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Da sempre la cultura progressista censura l’involuzione politica di Carducci; ma ha ragione?

Dal secondo dopoguerra, la cultura dominante è quella di sinistra, preferibilmente marxista; la scuola, i libri e i professori seguono, da sempre, l’indirizzo prevalente, dunque ripetono in grande maggioranza, in buona o in cattiva fede, ciò che dicono gli intellettuali marxisti e di sinistra: ergo, da settant’anni gli studenti italiani apprendono sui banchi del liceo, grazie all’opera solerte di insegnanti ed estensori dei libri di testo, che Carducci, oltre ad essere stato il poeta "ufficiale" dell’Italia umbertina e reazionaria, oltre ad essere stato un mediocre versificatore, che oggi ha poco o nulla da dire al lettore debitamente pensoso e politically correct, è stato anche una specie di voltagabbana, un rinnegato della sinistra mazziniana e repubblicana, o, quanto meno, un incoerente, e, soprattutto, che la sua vita e il suo pensiero offrono un esempio quasi perfetto di regressione, di involuzione, di scivolamento dalla parte "giusta" della barricata — quale?, quella del popolo lavoratore, che domande — alla parte "sbagliata", vale a dire quella del potere, delle classi abbienti e specialmente della borghesia, quintessenza dell’egoismo e dell’ottusità sociale.

Insomma: era partito bene, il buon Carducci, con tutte quelle idee democratiche e risorgimentali: anzi, il suo pensiero politico avrebbe potuto prestarsi a incarnare i due capisaldi del progressismo democratico: l’amor di patria, scaturente dal mito del Risorgimento, e l’amore della libertà, anticipazione del successivo mito fondativo della Repubblica (di Pulcinella) nata nel 1946, la Resistenza, intesa come lotta di popolo contro l’oppressione e la "barbarie" totalitaria e, perciò, come il prolungamento e la naturale conclusione del Risorgimento medesimo, così opportunamente approvata e sostenuta — oh, ma è un pura e semplice coincidenza! — dalle forze politiche, militari ed economiche anglosassoni, che stavano assestando il colpo mortale e definitivo all’indipendenza nazionale dell’Italia stessa. E poi, chi sa mai cosa gli sarà successo — sarà stata la naturale tendenza dei vecchi a rimbecillirsi, o, come minino, a diventare conservatori; sarà stato qualcosa di peggio, un calcolo, una convenienza del poeta-vate, nonché "trombone" nazionale: sta di fatto che Carducci, dopo una così buona partenza, si è impantanato; la sua mente, il suo giudizio politico hanno perso di smalto e di lucidità: e alla fine, ohimè, è andato a cascare proprio nella palude del conservatorismo più bieco e nella esaltazione della esecrata triade — Dio, Patria, Famiglia — che i progressisti hanno sempre visto, e vedono tuttora (basta vedere quanto zelo continuano a impiegare per distruggerla) come il fumo negli occhi e come il principale ostacolo alla realizzazione dei loro sogni di palingenesi mondiale, mediante la distruzione dei vecchi valori e l’instaurazione dei nuovi, mondialisti, materialisti, laicisti e scientisti.

Insomma: se Carducci si fosse fermato alla fase violentemente anticlericale e irreligiosa dell’Inno a Satana o, almeno, se avesse perseverato nella linea paganeggiante e anticristiana, ancorché più misurata nei toni e più raffinata nei ragionamenti, di poesie come Alle fonti del Clitumno, allora sarebbe andato tutto bene, e il vecchio poeta avrebbe potuto scende nella tomba — con tanto di Premio Nobel somministrato in articulo mortis, e senza neanche potersi recare a Stoccolma per riceverlo — circondato dalla gloria, e con un bel posto fisso assicurato nel Pantheon della grande letteratura e della grande cultura nazionali. Invece, siccome ha operato una incredibile svolta a destra, una imperdonabile retromarcia in senso conservatore e nazionalista, il suo ruolo è stato non solo rimpicciolito sul piano dell’ideologia politica — piano che, per la comprensione del Carducci poeta, interessa poco o niente — ma è stato anche ridimensionato sul piano dell’arte stessa, negandogli, o meglio, ritirandogli, la patente di grande poeta (nel triumvirato delle" tre corone" di fine Ottocento e del primo Novecento, con Pascoli e D’Annunzio), e concedendogli, al massimo, la qualifica di poeta "minore", privo di autentica universalità perché troppo legato alle circostanze particolari del suo tempo, al di fuori delle quali la sua opera mostrerebbe tutte le sue carenze e le sue limitatezze. Perché bisogna sapere che in Italia, da settant’anni a questa parte, funziona così: sono i critici e gli storici di sinistra a decidere chi è un grande scrittore (o un grande artista, o un grande regista cinematografico o teatrale, o un grande pensatore, e persino un grande scienziato), e chi no; sono loro che rilasciano le uniche patenti autorizzate, aventi corso legale. Se essi "decidono" che Dario Fo è stato il più importante scrittore italiano (e sottolineiamo: scrittore, non attore di teatro), almeno dopo Montale, allora ecco che arriva, quasi miracolosamente, il Premio Nobel, arrivano la celebrità, le recensioni, il pubblico; se quei signori, invece, avanzano delle riserve su un poeta come Mario Luzi, non per altra ragione che la sua ispirazione religiosa e cattolica, allora si può star certi che non arriverà alcun Nobel e che quel nome resterà confinato nei paragrafi secondari delle antologie, e i professori politicamente corretti — cioè quasi tutti — lo ignoreranno nelle loro lezioni, sicché il grande pubblico non arriverà mai a conoscerne la grandezza.

Ecco come la progressiva svolta ideologica di Carducci viene rievocata, nella prestigiosa Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, dalla penna di uno studioso tipicamente schierato a sinistra, da ex partigiano quale è stato: Giambattista Salinari (Milano, Garzanti, 2001; edizione per il Corriere della Sera, 2005, vol. 15, pp. 188-190):

…Parallelamente all’amore per Lidia [nome poetico attribuito da Carducci a Carolina Cristofori Piva, conosciuta nel 1872 e divenuta oggetto di un amore passionale, violento e geloso, quantunque fosse spostata e con figli]si sviluppa gradatamente e lentamente il suo nuovo orientamento politico. Dovuto a sollecitazioni molteplici e di diverso genere. Il suo giacobinismo raggiunse la punta più alta nel 1871, quando tra le varie correnti repubblicane e mazziniane egli fu sul punto di scegliere quella che si era ormai orientata verso l’anarchia e il socialismo, poi cominciò il suo ripiegamento finché quasi inavvertitamente si trovò collocato nella parte precisamente opposta. Questo processo cominciò molto rima della sua adesione ufficiale alla monarchia (1890) e molto prima della cosiddetta ode reginale (1878) ed è legato agli avvenimenti che portarono, se non alla disgregazione, alle molteplici divisioni e suddivisioni del partito mazziniano dopo il 1860. Il Carducci rimase a lungo incerto, specialmente negli anni immediatamente successivi al 1866 tra le soluzioni estreme e ribellistiche e subì l’influsso diretto o indiretto del pensiero di Herzen e di Bakunin. Ma poi non solo per stanchezza, sebbene anche questo non sia da escludere, e non solo per l’orientamento di molti dei suoi amici e degli uomini politici da lui più stimati(Benedetto Cairoli, Giuseppe Zanardelli, Francesco Crispi), ma soprattutto per una diversa analisi che egli a un certo puto fece della società italiana, mutò opinione e indirizzo e giunse al riconoscimento delle possibilità di azione benefica per l’intera nazione del ceto borghese e dell’istituzione monarchica che lo rappresentava. Alla formazione di questo convincimento certo contribuì il successo di Bismarck e della sua politica, il timore che nella gara di potenza ormai sfrenatasi tra le potenze europee, l’Italia, diminuita e indebolita dalle lotte interne, rimanesse schiacciata e distrutta. E questo spiega anche il sostegno che egli dette alla politica di Crispi e l’ammirazione sconfinata che ebbe per lui. Nel 1882 comunque la sua conversione da giacobino a girondino era già avvenuta anche sul piano teorico, poiché proprio in quell’anno egli scrisse:

"Ora il razionalismo giacobino, mova da Montesquieu o da Rousseau, mira in teoria a rifoggiare la società, senza tener verun conto, anzi con gran disprezzo, delle cose e dei fatti, della geografia, dell’etnologia, della antropologia, della storia, sur un modello rigido e stecchito, ch’esso imbottì a priori dei postulati d’una filosofia tutta tra soggettiva ed empirica e tutta cervellotica; tende poi nel’azione con smaniosa e malaticcia impazienza, e con feroce odio dei vigori della varietà, ad appianare, a potare, a unificare, a concentrare" (Opere, XXIV, p. 161).

In queste affermazioni c’è l’accettazione totale di tesi già da lui avversate e respinte, ma una volta messosi sulla china andò molto oltre e riconobbe vere e accettò in tutto le tesi moderate, vedendo nella monarchia la realizzazione di tutto ciò che era essenziale nelle altre correnti e nelle altre componenti risorgimentali. Nel 1895 ebbe a scrivere infatti secondo il suo stile celebrativo tipico degli ultimi tempi:

"Costituito a’ 26 febbraio del 1861 il regno d’Italia, Camillo Cavour, che già aveva rapita o accettata la fede unitaria del Mazzini e del Garibaldi, finisce solennemente, il 25 marzo con accettare per la monarchia tutta la rivoluzione italiana dal 1796 in poi, proclamando Roma sola capitale d’Italia. L’Italia è fatta, se non compiuta, coi plebisciti veneto del 21 ottobre 1866 e romano del 2 ottobre 1870. Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazioni di più grandi e pure intelligenze, né con sacrificii di più nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento di tutte le parti sane del popolo" (Opere, XVIII, p. 152).

E già precedentemente era giunto a difendere quella che anch’egli ora chiamava la borghesia e a scagliare i suoi epodi contro la parte opposta, che anch’egli accusò semplicisticamente di negare la patria.

Insomma: è abbastanza evidente in che cosa Carducci ha deluso, ha sgarrato, in che cosa ha tradito i "compagni" massoni e di sinistra. A un certo punto della sua vita, si è guardato intorno e si è accorto che su una cosa soltanto la nazione italiana, giovanissima quanto alla sua vita statale, avrebbe potuto far leva per trovare in se stessa le risorse necessarie ad affrontare le sfide della modernità, per opporsi efficacemente alle poderose forze disgregatrici che operavano sia sul piano interno, acuendo la discordia fra le classi sociali, sia sul piano internazionale, delineando minacciosi scenari di competizione politica, economica e militare, che sarebbero sfociati, infatti, nel suicidio europeo della Prima guerra mondiale: la monarchia sabauda, e, intorno ad essa, i valori dell’antica, sana tradizione italiana: la famiglia "borghese" e la già disprezzata religione cattolica (pur senza convertirsi, né mutare idea quanto alla sua verità soprannaturale: ma con sufficiente onestà per rivedere il proprio giudizio storico sulla Chiesa e sul cristianesimo in generale). Guarda caso, sono le stesse forze centrifughe che stanno minando non solo l’Italia, ma l’Europa intera, e non solo essa, in questo inizio del Terzo millennio: il che dimostra quanto l’intuizione di Carducci fosse non già retrograda, ma, semmai, lungimirante e premonitrice; e come molte delle cose che si trovano nella sua poesia, a livello di contenuti, siano di forte attualità, ben più di quanto la critica e la storiografia politicamente corrette saranno mai disposte a riconoscere.

Il modo in cui Giambattista Salinari descrive lo spostamento ideologico di Carducci su posizioni via, via, più conservatrici, tradisce, già dall’uso delle parole, la sua faziosità e la sua partigianeria. Egli parla, infatti, di "ripiegamento", di "mettersi sulla china", di "accettare le tesi moderate", di "semplicismo" nella critica alle tesi della sinistra. Il bello è che, dopo aver individuato, giustamente, nel riconoscimento del ruolo nazionale della monarchia, la molla del nuovo orientamento politico di Carducci, il Salinari non si prende affatto il disturbo di mostrare dove, eventualmente, questo ragionamento facesse difetto, in che cosa fosse erroneo, e perché: si limita a rinfacciare a Carducci la sua incoerenza, per aver sostenuto cose diverse e contrarie a quelle che sosteneva da giovane. Sposta cioè il giudizio dal piano storico a quello etico, dal piano generale al piano personale: una tecnica vecchissima e intellettualmente non molto onesta, ma tipica della sua parte ideologica. Invece di discutere nel merito, si scagliano anatemi moralistici contro gli autori non allineati. Inutile aggiungere che ciò avviene quando si tratta di stigmatizzare l’incongruenza di chi è passato dalle posizioni di sinistra a quelle di destra; perché, qualora si verifichi il caso contrario, l’atteggiamento di siffatti storici e critici è completamente diverso, pieno d’indulgenza e comprensione. In quei casi, l’incoerenza cessa di essere un elemento negativo e diventa poco meno di una virtù, e, in ogni caso, un segno evidente di onestà interiore e di lungimiranza culturale e politica.

Eh no, cari signori della sinistra politicamente corretta: troppo comodo, troppo facile. Voi scrivete le regole e poi pronunciate le sentenze: pretendete di essere giudici e avvocati nel medesimo tempo. Giocate con i dadi truccati e così finite per vincere tutte le partite, ad aver sempre l’ultima parola. Sui libri di scuola, dalle cattedre dei professori, si raccontano ai giovani una storia, una filosofia, una letteratura, addomesticate e deformate secondo i vostri schemi mentali e i vostri obiettivi politici. Avete tirato su un paio di generazioni d’italiani ignoranti e presuntuosi. Complimenti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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