
A chi dà fastidio il crocifisso a scuola?
12 Aprile 2016
Io sono la vite, voi i tralci, significa che il cristiano è già in Cristo, e Cristo in lui
12 Aprile 2016I bambini le si affollano intorno, la guardano con stupore, incredulità, ammirazione: dai loro occhi traspare l’entusiasmo. Certo, a chi non piacerebbe l’arrivo di una insegnante "nuova", che sia, nello stesso tempo, giovane, carina, ma non troppo sofisticata, anzi, abbastanza semplice di modi; a quale classe di scuola elementare non sarebbe gradita la sorpresa di vedere in cattedra una maestra così, carina, affabile, disponibile, ma anche, quando proprio occorre, un po’ severa? Una maestra che ha pronte le risposte, che chiarisce i dubbi, e che parla sempre con voce perfettamente intonata al clima della conversazione?
Peccato solo per un piccolo dettaglio: che quella maestra non è una donna. Non è viva, non è vera. E’ una macchina, un robot, un manichino intelligente: di aspetto gradevole come una bambola in formato naturale, efficiente e instancabile come un computer. Si chiama Saya ed è già stata sperimentata in Giappone, suo Paese d’origine. I bambini, come già detto, ne sono stati entusiasti. Certo, per ora ella conosce solo un numero limitato di parole e dispone di un repertorio di frasi che non è inesauribile, pur aggirandosi sulla rispettabile cifra di parecchie centinaia: ma è solo questione di lavoro, di tempo e pazienza. Ancora qualche ritocco, ancora qualche perfezionamento, ancora qualche sperimentazione, e poi questi limiti, queste imperfezioni, verranno superati e rimossi; e Saya sarà davvero la maestra "perfetta". E poi, perché limitarsi a "fabbricare" le maestre elementari? Perché non realizzare anche i professori, dalla scuola media fino all’università? Innumerevoli sarebbero i vantaggi, sia per lo Stato – sul piano economico e organizzativo – sia per gli "utenti", ossia gli studenti e le loro famiglie. Insegnanti del genere non si ammalano, non vanno in maternità, non scioperano; non vanno nemmeno in pensione, salvo che si inceppi qualche meccanismo, che si logori qualche processore; ma, in tal caso, basterà mandarli dal tecnico, e sarà possibile rimetterli a nuovo, più efficienti di prima. Oppure li si getterà via, e verranno sostituiti da "colleghi" di nuova generazioni, ancora più efficienti e moderni, ancora più perfetti e affascinanti. I bambini e i ragazzi ne resteranno incantati. Bello, no?
Scrivono Ugo Avalle e Michele Maranzana, in Pedagogia. Storia e temi. Dal Novecentoi ai nostri giorni (volume scolastico per il quinto anno del Liceo delle Scienze Umane, Torino, Paravia, 2012, p. 228; citazione da http://daily.wired.it):
Una volta era la Barbie la bambola multitasking capace di trasformarsi senza problemi da ballerina a donna in carriera. In un’era sempre più robotica, macchine e bambole si fondono per assomigliarci di più, interpretare nuovi personaggi e rimpiazzarci sul posto di lavoro. Da oggi i robot salgono anche in cattedra.
Hiroshi Kobayashi, ricercatore dell’Università di Scienze di Tokyo, sta lavorando da quindici anni allo sviluppo di robot "umani". Il primissimo modello si chiamava Pikarin e aveva ancora tutti gli ingranaggi in bella mostra. Poco tempo fa è arrivata la prima Saya, il robot della porta accanto, faccia d’angelo, personalità da vendere e un lavoro da receptionist. Il viso di Saya è stato creato a immagine e somiglianza di quello di una studentessa universitaria ed è capace di esprimere una moltitudine di espressioni dalla felicità al disgusto, dalla tristezza alla rabbia grazie a un meccanismo di 18 mini motori che fanno da "muscoli" facciali e controllano le espressioni in base al tono della conversazione.
La ragazza-androide era capace di sostenere senza problemi una conversazione base da help desk grazie a un vocabolario di 300 parole e 700 frasi. Ma anche gli androidi sognano carriere elettriche, Saya cambia lavoro ed entra in classe. Gli studenti di una scuola elementare di Tokyo hanno avuto una prima lezione con la nuova insegnante, forse un po’ strana ma certamente professionale e inflessibile. È la prima volta che un robot si siede dietro la cattedra, la nuova maestra parla tante lingue, fa l’appello, dà i compiti dal libro di testo, risponde alle domande e adotta il giusto tono per ribattere agli alunni indisciplinati. Per adesso l’androide sta ancora facendo tirocinio alle elementari ma potrà insegnare anche ad altri livelli, appena avrà finito il periodo di prova.
Sempre in Giappone, è stato sperimentato anche un robot per eseguire delle operazioni di chirurgia toracica; ma la tecnologia si è sbizzarrita ulteriormente, e così sono stati creati dei robot giardinieri, dei robot cuochi, dei robot pianisti, e così via. In teoria, ma anche in pratica, non ci sono limiti alle applicazioni che è possibile realizzare sfruttando questo filone tecnologico, che coniuga l’onniscienza del computer con la simulazione fisica degli esseri umani.
Si ha un bel dire che la tecnica è neutrale e che tutto dipende da come l’uomo decide d’impiegarla; di fatto, le cose stanno altrimenti: una volta imboccata questa strada, la strada della sostituzione degli esseri umani, non in una singola funzione, ma in tutta una serie di funzioni, e non per tempi e situazioni limitati, ma per un tempo illimitato e in situazioni a trecentosessanta gradi (ossia parlare, rispondere, eseguire, interagire con l’ambiente circostante), l’uomo finisce inevitabilmente per divenire una appendice superflua, imperfetta, costosa, insomma non conveniente, nella maniera più assoluta. Perché delegare all’uomo ciò che può essere fatto meglio di lui da un computer, e con una spesa assai minore, nonché in tempi decisamente più brevi? Sarebbe nient’altro che una inutile, assurda forma di sentimentalismo. Un residuo di quel passato imperfetto, faticoso, sgradevole e dispendioso, che egli si vuol lasciare dietro le spalle, per il fatto stesso di affidarsi ad una tecnologia decisamente sofisticata.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui la sostituzione degli esseri umani con i robot risponde a una logica impeccabile: oltre al conseguimento della massima efficienza, essa realizza anche l’antico sogno (proibito) di Adamo: diventare simile a Dio, negare la sua creaturalità, la sua finitezza, facendosi a sua volta creatore: creatore di se medesimo. Più ancora della manipolazione genetica e della clonazione, la tecnologia robotica consente all’uomo di sentirsi superiore alla propria condizione di creatura finita: di trasformarsi in un essere teoricamente onnipotente, capace di qualsiasi impresa e specialmente di superare i limiti angusti che relegano la sua vita in uno spazio e in un tempo limitati; di proiettare la sua brama di assolutezza in una creatura, opera esclusiva delle sue mani, della sua intelligenza, fatta a immagine di sé, come il Dio della Bibbia ha fatto l’uomo a immagine sua. Per questa via, egli raggiunge due traguardi che gli sembravano preclusi, ma verso i quali si rivolgevano le sue segrete aspirazioni: incarnarsi in un corpo potenzialmente perfetto e indistruttibile, che non deve temere né malattie, né vecchiaia, né morte; e simulare la creazione divina, assurgendo al rango di divinità, nella cornice di un mondo — quello della intelligenza artificiale – interamente delineato e strutturato da lui, secondo le sue finalità, in base ai suoi intendimenti, e senza subire limitazioni da parte di alcuno.
A guardar bene, non è solo l’antica tentazione di Adamo, quella di farsi simile a Dio; è proprio la tentazione di Lucifero, quella di farsi pari a Dio, e di regnare incontrastato su un mondo che gli deve obbedienza e gli si rivolge come al suo solo artefice e signore. In altre parole, popolare il mondo di robot simili agli esseri umani rappresenta il trionfo di una pulsione luciferina: perché in un tale mondo, pensato, voluto e governato non più da Dio, ma dall’uomo, ogni cosa assume l’aspetto di una sfida smisurata: la sfida nei confronti di quel Dio che, pur se negato sul piano razionale, continua a intorbidare i pensieri dell’uomo, perché suscita la sua segreta invidia e il suo inconfessato rancore. Non era forse scritto Challenger, lo Sfidante, sul missile spaziale "Space Shuttle" che finì distrutto nel disastro del 1986, quando era giunto alla sua decima missione? Ebbene: chi o che cosa volevano sfidare, i suoi costruttori, allorché gli diedero quel nome?
E non si chiamava Spedizione Challenger quella che, nel 1782-76, finanziata dall’Università di Edimburgo e dalla Società Reale di Londra, si lanciò nello studio scientifico dei mari di tutto il mondo, gettando le basi della moderna oceanografica, e che John Murray definì come il più grande progresso per la conoscenza del nostro pianeta mai realizzato dall’uomo, dai tempi dei grandi viaggi di esplorazione del XV e XVI secolo?
E del transatlantico Titanic, naufragato al suo viaggio inaugurale nell’Atlantico settentrionale, nella collisione con un iceberg, il 15 aprile 1912, non si diceva forse che "nemmeno Dio l’avrebbe potuto affondare"? Non si era forse vantato, il suo comandante, Edward John Smith, che la sua nave fosse praticamente inaffondabile? Eppure, esso fece la fine che Dante riserva al "suo" Ulisse, per aver voluto strappare il velo del mistero, con un atteggiamento di sfida a Dio.
Tornando ai computer che fanno scuola ai bambini sotto forma di manichini, o di bambole, di aspetto umano, o, se si preferisce, di androidi, di "replicanti", i quali, visti da lontano, o distrattamente, possono anche passare per delle vere creature umane; se davvero la loro costruzione proseguirà lungo la linea intrapresa e se realmente verranno introdotti nelle scuole per sostituire gli esseri umani in qualità di insegnanti — sia pure, all’inizio, solo per svolgere funzioni limitate, o, magari, in caso di necessità urgente: sicché, in assenza di una maestra, i bidelli tireranno fuori dal magazzino una Saya già pronta per l’impiego — verrà oltrepassata una linea di non ritorno, e incomincerà una nuova era nella storia umana, quella dell’insegnamento scolastico mediante creature artificiali appositamente programmate.
L’impatto, non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche da quello affettivo ed emozionale, sarà devastante. I bambini si abitueranno — e sappiamo quanto siano veloci ad "abituarsi" alla tecnologia: basti pensare a ciò che è accaduto con i computer, i giochi elettronici, gli smartphone — a quelle "maestre", poi a quei professori e professoresse, fatti di materiali artificiali che simulano abilmente i tessuti, i muscoli, gli occhi, i capelli, i vestiti; e così impareranno che un bambino, o un adolescente, può trovare un robot altrettanto soddisfacente, come figura educativa, di un essere umano, anzi, per molti aspetti, anche più soddisfacente: eternamente giovane e perennemente tranquillo e sicuro di sé, che non perde mai le staffe, che non va soggetto a sbalzi d’umore, che non si ammala, non tossisce, non starnutisce, e al quale non si abbassa mai la voce, né viene il mal di testa; il cui sorriso è inestinguibile, la cui calma è imperturbabile, la cui salute è a prova di qualunque virus e malattia. E, dopo aver fatto questa scoperta, incomincerà a non desiderare più di avere una maestra, o un insegnante, "solamente umani": la loro umanità gli si rivelerà, d’un tratto, come qualcosa di meno bello e desiderabile, non come il contrassegno di un modo di essere intrinsecamente superiore e, quindi, anche più bello e desiderabile.
Allora sarà la fine. Non ci sarà più ritorno, né possibilità di redenzione. Chi ha sperimentato una tecnologia più sofisticata, non rimpiange mai quella più obsoleta. Nessuno che abbia imparato a servirsi del computer, rimpiange la macchina da scrivere; e chi ha fatto la patente per guidare l’automobile, non lascia poi l’auto nel garage, per continuare a servirsi della bicicletta (se non per puro svago o in circostanze particolari; ma non la userà più come mezzo di trasporto "normale" e abituale). Sempre, immancabilmente, la tecnologia dell’ultima generazione scaccia quella che esisteva prima: è la legge del progresso. Le navi a vapore hanno soppiantato le navi a vela per i lunghi viaggi; poi gli aerei hanno soppiantato le navi a vapore. Il progresso, inteso in senso puramente materiale, è risparmio di tempo, di spazio, di denaro, di rischi e di incertezze: è una continua ricerca di razionalizzazione, di ottimizzazione, di super-efficienza.
Il guaio è che l’uomo non è sempre efficiente, non è sempre "conveniente", non è sempre in grado di svolgere nel modo migliore le sue mansioni. La figura della maestra è per metà quella di una insegnante e per metà quella di una seconda mamma. Abituandosi a una mamma-robot, il bambino di domani cesserà di essere bambino e verrà proiettato, con brutale "efficienza", nel mondo adulto post-umano, ove tutto quello che conta è il massimo risultato con il minore sforzo possibile. Quel bambino si abituerà alla simulazione della voce di un essere umano, di una intelligenza umana, di un’affettività umana; e si affezionerà, nondimeno, alla sua maestra-computer, perché ciò è nella sua natura: il suo mondo è prevalentemente affettivo. A quel punto, neanche ricorderà la maestra vera…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels