
Da sempre la cultura progressista censura l’involuzione politica di Carducci; ma ha ragione?
28 Marzo 2016
La vita è una milizia per amare le opere di Dio e smascherare il diabolico relativismo
29 Marzo 2016Il capitolo dell’amore di Honoré de Balzac per la "straniera", come lui la chiamava, ossia la bella contessa polacca Ewelina Hanska, proprietaria, nella lontana Ucraina, d’una immensa tenuta agricola e sposata con un marito abbastanza vecchio da lasciarla vedova per tempo, è, insieme, la cifra della vita più intima del grande scrittore francese, e una specie di storia nella vastissima cornice della Commedia umana, un teatro nel teatro, una vicenda paradigmatica e universale, nella quale ciascuno può leggere, in controluce, il dramma di una passione terrena che si aggrappa convulsamente a se stessa, nella smania impossibile di sfiorare l’assoluto, ma resta impigliata e invischiata nelle sue umane, umanissime contraddizioni.
Balzac, è bene tenerlo presente prima di formarsi un’idea a proposito della sua vita affettiva, era letteralmente divorato dalla febbre creativa. Aveva una capacità di lavoro semplicemente disumana: scriveva anche decine di pagine al giorno, a tutte le ore del dì e della notte; e, per tenersi sveglio e lucido, era capacissimo di bere anche cinquanta tazze di caffè. Chiunque altro sarebbe rimasto fiaccato da un simile ritmo di vita nel giro di qualche settimana o di qualche mese; lui tenne duro fino a cinquant’anni (era nato nel 1799 e morì nel 1850). Oltre alle decine e decine di romanzi che sfornava con foga pazzesca, scriveva anche un gran numero lettere; e, nel contesto del suo ricco epistolario, un posto non certo secondario è occupato da quello con la contessa Hanska, con la quale rimase in contatto a mezzo della parola scritta per la maggior parte del loro amore, durato più di cinque lustri.
L’aveva conosciuta, appunto, per lettera: lei era una sua ammiratrice e, un giorno, s’era decisa a scrivergli; lui ne rimase stregato ancora prima di vederla, le fissò un appuntamento — in Svizzera, a Neuchâtel – nel 1833: si conobbero di persona, si piacquero, s’innamorarono; poco più tardi, a Ginevra, divennero amanti. Fu un amore tumultuoso, passionale, romantico: strano destino, per l’antiromantico Balzac; il quale, via, che si addentrava in questo nuovo sentimento — nuovo perché, pur avendo avuto molte donne, probabilmente non si era mai innamorato di nessuna — andava assomigliando sempre di più a uno dei suoi personaggi, a un papà Goriot che soffre di un amore infelice, non ricambiato. Lei, Eva Hanska, non è chiaro se e quanto lo abbia amato, dopo la prima fase "bollente"; è certo che, per altri sei o sette ani, i due tirarono avanti scrivendosi e vedendosi solo ogni tanto, addirittura a distanza di anni. Ma quando, nel 1841, lei rimase vedova (con una sola figlia da accudire, peraltro già grandicella), Balzac fu posseduto da una vera e propria ossessione: sposarla. Lui, borghese carico di debiti, abituato a una vita quanto mai disordinata, che si sdoppiava fra la sua frenesia di scrittore e qualche fuggevole amorazzo "compensativo", e lei, la nobildonna un po’ superba, un po’ fredda e calcolatrice, che pareva uscita da un altro mondo, popolato ancora dai servi della gleba, e viveva al centro d’una immensa proprietà fondiaria: indubbiamente erano una coppia male assortita, e qualcosa avrebbe dovuto suggerire al gran conoscitore d’uomini, al finissimo psicologo e allo spietato realista, che i conti non tornavano. E invece no, lui s’incaponì come un bambino, come un monomaniaco: a smaniare, strepitare, pregarla, supplicala, lusingarla: la tempestava di proposte matrimoniali, come se da ciò fosse dipesa la sua stessa vita. Lei nicchiava, tergiversava, temporeggiava: e in tal modo lasciò passare la bellezza di quasi dieci anni. Dieci anni che avrebbero potuto essere felici, se fosse stato vero amore da parte di entrambi. Alla fine, vinta da tanta insistenza, lei disse di sì, e lui volò da Parigi all’Ucraina, viaggio più che mai incomodo e faticoso, coi mezzi d’allora; e finalmente celebrarono le nozze ardentemente agognate, fra carrozze, cavalli e servitori innumerevoli, proprio come in una fiaba orientale. Ahimè, troppo tardi: il cuore di Balzac — intendiamo proprio l’organo cardiaco -, sfinito da quel ritmo di vita massacrante, non ce la faceva più: si era ingrossato a dismisura, e, nel giro di soli cinque mesi, cessò di battere per sempre. Fu la fine: ad Eva non restò altro che accudire quel povero marito moribondo, e poi accompagnarlo al camposanto. Avrebbe potuto essere la sua fata buona; fu solo la sua infermiera e, forse, la sua becchina.
Ecco come rievocano questo capitolo della vita del grande scrittore francese, Franca Gambino e altri (in: A.A. V.V., Honoré de Balzac, Milano, Mondadori, 1969, pp. 31-32):
La lunga storia degli amori di Balza c con Eva (Evelina) Hanska, ha, nell’ordine, tre "movimenti" fondamentali: il passionale, il tiepido e il patetico. Il "passionale" è quello dei primi slanci, subito dopo l’incontro con l’ignota "straniera" che gli ha scritto una lettera vibrante d’ammirazione; il "tiepido" quello che vede il protrarsi discontinuo e a volte stanco dei loro rapporti in sede quasi esclusivamente epistolare. "Patetico" è invece il supplizio finale di Balzac, incaponitosi a sposare una donna che vorrebbe invece fuggirlo e che, se acconsente all’unione nuziale, lo fa per pietà, quando lui è ormai allo stremo dell’esistenza. La passione ha inizio a Neuchâtel, nell’autunno del 1833. Lo scrittore e la "straniera" si incontrano sula passeggiata della cittadina, dopo un appuntamento fissato da Balzac, fra la una e le quattro. "Voi siete ancora giovane, mi dicono" scriveva la contessa in una lettera. "Vorrei conoscervi, ma credo di non averne bisogno; un istinto dell’anima mi fa presentire il vostro essere; io me l’immagino, a modo mio, e so che dirò: ‘Eccolo’, appena vi scorgerò". Più o meno le stesse parole le aveva scritto lui: "Sono sicuro che vedendovi quale siete nella realtà dirò: ‘È lei! Lei il mio amore: tu!". Non si hanno particolari precisi sull’incontro e non si sa perciò se fu proprio così sfolgorante come i due avevano pensato. Balzac pare fosse molto colpito dalla bellezza della donna, dalla sua "aria di languore e dignità", dalla espressione "insieme altera e sensuale". Ignoriamo quali fossero le impressioni di lei, di fronte a quell’uomo rotondetto, mal pettinato e dalla dentatura alquanto lacunosa. È però probabile che anche lei, come tante altre, soggiacesse alla particolare luce di intelligenza di quegli occhi "negri scintillanti di fuoco". A Neuchâtel, dunque, il primo incontro e le prime schermaglie. Ma ci sono troppi ostacoli, e ci vuole prudenza. Honoré si accontenta di un fuggevole bacio, e Eva se ne offende. "Cattiva!" le scrive subito lui. ""Non hai visto nei miei sguardi tutto quel che desideravo?… Se non ti ho detto con quale ardore avrei voluto che tu venissi da me un attimo, è solo perché non possedevo un alloggio decente in cui riceverti!… Ma a Ginevra, oh! Mio angelo adorato, a Ginevra, io avrò per il nostri amore più spirito di quanto ne occorrerebbe a dieci uomini per essere spirituali!". Dovette essere una vera e propria kermesse di spiritualità, quell’incontro ginevrino; Honoré alloggiava all’Auberge de l’Arc, vicino alla casa di lei, la Maison Mirabaud al Pré-Lévêque. Gli scambi di visite "ufficiali" — poiché agli occhi del vecchio conte Hanski egli passava quale gradito "amico di famiglia" — coprivano senza difficoltà quelli meno ufficiali. È un momento esaltante. Quarantatre giorni di felicità. Ogni tanto Eva gli fa scenate di gelosia, gli rimprovera le molte relazioni femminili. Ma l’ardente Honoré trova sempre argomenti convincenti. "Madame de Récamier?". Nient’altro che una conoscenza mondana. "La contessa Potocka?". Solo una cuginetta innocente. "E Laura de Berny?". Laura no, proprio n on ebbe l’animo di rinnegarla. Ma, del resto, a che pro? Forse che non potevano starci due ‘dilecte’ in un cuore tanto grande? "Tu sarai la ‘dilecta’ giovane… Non ti scandalizzare per questo accostamento di due sentimenti. Voglio pensare di averti amata in lei…". Un po’ raffazzonata come spiegazione, ma molto, molto romantica…
Gli anni che seguono la stagione del folle amore ginevrino sono densi di avvenimenti che tengono separati i due amanti. Si scrivono spesso, ma lei quando on è gelosa è distratta: lui mente per tranquillizzarla, mente per non trascurare di rubare il più sovente possibile, anche in assenza dell’amata, qualche porzione di felicità agli angeli del Paradiso. "Un artista", dopo l’estenuante lavoro, ha pur diritto "di opporre violente distrazioni alla sua vita, così al di fuori di quella comune!". È il periodo "tiepido" Eva e Balzac si vedono solo a distanza di anni. Quattro giorni a Vienna nel 1835, poi ancora fiumi di lettere e lunga separazione forzata. Lui a Parigi, pieno di debiti, immerso nelle sue innumerevoli bozze nari tirate; lei in Ucraina con la sua vita di principessa, i duemila domestici, la tenuta di ventimila ettari popolata di 3.035 "anime", le carrozze, i cavalli, e la adorata figlia Anna da allevare ed educare. Ognuno ha il suo destino, e forse l’antico amore si spegnerebbe del tutto col tempo se non venisse a riaccenderlo — in Balzac perlomeno — un fatto nuovo: il conte Hanski muore, nel 1841.
Da quel momento, Honoré non sogna che il matrimonio con la "straniera". È qui che il suo amore comincia a tingersi di patetico. Perché nonostante le molte infedeltà, le relative bugie e i non pochi inganni egli l’ha amata davvero, la sua Eva. E proprio adesso che si crede vicino ad afferrare un sogno mai del tutto deposto, l’"angelo adorato" comincia a sfuggirgli. È una storia molto grigia, fatta di paure e incertezze da parte di una donna non più giovane, non più innamorata come un tempo e invece molti legata alle convenzioni sociali e al rispetto del mondo. È ricca, nobile; perché imparentarsi con quel borghese, scrittore sì di un certo genio, ma uomo così incostante, così poco raffinato e, oltretutto, ingolfato sino agli occhi in una situazione economica disastrosa?
Fra incontri, colloqui, suppliche di lui, temporeggiamenti di lei, passano quasi dieci anni. Dieci anni sulla carta son presto scritti. Ma nella vita di un uomo che lavora come un pazzo, senza pace, respinto anche da quel porto d’amore che è divenuto ormai la sua ossessione, sono abbastanza per aprire un comodo varo alla morte. Il tanto atteso matrimonio viene finalmente celebrato il 14 marzo 1850, nella chiesa di Santa Barbara, a Berditcheff, in Ucraina. Ma il destino di Honoré è già segnato. La diagnosi medica è impietosa, ma precisa: ipertrofia cardiaca. Honoré ha violente crisi di soffocazione, bronchiti che gli squassano i polmoni, affanno quasi costante. La vita coniugale di Balzac durerà più o meno sei soli mesi, dopo ben sedici anni di corteggiamenti epistolari e di romantici inseguimenti per tutta l’Europa. Ala straniera rimane tuttavia il merito d’avere almeno accettato di accompagnare Honoré in pace alla fine, restandogli vicina negli ultimi mesi: dal felice 14 marzo al triste 18 agosto. Molto poco. Troppo tardi, s’è decisa a dirgli di sì.
Che dire di questa vicenda fra il romantico e il patetico, fra lo struggente e il patologico, che sembra uscita da uno dei romanzi della Commedia umana, come se Balzac, per una volta, avesse deposto i panni dell’autore e si fosse fatto personaggio di se stesso? È un’idea che sarebbe piaciuta a Pirandello, convinto della maggiore realtà dei personaggi rispetto alle persone, e quindi anche rispetto agli scrittori che creano, ma solo in apparenza, le loro storie; in realtà, da qualche parte, i personaggi, misteriosamente, già esistono, e l’autore non fa altro che fornir loro l’occasione di venire in piena luce.
L’uomo Balzac non è stato all’altezza del Balzac scrittore: e non già perché avesse smarrito la padronanza di se stesso (succede a tutti, quando s’innamorano davvero), ma perché non si è reso conto di aver trasferito su una donna abbastanza ordinaria tutte le sue aspettative letterarie; di aver proiettato su una creatura mortale (e non priva di difetti) la sua sete di assoluto. Questo grande realista aveva un fondo di sentimentalismo ingenuo: puntava troppo in alto, ma con mezzi puramente umani; ed è, questo, il classico corto circuito dell’anima romantica. La donna angelo può condurre l’anima verso Dio; ma la donna puramente umana, per quanto leggiadra e affascinante, non riuscirà nemmeno nell’assai più prosaica missione di dare a un uomo un poco di felicità terrena, se quest’uomo, in realtà, non la vede per come essa effettivamente è, ma la adorna di virtù immaginarie, di attributi fantastici.
Alla fine, il sogno d’amore di Balzac si è trasformato in commedia, in tragedia, in ironica beffa: gli è sfuggito fra le dita come sabbia, lo ha consumato come una candela che si spegne, lo ha letteralmente distrutto. Senza dubbio la sua salute era già minata; ma è probabile che la molla stessa del suo amore "impossibile" gli abbia dato un supplemento di energia per tirare avanti ancora alcuni anni. Quando è riuscito ad afferrare l’inafferrabile oggetto del desiderio, è sopraggiunta la fine: le sue forze si erano consumate, il suo slancio si era ripiegato su se stesso. Il sogno è sempre inferiore alla realtà; e la tensione verso l’impossibile, una volta appagata, non trova più nulla di cui alimentarsi, e non può che spegnersi. È il suo destino. Chi vuole l’impossibile, finisce per autodistruggersi. Solo chi sa vedere le cose finite come un ponte che dev’essere attraversato, come un mezzo per innalzarsi al di sopra di se stesso, ne ha compreso tutto il segreto; e Balzac, questo maestro incomparabile dei segreti più reconditi del cuore umano, non aveva compreso una verità tanto semplice ed essenziale. La sua storia è malinconica e patetica, ma ha in se stessa un significato profondo, che pare essere sfuggito proprio a lui che la viveva.
Forse la verità è che egli non ha mai avuto il coraggio di interrogarsi a fondo sul proprio sentimento; non ha mai osato domandarsi cosa rappresentasse per lui Madame Hanska, e perché fosse divenuta così impellente, così compulsiva, la brama di sposarla a tutti i costi. Si era forse illuso che le cose possano appartenerci intimamente, una volta che noi le abbiamo fatte nostre? Se è così, bisogna concludere che il grande scrittore era rimasto in superficie: non aveva compreso che niente ci appartiene veramente, sul piano materiale; ma che tutto è nostro per sempre, se ci portiamo sul piano della vita soprannaturale. Tuttavia, per fare questa operazione prodigiosa, ci vuole un ingrediente che egli, evidentemente, non aveva, e forse neppure sospettava: la fede. Ecco perché la sua gigantesca Commedia umana rimane come una cattedrale incompiuta; come una torre audacissima, che non è stata portata a compimento.
Le biografie di Balzac ci dicono che egli era un cattolico, un conservatore, un monarchico convinto: ma questi dati esteriori — le maschere, direbbe Pirandello — poco o nulla ci dicono del vero Balzac. Del cattolicesimo, in realtà, sembra essergli mancata la cosa principale: la fede nella Grazia, ossia la consapevolezza che l’uomo, senza Dio, è niente, ma che, unito a Lui, diventa realmente capace di superare qualsiasi ostacolo, di realizzare qualunque obiettivo. C’è troppa fredda analisi e troppo poco calore di fede nel mondo di Balzac. E così, quando ha avuto bisogno lui stesso di quel calore, per poter scaldare la sua vita intirizzita, si è trovato a rimestare in un mucchietto di cenere fredda.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels