
Per fare un grande romanzo storico ci vogliono grandi vicende nazionali?
15 Marzo 2016
È stato un grande scrittore, Dario Fo? Meritava il premio Nobel per la Letteratura?
16 Marzo 2016Dasio fu un soldato cristiano che subì il martirio a Durostorum, sul Danubio (oggi Silistra, in Bulgaria, che fu anche la patria dell’ultimo grande generale romano, Flavio Ezio, morto nel 454 d.C.), il 20 novembre del 303, al tempo della persecuzione di Diocleziano. Esiste una "Passio", di autore ignoto, la quale narra come egli si sia rifiutato di impersonare il ruolo di Kronos (Saturno), cui era stato eletto durante i Saturnali, e che preferì affrontare il martirio dichiarandosi cristiano e rifiutando il culto degli dei, alla presenza del legato militare Basso, che lo condannò a morte. In effetti, il "re" dei Saturnali era comunque destinato a morire, ragion per cui veniva estratto a sorte; ma Dasio non volle morire da pagano e dichiarò apertamente la sua fede in Cristo. Che non si tratti di un personaggio leggendario, ma di un uomo realmente vissuto e morto nelle circostanze che abbiamo detto, è provato dall’esistenza di un sarcofago, ora conservato nel Museo Diocesano di Ancona, ma proveniente dalla Cattedrale (un tempo dedicata a San Lorenzo, poi a San Ciriaco), che ne custodiva le spoglie mortali; sembra che la salma sia stata trasportata al di là dell’Adriatico nel VI secolo, al tempo delle invasioni degli Avari nella Penisola Balcanica. Ci sono, peraltro, cinque o sei santi che portano il nome di Dasio; e, in particolare, un altro martire, che fu giustiziato, sempre durante la persecuzione di Diocleziano, ma a Nicomedia, insieme a due suoi colleghi, come lui domestici dello stesso imperatore: Zotico e Caio. Ma il San Dasio di cui parlavamo, quello sepolto ad Ancona, ha dato luogo ad accese controversie proprio perché molti autori moderni, anche di parte cattolica, tendevano a considerare come puramente leggendaria la storia del re dei Saturnali; è toccato a uno studioso perfettamente laico, l’antropologo scozzese sir James Frazer (nato a Glasgow nel 1854 e morto a Cambridge nel 1941), nel suo vastissimo lavoro di etnologia comparata «Il ramo d’oro», rivendicare l’attendibilità e, dunque, l’assoluta storicità del racconto della "Passio" di questo santo non molto conosciuto in Occidente, benché le sue spoglie siano state custodite per circa mille anni nella chiesa anconetana di San Pellegrino, sotto l’altar maggiore, prima di essere traslate nella Cattedrale e, infine, nel Museo di Arte sacra..
Ora, una antichissima usanza religiosa pagana era quella relativa al "re di Nemi", della quale parlano Virgilio, Orazio e altre fonti antiche: uno schiavo fuggitivo poteva garantirsi l’impunità se riusciva a uccidere il suo predecessore, sostituendolo, così, nelle sue funzioni di sacerdote di Diana Aricina (la Diana venerata ad Ariccia), che aveva un bosco sacro ed un santuario presso le rive scoscese del lago di Nemi; e questo, ovviamente, fino a quando non fosse stato a sua volta ucciso, in una specie di duello rituale, da un altro aspirante re-sacerdote, che lo avrebbe di nuovo sostituito; e così via, all’infinito. Questa usanza dimostra, secondo Frazer, che il caso del martire Dasio, e, in generale, del re dei Saturnali, investito della tragica parte di capro espiatorio di una uccisione sacra finalizzata al rinnovarsi dei cicli della natura e della vita, rientrava in una usanza più vasta e diffusa, che risaliva molto indietro nel tempo, quando Roma era ancora una modesta città del Lazio e, dunque, assai prima che la religione degli antichi Romani ricevesse l’apporto, che l’avrebbe trasformata e snaturata, di molti altri culti provenienti da ogni parte del suo Impero, e specialmente dalle regioni orientali, caratterizzate da culture più evolute e complesse.
Scriveva, dunque, James Frazer nel suo capolavoro, «Il ramo d’oro» (titolo originale: «The Golden Bought»; traduzione dall’inglese di Nicoletta Rosati Bizzotto, Roma, Newton Compton, 1992, cap. LVIII, pp. 648-650):
«Se teniamo presente che la libertà concessa agli schiavi in quei giorni di festa doveva imitare quella che era la società dei tempi di Saturno, e che, in genere, i "Saturnalia" sui ritenevano n più nemmeno che una temporanea restaurazione del regno di quel felice monarca, saremmo tentati di supporre che il finto re, il quale presiedeva ai divertimenti, rappresentasse Saturno stesso. L’ipotesi trova conferma, se non certezza, in uno strano e interessante resoconto sul come festeggiassero i Saturnali le legioni romane accampate sul Danubio, sotto il regno di Massimiano e Diocleziano. Il resoconto è contenuto nella narrazione del martirio di S. Dasio, scoperta in un manoscritto greco nella Biblioteca di Parigi, e pubblicata dal professor Franz Cumont, di Ghent. Due descrizioni, più succinte, della cerimonia, ci vengono anche da due manoscritti, a Milano e a Berlino; uno di essi è già apparso un volume poco conosciuto, stampato a Urbino nel 1727, e di cui non si apprezzò l’importanza per la storia antica e moderna religione romana, fino a quando il prof. Cumont richiamò l’attenzione degli studiosi sui tre manoscritti, pubblicandoli in un volume unico, qualche anno fa. Secondo quelle cronache, che hanno tutta l’aria di essere autentiche, e di cui la più estesa si basa, probabilmente, su documenti ufficiali, i soldato romani di stanza a Durostorum, nella Bassa Mesia, così celebravano ogni anno i Saturnali. Un mese prima della festa sceglievano, tirando a sorte, uno di loro, giovane e bello, che poi rivestivano di panni regali, a somiglianza di Saturno. Così paludato, e seguito da una moltitudine di soldato, il giovane si aggirava per le strade, dando libero sfogo alle sue passioni e alle sue voglie, anche le più basse e vergognose. Ma se il suo regno era gioioso, era anche breve, e finiva tragicamente, allo scadere dei trenta giorni, quando avevamo inizio i Saturnali, e il giovane si tagliava la gola sull’altare di quel dio che egli impersonava. Nell’anno 303 d. C., la sorte cadde su un soldato romano, Dasio, il quale però rifiutò di prestarsi ad incarnare una divinità pagana e di contaminare i suoi ultimi giorni con azioni vergognose. A nulla valsero le preghiere e le minacce del suo comandante Basso, per convincerlo; Dasio, come registrato fedelmente dal martirologio cristiano, fu quindi decapitato a Durostorum, da un soldato di nome Giovanni, il ventiquattresimo giorno della luna, all’ora quarta.
Da quando il professor Cumont pubblicò quel manoscritto, la sua autenticità storica, prima messa in dubbio o negata, trovò conferma in un’interessante scoperta. Nella cripta della cattedrale che si erge sul promontorio di Ancona, fra le altre pregevoli opere antiche, è conservato un sarcofago di marmo bianco con un’iscrizione in greco, nei caratteri usati al tempo di Giustiniano, che dice così: "Qui giace il santo martire Dasio, portato da Durostorum". Il sarcofago venne trasferito nella cripta della cattedrale nel 1848, dalla chiesa di S. Pellegrino, sotto il cui altar maggiore, come indica un’iscrizione latina inserita nel muro, riposano ancora le ossa del martire con quelle di altri due santi. Non sappiamo per quanto tempo il sarcofago rimase nella chiesa di S. Pellegrino; dai documenti, risulta che ancora vi si trovasse nel 1650. È probabile che le reliquie del santo siano state traslate ad Ancona per sicurezza, durante uno dei tanti periodi tumultuosi che caratterizzarono i secoli successivi al suo martirio, quando la Mesia fu ripetutamente invasa e saccheggiata dalle orde dei barbari. Comunque, grazie alla testimonianza, indipendente e reciprocamente probante, del martirologio e dei monumenti, è sicuramente accertato che Dasio non fu un personaggio mitico ma un uomo in carne e ossa che, per la sua fede, diede la vita a Durostorum, in uno dei primi secoli dell’era cristiana. Confermato così il racconto dell’ignoto autore del martirologio, e cioè che il martirio di S. Dasio avvenne veramente, possiamo anche accettarne la testimonianza circa i modi e le cause di quel martirio, tanto più che il suo racconto è preciso e circostanziato, assolutamente scevro da spunti miracolistici. Di conseguenza, ritengo che la descrizione dei Saturnali fra le legioni romane sia senza dubbio degna di fede.
Ed è un resoconto che getta una luce nuova, e molto più sinistra, sulla funzione del re dei Saturnali, l’antico signore della trasgressione, che presiedeva ai bagordi invernali nella Roma di Orazio e di Tacito. A quanto sembra, il suo compito non era sempre stato quello del buffone, del buontempone, incaricato di far divertire e scatenare il popolo, fra il crepitare della legna accesa nei focolari, la folla e la confusione per le strade, mentre lontano, a nord dell’Urbe, il monte Soratte sfavillava candido di neve nell’aria gelida e cristallina. Confrontando quel comico monarca della civilizzata e gaia metropoli con il suo truce omologo nei rozzi accampamenti sul Danubio; e ricordando la lunga serie di personaggi, altrettanto comici eppur tragici che, in altre epoche e altri paesi, sfoggiando finte corone variopinti mantelli, hanno recitato la loro infantile commedia regale per poche ore, o pochi giorni, e poi sono morti prematuramente di morte violenta, non c’è dubbio che il re dei Saturnali a Roma, come ci viene descritto dagli autori classici, non fosse che una copia sbiadita ed emasculata dell’originale, i cui tratti violenti ci sono stati per fortuna tramandati dall’ignoto autore del "Martirio di San Dasio.»
Il rito consistente nel fare di un essere umano il sacerdote o il re, temporaneo, di un determinato luogo (il bosco sacro di Diana, presso il lago di Nemi) o di un determinato culto (la festività dei Saturnali, carica di una religiosità orgiastica), per poi sopprimerlo o costringerlo a suicidarsi, rivela un tratto caratteristico della civiltà antica: l’assoluta noncuranza, il disprezzo per il valore della vita umana, e la crudeltà di una religione che non si è del tutto liberata dall’antichissima usanza del sacrificio umano in onore della divinità o a scopo propiziatorio e apotropaico (cioè scaramantico, per esorcizzare e allontanare il male). Anche la pratica di esporre i bambini nati con qualche difetto fisico, riservata alla suprema potestà del capofamiglia; per non parlare della liceità dell’uccisione degli schiavi da parte dei loro padroni; e, infine, la pratica frequente di quelle immense carneficine trasformate in spettacoli, che erano i combattimento dei gladiatori, o i combattimenti fra gli uomini e gli animali feroci, o le esecuzioni capitali pubbliche, mediante la crocifissione, il rogo, le belve: tutto questo indica quanto poco valesse la vita umana, nel concetto dei Greci e, più ancora, dei Romani. Sarebbe più esatto dire che, per essi, la vita umana non costituiva un valore, ma possedeva un valore, in presenza di determinate condizioni; se tali condizioni venivano a mancare, come nel caso della perdita della libertà, o di una grave malattia, o di un forte disonore, allora la vita perdeva ogni valore e chi si mostrava attaccato ad essa appariva come un vile, mentre era elogiato come un saggio colui che, stoicamente, poneva fine ai suoi giorni. E, se ciò era vero per quanto riguarda la propria vita, lo era anche, e a maggior ragione, per la vita altrui: non solo quella dei nemici vinti e fatti prigionieri, o dei criminali condannati da un tribunale, ma anche quella dei propri familiari, della propria moglie adultera, del proprio figlio malato o deforme; la virilità dell’uomo romano si esercitava proprio nel non mostrare pietà nei confronti di tali situazioni, ciò che sarebbe equivalso ad una ammissione di debolezza. E non c’era cosa che l’uomo romano (e anche il greco; ma, in generale, l’uomo antico) temesse di più di questa: mostrarsi debole.
La grandezza della rivoluzione interiore apportata dal cristianesimo si mostra anche, e forse soprattutto, da questo: dalla rivalutazione della dignità della persona umana, della sacralità della vita umana, della nobiltà del lavoro (prima disprezzato e riservato agli schiavi e alle persone di bassa condizione), a cui corrisponde anche una nuova concezione dei rapporti umani, dei rapporti familiari, e della relazione dell’uomo con Dio. Nel cristianesimo, Dio non solo aborrisce dal sangue umano, ma si sacrifica Lui sulla croce, per amore degli uomini e per riscattarli dalla schiavitù del peccato: li compra a caro prezzo per farne degli uomini liberi, e, perciò, degli uomini nuovi. Un oscuro martire del IV secolo, San Dasio, il quale, davanti alla morte, decide di proclamare la sua fede cristiana, non perché speri di salvarsi (in quanto estratto a sorte come re dei Saturnali, la sua sorte è ormai segnata), ma per testimoniare Cristo e per poter accedere all’eterna beatitudine, ci mostra tutta la profondità di tale rivoluzione: proprio dal fatto che la sua professione di fede non era finalizzata alla speranza di salvezza in questa vita, noi possiamo vedere, in controluce, quanto grande doveva essere la sua speranza di salvezza nell’altra vita, quella eterna.
E un’altra cosa va osservata, non meno importante: la nuova concezione circa la serietà della vita introdotta dal cristianesimo. La vita è una cosa seria, perché è un dono divino; non è una buffonata, né una tragicommedia; non è lecito giocarsela a sorte, né scherzare con la morte, tanto la propria, che l’altrui: la figura del re-buffone, che poi si uccide o viene sacrificato, appartiene a quel mondo pagano che scompare, insieme ai ludi gladiatori e agli spettacoli cruenti con le bestie feroci, ad opera del cristianesimo. Dovrebbero tenerlo presente quegli intellettuali odierni che rimpiangono la scomparsa del paganesimo e che vedono, in esso, solo la raffinatezza delle filosofie neoplatoniche…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash