio modo di essere, quasi prigioniero di un ricatto culturale della società borghese, benpensante e perbenista. Oggi, infatti, è di gran lunga prevalente — almeno in apparenza – l’atteggiamento di chi considera l’omosessualità come un normalissimo orientamento sessuale dell’individuo, fra gli svariati che gli si offrono (la cosiddetta filosofia gender); e, a dire il vero, anche gran parte degli psicologi si è pronunciata in questo senso, anche se basta pochissimo per rendersi conto, sfogliando i manuali di psicologia di pochi anni fa, che, sino a ieri, la pensavano in maniera completamente diversa, e, insieme ai sociologi, ai giornalisti, ai confessori spirituali, quand’erano posti di fronte a tale problematica, raccomandavano cure, preghiere e astinenza.
In breve, l’omosessualità era considerata, e lo scrivevano apertamente sui libri e sui giornali, una malattia, e più precisamente una inversione del normale istinto sessuale; ora hanno cambiato idea, ma senza avere l’onestà di ammetterlo: sorvolano sull’imbarazzante dietrofront, come gli ex comunisti, divenuti filo-atlantisti di ferro, fanno finta di niente, quasi che Marx non fosse mai stato il loro maestro, né la lotta di classe la loro massima preoccupazione. Oggi, grazie anche al complessivo clima di relativismo, non solo culturale, ma etico, si pretende che qualunque comportamento sessuale, purché non contrasti con il codice penale (ma il codice penale viene continuamente modificato, per adattarlo a tali mutamenti di opinione: vedi il caso dell’aborto e dell’eutanasia), deve essere considerato naturale, e quindi lecito: lecito perché naturale, pedofilia compresa, purché, beninteso, i bambini siano consenzienti. Ci mancherebbe, non si possono mica violare i sacri diritti della persona!
Su tutto, come una scura nube di temporale, incombe l’idea, tipicamente moderna, che la normalità sia solo un vieto pregiudizio con il quale si cerca di reprimere le libere manifestazioni individuali, a esclusivo vantaggio dell’ordine sociale; che la normalità non esista, che sia una perfida invenzione delle classi dominanti; e che qualsiasi comportamento, qualsiasi scelta, qualsiasi stile di vita debbano soltanto essere accettati, perché il principio della libertà è sacro e nessuno deve essere represso o inibito nell’esplicare i suoi istinti, i suoi bisogni, le sue tendenze. Si è passati, così, da un conformismo intellettuale che privilegiava l’interesse del gruppo, fondato sulla coesione e quindi sulla stabilità, ad un nuovo conformismo, spacciato però per anticonformismo, facente perno sui "diritti" della singola persona e, in particolare, sulla libertà individuale negativamente intesa, cioè sempre e solo come libertà contro qualcosa o contro qualcuno; mentre i concetti della responsabilità, del dovere, del sacrificio, sembrano essere divenuti, improvvisamente, obsoleti e impresentabili, tanto è vero che gli adulti, educatori compresi, hanno quasi smesso di parlarne ai bambini ed agli adolescenti.
Il sentimento religioso, d’altro canto, era, anch’esso, più robustamente sentito e praticato (stiamo parlando di un secolo esatto fa; ma potremmo anche parlare di cinquanta, trenta o venti anni fa); le certezze erano più nette; san Pio X aveva da pochi anni condannato, solennemente, il modernismo — con l’enciclica Pascendi Dominici gregis, del 1907; e la condanna dell’omosessualità contenuta nella Bibbia, e ribadita da San Paolo (nella Epistola ai Romani) e dai Padri della Chiesa, oltre che da duemila anni di Magistero ecclesiastico, non era cosa che i credenti prendessero alla leggera. Eravamo distanti anni luce dal: Chi sono io per giudicare un gay? di papa Bergoglio; anche se la Chiesa, in effetti — è una verità talmente lapalissiana, che quasi ci si vergogna a ricordarla — ha sempre fatto una chiara distinzione fra peccato e peccatore, e non ha mai condannato nessuno per le sue tendenze, ma solo per le sue azioni, quando siano oggettivamente disordinate. In altre parole, nessun cattolico si è mai sentito autorizzato a condannare un omosessuale perché tale, ma solo in quanto praticante, se lo è, di atti espliciti contro natura.
Anche qui, non si può non rilevare la disinvoltura, a nostro parere sconcertante, con cui la Chiesa, o una parte di essa, ha compiuto una vera e propria inversione a "u", che non riguarda, del resto, solo il tema dell’omosessualità, ma anche altre manifestazioni di disordine morale, e non solo nella sfera sessuale. Si direbbe che anch’essa sia giunta, gradualmente e insensibilmente, a quella separazione tra morale e vita pratica cui già la cultura profana e la società secolarizzata sono prevenute da tempo, dietro il paravento d’una serie di formule più o meno vaghe, più o meno ambigue, come quelle della tolleranza, del pluralismo, della inclusione dell’altro. Quasi che un cristiano potesse essere "tollerante", "pluralista" e "inclusivo" quando si tratta, non della carità e del rispetto dovuto a ciascun essere umano, indipendentemente da ogni fattore soggettivo e oggettivo, che non sono mai in discussione; ma del rispetto verso i principi essenziali del Vangelo e che, evidentemente, non sono negoziabili, né suscettibili di modifiche, aggiornamenti, ritocchi.
Sarebbe poi necessario fare una distinzione fra l’omosessualità come dato psicologico e fisiologico originario e quella che è riconducibile a scelte di tipo culturale, nel senso più ampio; ossia, per usare un linguaggio più semplice, fra istinto (deviato) e scelta libera e volontaria, diretta a ciò che sta al di fuori della norma morale, magari per un atteggiamento di sfida o per la curiosità di stuzzicare ed esplorare il godimento di sensazioni nuove: ciò che la società di ieri l’altro — cattiva e repressiva – definiva, molto semplicemente, "vizio". Personalmente, siamo convinti che l’omosessualità sia assai meno diffusa di quanto le aggressive lobby omosessualiste vorrebbero far credere, con tutte le loro rumorose manifestazioni; e che, all’interno di quella percentuale, la frazione di essa che si può considerare come portatrice di tendenze omosessuali congenite sia particolarmente esigua; infine che, all’interno di questa frazione, solo pochi individui siano desiderosi di esibire e magnificare il loro modo di essere, in nome di supposti principi e diritti, mentre la maggioranza non chiede altro che di restare avvolta in un velo di riserbo e discrezione (e ci viene in mente, tanto per fare un nome, il caso dello scrittore Giovanni Testori, omosessuale dichiarato, ma del pari dichiarato penitente, il quale aveva orrore degli omosessuali che ostentano il loro modo di essere o che chiedevano quella cosa obbrobriosa, sono parole sue, che è il matrimonio fra ragazzi).
Ed ecco, perché ciascuno possa fare le proprie riflessioni, la lettera centrale del carteggio di cui parlavamo, la numero 160, datata da Amburgo il 9 marzo 1914, nella quale Claudel si rivolge all’amico dopo che entrambi hanno messo le carte in tavola, ma solo per effetto della franca, e forse un po’ rude, domanda di verità da parte dello stesso Claudel (da: Claudel/Gide, Carteggio 1899-1926 (titolo originale: Correspondance, 1899-1926; traduzione dal francese di Renato Arienta, Milano, Garzanti, 1974, pp. 247-251):
Mio povero Gide, non vi avrei scritto se non avessi conservato la mia amicizia per voi. Lo confesso, quel passo della "N. R. F". è stato per me un colpo! Ma sono una troppo vecchia volpe per scandalizzarmi di checchessia, e non so veramente che cosa mi darebbe il diritto di giudicare qualcuno. Ciò detto, mi sforzerò di rispondervi punto per punto nella maniera più obiettiva.
No, lo sapete bene, i costumi di cui parlate non sono né permessi, né scusabili, né confessabili. Avete contro di voi a un tempo e la ragione naturale e la Rivelazione.
La ragione e l’onestà naturale ci dicono che l’uomo non è un fine in sé, e a più forte ragione il suo piacere e il suo diletto personale. Se l’attrazione sessuale non attinge al suo termine naturale, che è la riproduzione, essa è deviata e non buona. È il solo principio solido Se no, voi cadete nelle fantasie individuali. Dove porrete un limite? Se uno pretende giustificare la sodomia, un altro giustificherà l’onanismo, il vampirismo, lo stupro dei bambini, l’antropofagia, ecc. Non c’è ragione di fermarsi.
La Rivelazione c’insegna poi che questo vizio è particolarmente detestato da Dio. È superfluo richiamarci Sodoma, il "morte moriatur" (?) del Levitico, l’inizio dell’Epistola ai Romani, il "Neque fornicatores, neque adulteri, neque masculorum concubitores".
Questo è abbastanza. Io nego all’individuo il diritto d’essere giudice e parte nel proprio caso. Il diavolo, l’orgoglio, la passione, preso possesso di noi, sono pronti a suggerirci scuse e pretesti.
Voi vi pretendete vittima di un’idiosincrasia fisiologica [cioè, il disinteresse per le donne]. Sarebbe questa una circostanza attenuante, ma non un permesso e una patente. Voi siete soprattutto vittima di due cose: la vostra eredità protestante che vi ha abituato a non cercare che in voi stesso la regola delle vostre azioni e il prestigio estetico che conferisce un lustri e un interesse alle azioni meno degne di scusa. A dispetto di tutti i medici mi rifiuto assolutamente di credere al determinismo fisiologico. Se avete degli istinti anormali, la vostra anima naturalmente proba, la vostra ragione, la vostra educazione, il timore di Dio, dovevano fornirvi dei mezzi per resistere. La medicina è fatta per guarire e non per scusare. Ahimè! Nel vostro casi ci voleva inoltre un confessore.
Voi mi chiedete dei consigli. Il primo consiglio è di fare subito quello che dipende da voi. Quello che dipende da voi è di sopprimere immediatamente quell’orribile passo della "N. R. F." Ve ne scongiuro per moralità e per ragioni d’interesse personale.
Per ragioni di moralità: Voi mi parlate d’ipocrisia, ma c’è una cosa infinitamente più odiosa dell’ipocrisia, ed è il cinismo. In queste gravi materie carnali, noi pecchiamo tutti più o meno, e vi confesso molto sinceramente che da voi a me, se facessi un confronto, sarebbe a mio svantaggio. Ma altro è peccare rammaricandosi, sapendo che si fa male, desiderando far meglio, e altro è credere che si fa bene facendo male, e dirlo e vantarsene. Qui non c’è più soltanto perversione dei sensi, ma perversione della coscienza e del giudizio.
Voi vi addossate così la responsabilità delle anime che perdete. La letteratura fa spesso un po’ di bene, ma può fare soprattutto molto male. Il vizio di cui parlate tende a diffondersi sempre più. Non è cosa per nulla indifferente il vedere un uomo come voi, col prestigio della vostra intelligenza, della vostra cultura e del vostro ingegno, farsene l’apologista, o semplicemente rendere familiari all’immaginazione del lettore idee da cui quella deve di stornarsi con orrore. Anche da questo lato, vi sarà reso conto in questo mondo e nell’altro. Per il vostro interesse personale: Vi ripeto: VOI VI PERDETE: vi abbassate, vi mettete in margine, fra quelli che vivono in margine, fuori dall’umanità. L’opinione di Parigi si nasconde meglio, ma essa è ancora più spietata di quella di Londra. Voi dite di conservare la mia lettera per voi, mi pregate di non lasciar sospettar nulla a vostra moglie. Disgraziato! E intanto vi lasciate andare alla pubblicità, affiggete su tutti i muri di Parigi un testo che per tutti avrà il valore di una confessione definitiva e ufficiale. Non fatevi illusioni a questo riguardo. Promettetemi almeno che questo passo non figurerà più nel volume. Ve ne prego, se annettete un qualche valore alla mia amicizia. A poco a poco si dimenticherà. Sì, io manterrò un profondo silenzio, ma siete voi che parlate e che vi mettete in piazza! Una cosa simile non s’è mai vista dai giorni del paganesimo. Nessuno scrittore, nemmeno Wilde, ha mai fatto questo.
Non vi nasconderò che nello stesso tempo che a voi ho scritto a due persone: a Jammes (una parola sola), e a quel povero Rivière a cui potete fare tanto male. Povero ragazzo che aveva fiducia in voi! Come me. Ma che cosa ho detto loro di più grave che quella pagina 478 non dica loro di già?
Rileggo la mia lettera, e mi sembra alquanto dura. Leggetela freddamente come il consulto di un medico. E soprattutto non disperate. Non c’è malattia mortale perle anime. Potete guarire. No, Dio non vuole la morte di nessuno dei suoi figli, egli non vi odia né vi disprezza. Ciascuno dei vostri errori è un titolo di più alla sua compassione. Da sette anni, per quel che posso giudicare, si svolge qualcosa nella parte migliore dell’anima vostra, non siete lasciato tranquillo, c’è un travaglio, ignoro quale. Ma non dite che siete tranquillo e soddisfatto.
E nemmeno dubitate di una cosa, che il giorno in cui tutti vi abbandoneranno, mi troverete ancora. Io conosco l’incomparabile valore di un’anima.
C’è una terza persona a cui ho ascritto, ma questa è un prete. È l’abbé Fontaine. Ora potete andare a trovarlo. Non lo stupirete, siate sicuro. E oserò dire che provo quasi sollievo di veder cadere quella pesante incertezza che fino ad oggi m’impacciava nelle vostre relazioni? Povero Gide, come siete da commiserare e com’è tragica la vostra vita! Vi stringo la mano P. Claudel
Queste parole possono, alla luce della mentalità odierna, sembrare dure, e lo stesso Claudel le trovava tali; senza dubbio, anche molti cattolici "adulti" e "progressisti" le disapproverebbero. Ma Gide non se ne sentì ferito; le apprezzò: la loro amicizia ne fu rafforzata. La vera amicizia non tace per amor del quieto vivere; e, soprattutto, si preoccupa del vero bene dell’altro. Se vede che questi si è messo su una strada pericolosa, lo mette in guardia; se si accorge che sta sbagliando, lo ammonisce. Lo fa per affetto e con retta intenzione; mentre il falso amico, o il nemico mascherato, fingono di approvare, e intanto preparano la rovina dell’altro, o la favoriscono.
Sappiamo bene quale sia l’obiezione di fondo politicallly correct: «E sia pure, Claudel ha parlato con sincera amicizia; ma le sue idee sull’omosessualità sono sbagliate. L’omosessuale non è un disgraziato; o, se lo è, lo è per colpa dei pregiudizi altrui». Questo è il modo di ragionare di una società edonista, permissiva e relativista, che ha eretto a norma suprema il laissez faire, il diabolico: fa’ ciò che vuoi, sii il Dio di te stesso. Dichiarando che tutto è lecito quel che viene dall’istinto, rimuove il vizio, ma senza misurarsi con esso: come quando, non potendo o non volendo abbassare il tasso d’inquinamento dell’acqua potabile, si innalza per decreto la percentuale di veleni consentita, e si finge che il danno alla salute non ci sia. Noi possiamo anche dichiarare che il vizio è abolito per legge, ma la sua realtà permane. L’ostentazione lo rende più esecrabile, dietro il pretesto della sincerità e della lotta contro l’ipocrisia. La parola "peccato", poi, non ha quasi più risonanza nelle profondità dell’anima. Eppure, se non c’è il peccato, non c’è Dio; e allora chi potrà redimerci?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels