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Domanda inaspettata; domanda quasi incongrua, in una società, come la nostra, che non parla quasi più di doveri, o meglio, che non ne vuole sentir parlare, e non ne parla perché ne ha fastidio, vorrebbe negarli, e li nega, in effetti, tutte le volte che le è possibile, anche se non le è ancora riuscito di negarli in assoluto, cioè in via di principio. È un processo storico che parte da lontano: che inizia, in qualche modo, con l’umanesimo e il rinascimento, caratterizzati da una forte componente edonistica, componente che cresce e diventa centrale, e che si definisce in senso accentuatamente materialistico, con il libertinismo e poi con l’illuminismo, portatori di una nuova tavola dei valori, bastata sul principio del piacere e sull’etica dei diritti: i diritti naturali dell’individuo, "scoperti" dal giusnaturalismo e poi assolutizzati dalle correnti giacobine, liberali e democratiche, fra XVIII e XIX secolo. Mazzini, per esempio, era criticato dai suoi avversari perché accusato di predicare una "rivoluzione dei doveri", la cui base ideologica era percepita in stridente contrasto con le "rivoluzioni dei diritti". Ciò ha condotto a una progressiva consunzione del concetto e della pratica stessa del dovere; processo che si è accentuato, e si è fatto rapidissimo, quando sono entrate in crisi le ultime istituzioni che ancora facevano perno su di esso: la famiglia in primo luogo, poi lo stato e la Chiesa, sullo sfondo. Nella famiglia, i genitori hanno smesso di chiedere ai figli il rispetto dei doveri, per ridursi a distributori di diritti, di giocattoli, di soldi, di computer, di vestiti firmati, di automobili e di motociclette. Lo stato ha smesso di farsi chiamare Patria, di pretendere il rispetto di tutta una serie di doveri (a cominciare dal servizio militare di leva), e ciò anche nei confronti dell’esterno: ad esempio, abolendo, di fatto o di diritto, il reato di immigrazione clandestina, e trasformando così il dovere di difendere i propri confini nel dovere di accogliere chiunque li oltrepassi illegalmente, e sia pure per ragioni "umanitarie". La Chiesa, da parte sua, nel tentativo affannoso di salvare il salvabile della sua presa, sempre più debole, sulla società civile, ha smesso, o quasi, di parlare di doveri nei confronti di Dio e ha ridotto drasticamente anche quelli nei confronti del prossimo; è divenuta indulgente e "misericordiosa", nel seno che sembra aver liquidato il concetto stesso di peccato (e di giustizia), senza il quale è ben arduo parlare ancora di doveri del cristiano. In un certo senso, è come se avesse liquidato a prezzi di saldi la sua etica due volte millenaria, fondata concezione della vita come scelta del bene, per sostituirla con una relativista e permissiva, basata sulla valutazione soggettiva e pragmatica di ciò che va fatto o meno, "secondo coscienza" e non più in base a un criterio ineludibile e cogente di Verità oggettiva.
D’altra parte esiste una concezione errata e puramente meccanica del dovere, ossia come una realtà che agisce dal di fuori, con una certa carica di violenza nei confronti della personalità, che la stessa etica cattolica ha, sovente, avvalorato: ed è contro tale interpretazione sbagliata che Sören Kierkegaard ha scritto una delle pagine più fini, dal punto di vista sia psicologico, che filosofico, di quel piccolo gioiello che è Aut-Aut, uno dei libri più profondi, ma anche più semplicemente scritti, più eleganti, più sovranamente acuti, logici e consequenziali, che il secolo XIX abbia prodotto nel campo speculativo.
Scrive, dunque Kierkegaard in Aut-Aut (titolo originale: Enten-Eller, Copenaghen, 1843; traduzione dal danese di K. M. Guldbrandsen e Remo Cantoni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, ed Edizioni CDE, 1990, pp. 132-134):
Qui voglio richiamare la mia definizione dell’etica: essa è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l’individuo diventi un altro, ma se stesso; non vuole distruggere l’estetica, ma illuminarla. Perché l’uomo possa vivere eticamente è necessario che divenga cosciente di sé tanto radicalmente che nessuna casualità gli sfugga. L’etico non vuole cancellare questa concretezza dell’uomo, ma vede in essa il suo compito, vede ciò da cui deve formare e ciò che deve formare. Di solito si considera l’etica in modo assolutamente astratto e perciò si ha un segreto timore di essa. L’etica viene considerata come qualche cosa di estraneo alla personalità, e ci si duole di doversi affidare ad essa, perché non si può mai sapere dove essa finirà per condurci. Così molti temono la morte perché hanno idee oscure e vaghe che l’anima colla morte debba passare in un altro ordine di cose, dove imperano leggi e regole completamente diverse da quelle che abbiamo imparato a conoscere in questo mondo. La cagione di un tale terrore della morte è il fatto che l’individuo non è incline a diventare trasparente a se stesso; se ne avesse il coraggio, vedrebbe facilmente l’illogicità di questo terrore. Così anche per l’etica: quando un uomo teme la limpidezza, sfugge sempre l’etica, perché questa veramente non cerca altro.
In contrasto con una concezione di vita estetica che vuol godere la vita, si sente spesso parlare di un’altra concezione che pone il significato della vita nel vivere per soddisfare al proprio dovere. Con questo si vuole indicare una concezione di vita etica. Pertanto l’espressione è assai imperfetta, e si potrebbe quasi credere che sia stata inventata per gettare del discredito sull’etica. Certo che ai nostri giorni spesso la si vede usata in modo da far quasi sorridere, come quando Scribe pronuncia questa sentenza con una certa qual serietà laconica, creando un contrasto che la scredita molto di fronte all’allegria ed al piacere del godimento. L’errore è che l’individuo vien posto in un rapporto esteriore col dovere. L’etica vien determinata come dovere, il dovere come una somma di singoli postulati: individuo e dovere stanno l’uno di fronte all’altro come degli estranei. Una vita per il dovere come questa è brutta e assai noiosa, e se l’etica non avesse un rapporto molto più profondo colla personalità, sarebbe sempre assai difficile sostenerla di fronte all’estetica. Non voglio negare che vi siano molte persone che non giungono oltre, ma non è colpa del dovere, è colpa loro.
È strano che colla parola dovere si finisca per pensare ad una relazione esteriore, benché l’etimologia di questa parola denoti una relazione interiore: perché quello che è imposto a me, non come individuo casuale, ma secondo il mio vero essere, sta, credo bene, nella relazione più intima con me. Il dovere infatti non è una imposizione, ma qualche cosa che è compito per la personalità. Quando il dovere vien visto così, l’individuo è giustamente orientato in se stesso. Il dovere dunque non si frantumerà per lui in una somma di singole imposizioni, perché questo denoterebbe che egli sta solo in un rapporto esteriore con esso. Egli si è immedesimato nel dovere che è per lui l’espressione del suo essere più intimo. Quando egli si è orientato in se stesso così, si è sprofondato nell’etica, e non correrà col fiato grosso in caccia del suo dovere. Il vero individuo etico ha perciò una calma ed una sicurezza in sé, perché non ha il dovere fuori di sé ma in sé. Quanto più l’uomo ha disposto eticamente la sua vita, tanto meno sentirà il bisogno di nominare ogni momento il dovere, di temere ogni momento di non riuscire ad adempierlo, di consigliarsi ogni momento cogli altri, su cosa sia il suo dovere. Quando si vede l’etica con esattezza, questa rende l’individuo infinitamente sicuro di sé, quando non la si vede con esattezza, essa rende l’individuo del tutto incerto, e non posso immaginare un’esistenza più infelice e penosa di un uomo che abbia il dovere al di fuori di sé e che, ciononostante, lo voglia continuamente tradurre in realtà.
Se si vede l’etica al di fuori della personalità e in un rapporto esteriore con essa, si ha rinunciato a tutto, si ha disperato. L’estetica come tale è disperazione, l’etica è il dolore più astratto e come tale incapace di produrre la minima cosa. È un fenomeno tragico e comico insieme vedere qualcuno che si affatica e si arrabatta con un certo zelo sincero per tradurre in realtà l’etica, che sfugge sempre come un’ombra non appena la si vuole afferrare.
Una pagina magistrale, dunque, e supremamente elegante: l’etica non è altro che il processo per cui l’uomo diviene se stesso. Che poi divenire se stessi coincida con quel che si deve essere, va da sé; Kierkegaard non si prende la briga di insistere su questo punto, per non aver l’aria di reintrodurre, dalla finestra, ciò che aveva cacciato fuori dalla porta: l’idea normativa dell’etica; l’idea del dovere come cosa esteriore, che si sovrappone alla volontà dell’individuo, la mortifica, l’annulla, e produce un triste seguito di conflitti irrisolti o sensi di colpa (o entrambe le cose insieme), invece che come movimento interiore della personalità nei confronti di se stessa. Vissuta così, come imposizione che viene dall’esterno, l’etica del dovere non è solo una cosa brutta e noiosa, è anche una forma di paralisi e di sterilità dell’anima, perché coincide con un dolore astratto: il dolore di non poter essere se stessa a causa di un divieto, o di una serie di divieti, provenienti dall’esterno. Solo il dolore concreto produce qualcosa; soltanto esso ha la in sé la capacitò di avviare un processo di illuminazione interiore, di approfondimento, di innalzamento della coscienza.
Qualcuno potrebbe chiedersi, tuttavia, se tutto ciò non sia che un abile gioco di parole; inoltre, se il fatto che il dovere è un atto interno della personalità valga a diminuire il dolore che necessariamente è connesso all’attuazione del dovere, o a chiarire realmente la sua natura positiva nei confronti della coscienza.
Alla prima domanda, rispondiamo che non è solo questione di nomi: infatti, dire — come fa Kierkegaard — che il dovere non è una imposizione, ma qualche cosa che è compito per la personalità, non equivale a dire la stessa cosa con parole diverse, più a bili e melliflue, bensì dire una cosa completamente diversa: che il dovere è lo strumento mediante il quale la personalità diventa se stessa. Al di fuori di questo percorso, la personalità è nulla; pertanto, si potrebbe anche definire l’etica come l’arte di scegliere fra se stessi e il nulla. All’uomo, grazie al concetto del dovere, è dato di scegliere fra queste due possibilità estreme e radicalmente alternative: laddove scegliere per l’accettazione del dovere equivale a divenire se stessi, realizzare se stessi, inverare se stessi; scegliere contro l’etica, ossia rifiutando il dovere, equivale a sprofondar e nel nulla, perché un individuo eticamente indeterminato non è che possibilità astratta, non un uomo (o una donna) concreto, in carne ed ossa, con una personalità unica e irripetibile e, pertanto, con un proprio destino che l’attende.
Alla seconda domanda rispondiamo che, se l’accettazione del dovere come il proprio destino, reca con sé, inevitabilmente, anche il fardello del dolore, tale fardello diventa leggero all’anima che lo assume in questa forma, ossia come una necessità interna a se stessa: proprio come respirare l’aria in alta montagna reca dolore ai polmoni, e nondimeno è e rimane un atto necessario, senza il quale non si potrebbe sopravvivere, e che, pertanto, viene compiuto con convinzione e gratitudine: di più, con perfetta naturalezza. Questo, si sa, urta contro l’idea — edonistica, e quindi molto diffusa nella cultura odierna – che la presenza stessa del dolore escluda, di per sé, la possibilità di una qualunque naturalezza, quasi che la sofferenza fosse un qualcosa di innaturale. Ma il dolore e la sofferenza, al contrario, non sono affatto innaturali; al contrario, sono connaturati alla condizione dei viventi, e tanto più alla condizione umana, perché l’uomo è capace di riflessione, ed essa rende il soffrire, per molti aspetti, ancora più acuto e lacerante. Però, nello stesso tempo, dal dolore scaturisce la possibilità della vera comprensione della vita, che non si dà senza di esso, e, quindi, che non dovrebbe vedere in esso un nemico da evitare o distruggere, come si farebbe con un formicaio scoperto nel giardino di casa, ma, al contrario, come una presenza preziosa, perché didatticamente indispensabile. Nulla di serio e di durevole si impara, senza il dolore.
Opinare diversamente, significherebbe ricadere nel palese errore delle filosofie edonistiche, le quali traggono dal sensismo l’equivalenza di piacere e felicità (come accadde anche a Leopardi). Si può essere felici anche nel dolore; e, viceversa, si può esse infelici anche in mezzo ad una vita di piaceri: questa è la grande verità, che il cristianesimo ha insegnato con la massima forza ed evidenza, ma che già alcuni filosofi greci avevano intravisto, pur senza intuirne tutta l’immensa portata (perché ancora legati ad una concezione generale che tendeva a identificare il piacere con il bene, e il dolore con il male), e coraggiosamente annunciato. Ecco perché la consapevolezza del dovere come itinerario dell’anima verso se stessa — e quindi, per forza di cose, come itinerario verso Dio, creatore di tutte le cose, al quale tutte le cose ritornano — ha una natura positiva, e coincide con un movimento naturale dell’anima. È il rifiuto del dovere, a essere innaturale; perché è il rifiuto di sé…
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