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19 Aprile 2016Una società è sana quando è una società organica, ossia quando funziona come un organismo; e un organismo è sano quando le funzioni dei diversi organi non si svolgono ciascuna per proprio conto, ma si integrano per preservare e, se possibile, potenziare, la vita dell’individuo. Dunque, a suo modo, la vita della società è paragonabile a quella di un individuo: perché l’organismo è la struttura vitale che definisce l’individuo.
Le società umane, nel corso della storia, sono state caratterizzate da un grado maggiore o minore di omogeneità etnica, espressione che un tempo, più sbrigativamente, ma più efficacemente, e con meno ipocrisia, si rendeva con "purezza razziale". Dopo gli orrori del Novecento, e specialmente dopo gli orrori della "soluzione finale" del problema ebraico da parte del regime nazista, nessuno studioso ha più avuto il coraggio di parlare ancora di "purezza razziale", e il concetto stesso è stato abbandonato, non solo dagli specialisti (antropologi, sociologi, storici), ma anche dai politici e da coloro che formano la cosiddetta opinione pubblica, particolarmente i giornalisti. L’idea di una purezza razziale è stata associata, arbitrariamente, all’idea del genocidio, o, quanto meno, della violenza indiscriminata, delle pulizie etniche e delle deportazioni, al punto da regredire ipso facto a disvalore, qualcosa di turpe, vergognoso, criminale.
Ciò è comprensibile, se si pensa che alcuni propagandisti della purezza razziale furono anche complici, o corresponsabili, del genocidio; cosa che si era già verificata con quello degli armeni, nel 1915-16, e che si sarebbe più volte ripetuta, dopo la Seconda guerra mondiale, ad esempio con quanto avvenne in Bosnia, da parte delle milizie serbe (e, in minor misura, croate) nel 1995. Tuttavia non è affatto condivisibile sul piano concettuale, perché non ne deriva affatto che chiunque parli di purezza di una certa razza, abbia in mente deportazioni o stermini a danno delle minoranze nazionali, o che approvi simili strategie. Non solo: si è instaurata una sorta di censura preventiva, e persino di auto-censura, volta ad impedire che possa anche solo affacciarsi l’idea della superiorità razziale di un popolo rispetto ad altri; ma, di nuovo, si tratta di un timore alquanto paranoico, perché parlare di differenze razziali, e discutere sui pro e i contro della purezza razziale, ovvero, se si preferisce, della omogeneità etnica, rispetto ad una società mista, multietnica e multiculturale, non implica affatto che vi siano, alla base, delle teorie, dei pregiudizi o degli atteggiamenti di tipo razzista: questi posono esservi o non esservi, ma, se vi sono, ciò non dipende necessariamente dal fatto di considerare la purezza razziale come un vantaggio. Ci rendiamo ben conto che si tratta di una questione estremamente delicata, suscettibile di far insorgere, come riflessi condizionati, dei timori, delle angosce, delle inquietudini; e che si è costretti a destreggiarsi fra i trabocchetti del linguaggio, su un piano inclinato e scivoloso, dove basta poco per generare, in buona o in cattiva fede, ogni sorta di malintesi e di polemiche strumentali, forse basate sul nulla.
Il fatto è che lo stesso concetto di "razza" è divenuto politicamente scorretto, e così la relativa espressione, ormai pressoché impronunciabile; esso è stato espunto dai libri scolastici e viene adoperato solo con estrema cautela anche nei testi scientifici, ad esempio di biologia o di etnologia, di solito non senza accompagnarlo dalla precisazione, scientificamente non necessaria, che le razze umane, propriamente parlando, non esistono, poiché esiste una sola specie, Homo sapiens sapiens; e, inoltre, specificando — benché anche ciò sia del tutto ovvio – che nessun razza umana può considerarsi realmente "pura".
Oltre al tragico ricordo dei genocidi e al timore di poter alimentare, sia pure involontariamente, un approccio culturale, e magari politico, sbagliato, foriero di atteggiamenti razzisti, vi è, pertanto, anche la preoccupazione di non infrangere il tacito tabù del politicamente corretto, secondo il quale, per usare una celebre espressione, oggi usata e abusata, se non proprio utilizzata per coprire dei secondi fini, bisogna costruire ponti, non erigere muri: un concetto che "suona bene", perché evoca, immediatamente, la retorica dell’inclusione a trecentosessanta gradi; ma che è irrimediabilmente falso, oltre che pericoloso.
La domanda che bisognerebbe porsi, onestamente, è se una società umana, per sopravvivere e prosperare, possa davvero proporsi d’includere qualsiasi individuo e qualsiasi gruppo al proprio interno. Perfino quanti nutrono la convinzione che la democrazia possieda virtù di assimilazione e di amalgama quasi miracolose, devono prendere atto che, nelle stesse società democratiche, non è possibile includere chiunque, senza che ciò provochi, alla lunga, dei processi degenerativi di varia natura, disordini sociali, conflitti o tensioni razziali e culturali, agitazioni politiche, disorientamento culturale, perdita del senso religioso, o — viceversa – radicalizzazione e contrapposizione delle varie componenti religiose. L’inclusione a tutto campo porta al relativismo etico, alla perdita dell’identità culturale, al prevalere di logiche esasperate di tipo individualistico ed egoistico, basate sulla rivendicazione di sempre nuovi diritti da parte del singolo, a scapito della efficienza, della solidità e della continuità dell’intero gruppo sociale. Esiste, infatti, una soglia critica, oltre la quale una società non è più in grado di erogare diritti a destra e a manca, ma scivola inesorabilmente verso il collasso, l’impotenza e il caos permanente della lotta di ciascuno contro tutti.
Dunque, non sarebbe male tornare a interrogarsi, serenamente e senza pregiudizi o condizionamenti ideologici, sui vantaggi e gli svantaggi di una società caratterizzata dalla mescolanza razziale, culturale, religiosa; tanto più che, da alcuni decenni a questa parte, e senza che vi sia stata alcuna consultazione democratica o alcun serio dibattito al riguardo, l’Europa è stata ed è soggetta a una fortissima pressione, non solo materiale, ma anche politica, finanziaria, psicologica e culturale, affinché apra le proprie frontiere, accolga al suo interno chiunque voglia entrarvi – che si tratti di mille o centomila o d’un milione di persone – e si faccia carico della loro accoglienza, della loro sistemazione, e anche della loro integrazione; senza peraltro domandarsi se tutte codeste persone abbiano la reale volontà d’integrarsi o se non si considerino, al contrario, come le quinte colonne di una sorta di armata di occupazione, mirante a colonizzare e, nella fattispecie, ad islamizzare il vecchio continente.
Non sarà male, dunque, riaprire pacatamente un dibattito sulla questione della società organica; e, per cominciare, non sarebbe forse una cattiva idea quella di sentire come la vedesse il buon vecchio Nietzsche, il cui pensiero non ha mai smesso d’inquietare, preoccupare e irritare (anche perché esso è, effettivamente, inquietante, spaventevole e irritante), ma anche di stimolare alla ricerca di risposte, soluzioni e prospettive nuove, inedite, coraggiose.
Scriveva, dunque, Friedrich Nietzsche in Aurora (edizione a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1971, p.p. 170-171, § 272):
LA PURIFICAZIONE DELLA RAZZA.
Non esistono probabilmente razze pure, ma soltanto razze divenute pure, e anche queste sono molto rare. D’ordinario si hanno razze miste, presso le quali devono trovarsi sempre, accanto alla disarmonia di forme corporee (per esempio quando occhio e bocca non si accordano tra di loro), anche disarmonie di abitudini e di concetti di valore. (Livingstone sentì dire una volta: "Dio ha creato uomini bianchi e neri, ma il Diavolo creò i mezzosangue".) Razze miste sono costantemente al tempo stesso anche civiltà miste, moralità miste: esse sono in genere più malvagie, più crudeli, più irrequiete. La purezza costituisce il risultato ultimo di innumerevoli adattamenti, assorbimenti ed eliminazioni, e il progresso verso la purezza si mostra nel fatto che la purezza presente in una razza SI LIMITA sempre più a singole funzioni selezionate, mentre in precedenza doveva provvedere a troppe cose e spesso contraddittorie: una tale limitazione apparirà sempre, al contempo, anche come un IMMISERIMENTO e deve essere giudicata con cautela delicatezza. Ma infine, quando il processo di depurazione è riuscito, tutta quella forza che prima si esauriva nel conflitto delle qualità disarmoniche, messa a disposizione dell’intero organismo: ragion per cui razze divenute pure sono sempre state anche PIÙ VIGOROSE E PIÙ BELLE. I Greci ci danno il modello di una razza e di una civiltà divenute pure: e speriamo che sia attuabile una buona volta anche una razza pura e una pura civiltà in Europa.
Insomma: ancora una volta, quel che dice Nietzsche merita di essere meditato, e meditato a fondo, distinguendo, in esso, quel che è irricevibile, inaccettabile, moralmente riprovevole, da quel che può essere, invece, vero e valido e proficuo. Egli dice una cosa molto semplice: che tutte le grandi civiltà sono nate da società omogenee, ossia, per adoperare il suo linguaggio, estremamente diretto, da "razze pure": la civiltà greca è stata fatta dai Greci, la civiltà del Rinascimento, dagli Italiani; e così via. Certo, si potrebbe obiettare che Nietzsche, qui, sembra avere una visione troppo statica e troppo semplicistica di ciò che caratterizza una civiltà; la civiltà europea medievale, per esempio, è stata forgiata principalmente da un elemento spirituale e religioso: l’idea cristiana della vita, e non dall’azione di una razza (anche se è difficile sottovalutare l’apporto della razza tedesca, attraverso la fondazione dei regni romano-barbarici e, poi, dell’Impero carolingio, che fu, essenzialmente, un Impero tedesco, innestato, però, sulla tradizione giuridica romana e sul solido fondamento del cristianesimo, romano anch’esso, e greco, più che giudaico).
Resta comunque il fatto che il genio dei singoli popoli ha contribuito moltissimo al sorgere delle civiltà umane, dall’Egitto faraonico in poi; e che le "razze miste", per adoperare la sua espressione, raramente danno vita a una vera e propria civiltà; semmai – direbbe Spengler — a una civilizzazione, ossia alla fase tarda della civiltà, quando l’energia creatrice si è esaurita e subentrano i segni della decadenza: urbanesimo, gigantismo architettonico, relativismo etico e religioso, fortissime sperequazioni sociali, imperialismo, politica di espansione fine a se stessa. Gli Stati Uniti, sorti, come grande potenza, da un complesso e instabile miscuglio razziale, non hanno prodotto una civiltà, semmai una civilizzazione; e il fatto che il mondo intero, oggi (Europa compresa; anzi, Europa in primo luogo) guardino ad essa con prona, quasi servile ammirazione, tentando più o meno goffamente d’imitarla, la dice lunga sul fascino della decadenza e sulla tentazione dell’auto-annientamento, latente nelle società, così come lo è nei singoli individui.
Ora, comprendiamo benissimo che inseguire il mito di una "razza pura" sarebbe non solo pericoloso, ma anacronistico e antistorico: tutti i principali meccanismi della modernità spingono verso la globalizzazione, e, dunque, verso una crescente mescolanza razziale, culturale, religiosa, economica e produttiva. Ciò non significa che ci si debba inchinare e adorare l’esistente, e non si possa, o non si debba, esercitare il pensiero critico nei confronti dei fenomeni storici che stiamo vivendo e che stanno attraversando, con forza dirompente, il nostro orizzonte esistenziale, mutando e persino capovolgendo tutte quelle che, fino a ieri, erano per noi certezze consolidate e rassicuranti. Che la modernità sia un bene positivo in se stessa, è una leggenda che nasconde una vera e propria mistificazione; e che la società multietnica e multiculturale debba essere invocata come il nostro destino necessario, è un’altra menzogna, che serve a mascherare un copione già scritto riguardo al nostro futuro, ma scritto non da noi, bensì dalle grandi centrali del potere finanziario, le quali, a loro volta, dominano l’informazione, la cultura, l’opinione pubblica e la politica stessa.
Che conclusioni trarre da tutto ciò? La prima, e la più ovvia, è che non si deve sopravvalutare le capacità di autoconservazione di una società, quando essa venga "caricata" di apporti estranei oltre un certo limite, che essa non è più in grado di assorbire. Sembra che molti di noi abbiamo scordato la semplice verità che una nave, costruita per trasportare un carico, poniamo, di 10.000 tonnellate, non può sopportarne uno di 12.000, 15.000 o 20.000: finirebbe, inevitabilmente e matematicamente, per rovesciarsi e affondare. Ogni società umana è paragonabile, oltre che ad un organismo in lotta per la sopravvivenza, a una nave adibita a trasportare un certo carico: nessuno può pretendere d’imporle un onere superiore alle sue forze. Chi lo fa, o è uno sciocco o un criminale, il cui vero e inconfessato scopo è provocare il naufragio. Ma noi, che siamo a bordo, accetteremo passivamente un tale destino? Il tempo delle chiacchiere è finito: ora si tratta di prender decisioni di portata vitale.
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