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Per fare un grande romanzo storico ci vogliono grandi vicende nazionali?

Per scrivere un romanzo storico che possieda un respiro autenticamente universale, è necessario collocarlo in una cornice nazionale di ampio respiro; e, soprattutto, è necessario presupporre un sentimento nazionale radicato e maturo?

Sembrano domande piuttosto bizzarre; eppure non solo le pone, ma vi risponde affermativamente, uno dei massimi (e dei pochi) intellettuali marxisti che abbiano avuto un alto profilo internazionale, il filosofo ebreo ungherese György Lukács (Budapest, 1885-1971), in una sua opera "classica", «Il romanzo storico», scritta mentre l’Autore si trovava in Unione Sovietica, nel 1936-37, ospite del Paradiso staliniano.

In sintesi, parlando di Alessandro Manzoni e paragonando «I promessi sposi» ad «Ivanhoe» di sir Walter Scott, e alle altre opere del famoso romanziere scozzese, egli se ne viene fuori con una teoria decisamente originale: sostiene che, per poter scrivere un buon romanzo storico, è necessario che lo scrittore disponga di un retroterra storico-culturale idoneo, vale a dire una società nella quale si è sviluppato, non importa come e a che prezzo, un saldo sentimento nazionale; se ciò non si dà, la materia del romanzo risulterà fatalmente meschina, limitata, con qualcosa di asfittico e, per usare le sue parole, con una sorta di limitazione dell’orizzonte umano.

Secondo lui, nei romanzi storici di Walter Scott si respira una dimensione universale, anche quando l’Autore tratta di vicende legate a piccoli clan scozzesi e a situazioni, in se stesse, modeste, perché lo sfondo è quello di una dimensione storica in movimento, sorretta da un forte sentimento patriottico, che aprono un orizzonte più ampio, quello della storia "vera"; mentre in Manzoni, come pure negli scrittori romantici tedeschi, la frammentazione politica e la debolezza del sentimento nazionale (ma questo è valido anche per la Germania?), si ha a che fare con un orizzonte provinciale, limitato, meschino, nel quale non è possibile che un autore, per quanto geniale — ed egli riconosce, bontà sua, che Manzoni è, in molte cose, superiore a Walter Scott — possa attingere più di una volta le vette dell’arte nel romanzo storico.

Per questo, secondo lui, Manzoni non avrebbe potuto replicare il successo dei «Promessi sposi»: la sua abilità si vede anche dal fatto che si è limitato a tentare una sola volta la strada del romanzo storico nell’ambiente della società italiana. Dopo aver formulato questa bizzarra teoria, ed essersi guardato bene dal tentare, se non di spiegarla, almeno di chiarirla, aggiunge, come a riprova, che Walter Scott, invece, non annoia mai i suoi lettori, pur avendo scritto diversi romanzi storici su una materia che è sempre la stessa, quella della società inglese e scozzese dei secoli passati. Strano modo di ragionare: come si fa a mettere a confronto le opere che uno scrittore ha scritto, e quelle che un altro scrittore non ha scritto? E chi lo autorizza a sostenere che Manzoni non avrebbe potuto scrivere due, tre, quattro romanzi storici di ambientazione italiana? Forse che, nella storia italiana, manca un respiro universale? Ma andiamo! La storia italiana è stata, per parecchi secoli, il centro della civiltà europea e mondiale: il cristianesimo, il papato, i comuni, l’umanesimo, il rinascimento, i più grandi geni del XVI e XVII secolo, gli artisti, gli scienziati, i navigatori, i santi: e la prima forma di capitalismo moderno, quando il fiorino era la moneta aurea del continente. Non ce n’è abbastanza per costruire, attorno a personaggi comuni, come Renzo e Lucia, dieci, cento, mille romanzi storici? Che cos’ha la storia scozzese, o quella inglese, che non vi sia in quella italiana, e in misura assai più universale, in un orizzonte assai più spazioso?

Scrive, dunque, György Lukács nel suo saggio «Il romanzo storico» (titolo originale: «Der historische Roman», Berlin, Aufbau Verlag, 1957; traduzione dal tedesco di Eraldo Arnaud, Torino, Einaudi, 1965, pp. 81-83):

«Una simile situazione sfavorevole [simile, cioè, a quella della Germania dei primi anni del XIX secolo] sussiste anche per l’Italia. In questo paese, però, Walter Scott ha trovato un continuatore che, sia pure in una sola opera, ne ha sviluppato in modo grandioso e originale le tendenze e lo ha superato in più aspetti. Alludiamo naturalmente ai "Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni. Lo stesso Walter Scott ha riconosciuto questa grandezza di Manzoni. Allorché quest’ultimo a Milano gli disse di essere un suo discepolo, Walter Scott rispose che in tal caso l’opera del Manzoni era la sua opera migliore. È però molto caratteristico che, mentre Walter Scott poté scrivere tutta una serie di romanzi sulla storia inglese  e scozzese, Manzoni si sia limitato a quest’unico capolavoro. Ciò non dipende certo da un limite del talento personale di Manzoni. La sua capacità inventiva per l’intreccio, la sua fantasia nel rappresentare caratteri delle più diverse classi sociali, la sua sensibilità per l’autenticità storica nella vita interiore ed esteriore dei personaggi sono qualità ch’egli possiede in grado almeno pari a Walter Scott. Anzi proprio nella ricchezza e nella profondità con cui sono delineati in caratteri, nella completa utilizzazione dei grandi contrasti tragici per delineare la psicologia dei personaggi, Manzoni è perfino superiore. Come creatore di figure individuali egli è un poeta superiore  a Walter Scott.

Come poeta veramente grande egli ha trovato quel tema in cui è superata la caratteristica oggettiva che rende la storia italiana poco adatta per un vero romanzo storico che possa trascinare il lettore e in cui i contemporanei possano rivivere il proprio passato. Egli infatti, ancor più dello stesso Walter Scott, confina nello sfondo i grandi avvenimenti storici, sebbene li delinei tutti con quella concretezza dell’atmosfera storica di cui Walter Scott era stato il maestro. Ma il suo tema fondamentale non è, come sempre in Walter Scott, una concreta crisi della storia nazionale, bensì la situazione di perenne crisi di tutta la vita del popolo italiano in conseguenza della divisione dell’Italia e del carattere feudale-reazionario che le continue piccole guerre e la soggezione a potenze straniere avevano impresso alle singole parti del paese. Manzoni descrive  quindi direttamente soltanto un episodio concreto della vita del popolo italiano:  l’amore, la separazione e il ritrovarsi di un giovane e di una fanciulla, entrambi di condizione contadina. ma nella sua rappresentazione il fatto si sviluppa in modo da diventare la generale tragedia del popolo italiano  in una situazione di avvilimento e spezzettamento nazionale. Senza mai uscire da una concreta cornice locale e temporale;  da una psicologia condizionata dall’epoca e dalla classe sociale, il destino dei due protagonisti diventa "la" tragedia del popolo italiano in genere.

Con questa grandiosa e profonda concezione storica Manzoni crea un romanzo che per l’efficacia dei sentimenti umani supera perfino il suo maestro. Ma se si considera l’intimo carattere della materia trattata, si comprende come questo romanzo dovesse necessariamente essere unico, e che una ripetizione non avrebbe potuto esser tale che nel senso peggiore. Walter Scott, nei suoi romanzi riusciti, non si ripete mai; infatti la storia stessa, la rappresentazione di determinate crisi porta di volta in volta elementi nuovi. Questa inesauribile varietà di argomenti non si offriva al genio di Manzoni nella storia italiana. L’accortezza dello scrittore si manifesta nell’aver seguito l’unica via che conduceva a una grande visione della storia italiana e nell’avere al tempo stesso compreso che ivi la perfezione era raggiungibile solo in un singolo caso.

Ciò naturalmente ebbe le sue conseguenze anche per lo stesso romanzo. Abbiamo già messo in evidenza quei tratti umani e poetici che per certi aspetti innalzano Manzoni al di sopra di Walter Scott. Ma la mancanza di quella base storica che Goethe ammirava in Walter Scott, non può farsi sentire solo nei contenuti. Essa ha anche profonde conseguenze artistiche:  la mancanza di quell’atmosfera di storia universale, che in Scott si avverte anche quando descrive per esteso piccole lotte di clan, si manifesta in Manzoni anche come un’interna limitazione dell’orizzonte umano delle sue figure. Nonostante la verità storica ed umana, nonostante la profondità psicologica che il poeta conferisce loro, nelle loro manifestazioni vitali esse non si possono innalzare a quelle altezze storicamente tipiche che formano i punti culminanti dell’opera di Walter Scott. Rispetto alla drammaticità eroica della Jeanie Deans o della Rebecca di Walter Scott, le vicende di Lucia sono solo un idillio minacciato dall’esterno, e d’altro lato alle figure negative del romanzo deve necessariamente legato un certo tratto di meschinità: esse non possono – proprio nella loro negatività – rivelare dialetticamente i limiti storici di tutto il periodo e con essi anche quelli delle figure positive, come fa invece, per esempio, il templario di "Ivanhoe".

Ben diverse erano le possibilità del romanzo storico nel paese allora più arretrato d’Europa: la Russia. Nonostante l’arretratezza economica, politica e culturale, l’assolutismo zarista ha qui creato l’unità nazionale e l’ha difesa contro i nemici esterni. Pertanto i più notevoli rappresentanti dello zarismo, particolarmente quando rappresentano al tempo stesso l’introduzione della civiltà occidentale in Russia, possono diventare i personaggi di un romanzo storico che quell’epoca, quantunque cronologicamente lontana e volta verso altre mete sociali, politiche e culturali, poteva sentire come preparazione e fondamento reale della sua propria esistenza. Il corso complessivo della storia russa non presenta quindi, dal punto di vista nazionale, quella meschinità di situazioni che è propria della storia italiana o tedesca.»

Dunque, non solo l’Inghilterra di Walter Scott, ma anche la Russia di Puskin, si presterebbe assai più dell’Italia di Manzoni, o della Germania di Willibald Alexis, alla composizione di un romanzo storico: perché, se la prima ha alle spalle la vicenda di una forte monarchia nazionale, anche la Russia ce l’ha, e sia pure nella forma del dispotismo autocratico degli Zar, e in un quadro di generale arretratezza delle strutture economico-sociali. Niente monarchia nazionale, niente quadro adatto per un romanzo storico, dunque: ma chi l’ha detto?

Può sembrare strano che György Lukács, che pure non è (troppo) avaro di lodi al Manzoni, mostri una così totale incomprensione della concezione storico-letteraria del Nostro: possibile che non si renda conto che Manzoni ha voluto mostrare, appunto, come si possa fare un romanzo storico partendo dal basso, con situazioni umili e quotidiane, e con personaggi tutt’altro che epici? Quando poi dichiara, con saccenteria, che Lucia è solo una ragazza gelosa del proprio idillio contrastato, mostra di non aver capito nulla del significato spirituale, cristiano, del romanzo: e infatti non nomina neppure il cristianesimo, non spende una parola per il vero protagonista del romanzo, che è la Provvidenza. Forse che al marxista Lukács riesce impossibile spogliarsi dei suoi pregiudizi ateisti e guardare al romanzo di Manzoni con onestà e obiettività, riconoscendo in esso l’epos dei semplici, illuminati dalla fede cristiana?

Il filosofo ungherese sottolinea che, nella società avvilita dalle divisioni politiche e dalla soggezione allo straniero, esisteva una "tragedia permanente"; il che, secondo lui, andrebbe contro il principio della "individualità" della tragedia storica da rappresentare. Ma, di nuovo: chi lo dice? Parlando della servitù e dell’avvilimento delle masse contadine in Russia, egli dice che le rivolte, come quella di Pugačëv o di Sten’ka Razin, costituiscono un valido sfondo per un romanzo storico: dunque il problema è questo? Che nella storia italiana (e in quella tedesca) si incontrano troppo poche rivolte? Il problema è, dunque, che la "rassegnazione" cristiana dei personaggi di Manzoni non va d’accordo con le teorie di Marx circa la lotta di classe permanente e inevitabile fra i possidenti i lavoratori sfruttati? Di nuovo: è la prospettiva cristiana di Manzoni, ciò che disturba la sua lettura della storia? Manzoni ha voluto mostrare che si può fare un romanzo storico parlando dei piccoli, degli anonimi; Lukács insiste a parlare di Pugačëv e Sten’ka Razin, se proprio non si può parlare di Ivan il Terribile o di Pietro il Grande. Insomma, per lui, i grandi ci devono pur essere: niente grandi, niente romanzo storico. Decisamente, non ha capito nulla di Manzoni e dei «Promessi Sposi»; e sospettiamo che abbia capito assai poco del romanzo storico in quanto tale. Ma tant’è: per un filosofo che ha fatto sue le categorie pseudo-scientifiche del marxismo, quali la lotta di classe e l’azione progressiva delle classi possidenti — un tempo la nobiltà feudale, poi la monarchia nazionale, infine la borghesia capitalista — come preparazione all’avvento finale del proletariato e della società comunista, non stupisce più di tanto una incomprensione così ottusa, così totale, di quegli artisti e di quei fenomeni storici che non si lasciano inquadrare nelle suddette categorie…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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