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13 Marzo 2016Paolo Sarpi è il prototipo del frate progressista, intrigante, sleale verso la sua Chiesa

La tradizione storica politically correct ci presenta Paolo Sarpi (1552-1623), il frate servita che difese Venezia nella vicenda dell’Interdetto papale (1606) come un nobile riformatore religioso, tutto proteso a favorire il rinnovamento della Chiesa e la sua purificazione dalle compromissioni mondane, tutto assorbito nel suo sogno di una rinascita del cristianesimo in senso autenticamente evangelico; ma è proprio così? Questa immagine di Paolo Sarpi corrisponde al vero? E la funzione da lui svolta nel contesto della religiosità e della politica italiana del primo Seicento, è stata davvero nobilmente idealistica e disinteressata? Sovente si paragona Sarpi a Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Galileo Galilei: tutti e quattro, si dice, votati alla causa del progresso, della libertà di pensiero e di ricerca, insofferenti delle catene che il cattolicesimo tridentino faceva pesare sulla società, sulla spiritualità e sulla cultura del XVII secolo. Questo accostamento ideale è giustificato, o risponde a un modo di fare la storia a tesi, dando per presupposto ciò che si dovrebbe, semmai, dimostrare: ossia che, a quell’epoca, tutte le luci stessero da una parte sola — quella dei riformatori, degli innovatori, degli amanti della libertà – e tutte le ombre dell’altra — quella dei conservatori, dei tradizionalisti, dei nemici del progresso? Vediamo.
Partiamo da una opportuna riflessione svolta dallo storico Gaetano Cozzi (1922-2001) nel saggio su Paolo Sarpi (in: «Storia della letteratura italiana» diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Garzanti, 2001; edizione speciale per il «Corriere della Sera», 2005, vol. 8, «Il Seicento: Bruno, Campanella, Galilei», pp. 583-584):
Il suo atteggiamento verso la Chiesa diventa sempre più aspro e violento, come quello di chi ha creduto e ora si sente tradito, non capendo che proprio nel suo sentirsi tradito è il segno della sua profonda, insuperabile, insuperabile incomprensione nei confronti di essa. Quell’insofferenza a sentirsi vincolato da un complesso rigoroso, dettagliato, di articoli di fede, che non lasciano lo spazio per il dubbio, ma che esigono un’adesione, era parimenti tipica del Sarpi. Rimprovererà quell’affastellare articoli di fede come articoli di un codice alla Chiesa cattolica, precisamente al Concilio tridentino che le ha dato il volto attuale. Lo rimprovererà anche alle chiese riformate. E non solo a quella luterana, per la quale aveva in quegli anni e avrà sempre scarsissima simpatia. Lo farà nei confronti della Chiesa calvinista, alla quale andavamo le sue maggiori simpatie. […]
Il problema fondamentale era per Sarpi abbattere il primato del pontefice romano: lo scriveva ripetutamente a Groslot e ad altri. E il modo più agevole per conseguire questo risultato era giungere a una situazione di rottura come quella dell’Interdetto: […] "È opinione, qui, di uomini saggi e buoni — scriveva il Bedell, all’inizio di gennaio del 1608, con evidente riferimento alle opinioni sarpiane sul prematuro chiudersi di quella contesa – che se questa rottura fosse continuata ancora un anno o due, il papa avrebbe potuto dire addio a queste parti". Una nuova rottura con la Sede Apostolica, in seguito a delle contese di ordine giurisdizionale, o ad una guerra combattuta anche in Italia contro la Spagna e i suoi alleati, avrebbe potuto trovare favorevoli molti nobili — quel folto novero di patrizi su cui Sarpi diceva di poter contare nei colloqui con Dohna, Bedell, Diodati -, per la nostalgia di quella vicenda così recente, di quell’ardore che aveva immesso nella vita della città togliendola al suo abituale torpore, per quel coraggio alacre che sembrava esservi tornato: e un concilio nazionale, o un concilio ecumenico, che fossero nati da quelle situazioni di rottura, o dalla guerra, avrebbero dato a Venezia una scossa determinante. Una volta rotto con il papato, dare un volto e una struttura alla Chiesa veneziana non sarebbe stato un problema insuperabile: come era accaduto in Inghilterra, il paese che Sarpi aveva avuto maggior modo di conoscere, seppur da lontano, e dove si verificava quella interdipendenza di politica e religione che era per lui così importante. Dalla forza politica e religiosa della riforma dipendeva la possibilità di attuare qualcosa a Venezia, anche se questa attuazione avrebbe potuto essere limitata. La riforma doveva pertanto essere difesa, anche se rivelava dei vizi o era corrotta da debolezze umane. Il 4 agosto 1609, scrivendo a Groslot de l’Isle, il quale probabilmente lamentava difetti rivelatisi nella Chiesa calvinista francese, rispondeva che "la fabbrica della Chiesa di Dio, se ben formata da così grand’artefice, ha avuto sempre ed averà delle imperfezioni per difetto della materia: purché il fondamento stii, bisogna sopportar gli altri mancamenti e passarli per umani […]. A chi vorrebbe ogni cosa perfetta, bisogna raccordare il detto dell’Evangelio: cioè, come si adempiranno le Scritture".»
Come dire: il calvinismo non è perfetto, ma è pur sempre meglio del cattolicesimo; l’importante è che i protestanti conservino il punto, che la loro forza non s’indebolisca, che tengano Roma sotto scacco: al resto penserà la divina Provvidenza. Così parlava un frate cattolico, un religioso che aveva pronunciato i voti di umiltà e obbedienza, oltre quello di povertà. Tale era l’uomo: e da ciò si può valutare anche l’onestà intellettuale dei suoi estimatori, non solo del suo tempo, ma a che del nostro; nessuno che si degni di rilevare l’incoerenza, la slealtà, la perfidia di questo voler rimanere nel grembo della Chiesa, tramando continuamente contro di essa, cospirando per farla collassare, adoperandosi coi suoi peggiori nemici per vederla travolta e ridotta all’impotenza. Paolo Sarpi si rivela un degno discepolo di Machiavelli: il fine, a quanto pare, giustifica i mezzi; purché la sua idea del cristianesimo e della Chiesa prevalga, non è il caso di andar troppo per il sottile.
Ricapitolando. Fra’ Sarpi ci appare veramente come un teologo "moderno", un degno precursore dei vari Hans Küng, Edward Schillebeeckx o Vito Mancuso: riserva a se stesso la più completa libertà di dubitare di tutto, però non ha il fegato di porsi esplicitamente al di fuori della Chiesa. Gli piace la sicurezza che deriva dallo stare dentro di essa, però è insofferente dei dogmi, gli vanno stretti, li vive come un attentato alla sua libertà di pensiero; vuole fare il libero pensatore e, nello stesso tempo, considerarsi un buon cattolico, al punto da considerare cattolici malvagi quelli che hanno le certezze: la gerarchia, il Papa. Quelli non sono buoni cattolici, perché sono autoritari e assolutisti. In effetti, però, non fanno altro che custodire la Rivelazione come le Scritture e la Traduzione l’hanno consegnata alla Chiesa; e questa è la ragion d’essere della Chiesa cattolica: la verità nell’unità. A chi non piace questa idea, non resta che farsi protestante; e così avrebbe dovuto fare fra’ Paolo: invece, ha preferito complottare nell’ombra, scagliare il sasso e nascondere la mano; e far pubblicare la sua «Istoria del Concilio tridentino» in Inghilterra. Nel Paese dove il re Enrico VIII ha fatto tagliare la testa a san Tommaso Moro, perché questi non voleva sottomettersi al suo capriccio di divorziare e risposarsi senza l’autorizzazione del papa, e d’essersi proclamato lui stesso il capo della Chiesa inglese. Il Paese dove i cattolici erano perseguitati, e dove era loro proibito di praticare il proprio culto, dietro la minaccia della confisca dei beni e dell’esilio; e dove qualsiasi prete fosse sbarcato, proveniente da Roma, e fosse stato scoperto, sarebbe andato incontro allo squartamento (cfr. il nostro articolo: «Quando nell’Inghilterra "riformata" frati e preti cattolici venivano squartati vivi», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/01/2012). Questo era il paese che piaceva a Paolo Sarpi, per il quale faceva il tifo e con il cui ambasciatore incessantemente complottava e intrigava, allo scopo di trascinarlo in una grande guerra anticattolica.
Fra Paolo non voleva "semplicemente" riformare la Chiesa: voleva abbattere il primato del pontefice (come dice, giustamente, Gaetano Cozzi), e non solo, come si è detto, privarlo del potere temporale; voleva, cioè, fare esattamente quel che avevano fatto i luterani e i calvinisti: rifiutare il primato di Roma in nome della libera interpretazione del Vangelo. E voleva farlo non in comunione con la Chiesa, all’interno della Chiesa, e con la collaborazione di altri uomini della Chiesa, ma da solo, o meglio, col sostegno, anche militare, dello schieramento protestante. Insomma: voleva riformare la Chiesa con la forza dei suoi nemici; rinnovarla, distruggendo il primato del papa; "purificarla", sobillando una guerra di portata europea contro di essa. Come programma "spirituale", non c’è male. Chi sa che cosa avrebbe escogitato se il suo programma fosse stato di tipo essenzialmente, o principalmente, politico. Forse avrebbe cercato e invocato l’aiuto del Gran Turco, come – del resto – era nella politica dei re Francia, sin dal tempo di Francesco I?
Per intanto, non potendo scatenare una guerra anticattolica e antiasburgica né per mezzo della Francia, a causa della tragica morte di Enrico IV, né dell’Inghilterra, a causa della irresolutezza di Giacomo I, il nostro fra’ Paolo si sarebbe "accontentato" di un altro grave incidente, come quello dell’Interdetto papale contro Venezia; anzi, peccato che quella vicenda si fosse risolta troppo in fretta: se fosse durata ancora un poco, dicevano i suoi amici protestanti, che, appunto per questo, lo consideravano un "bravo" e "saggio" uomo, il papa sarebbe stato espulso dall’Italia. Questo era dunque il frate che si atteggiava a perseguitato e a riformatore incompreso; questo era l’uomo che la tradizione storiografica italiana, pesantemente influenzata dalla Vulgata protestante (vedi i manuali scolastici di Giorgio Spini) ci ha sempre presentato come una delle figure più degne, più nobili e ammirevoli di tutto il XVII secolo; uno dei personaggi più saviamente pensosi del bene dell’Italia e della Chiesa; uno degli spiriti più illuminati e disinteressati, che spicca al di sopra di un mare di mediocrità, di conformismo e di grigiore contro-riformistico. E intanto, questo intrigante non cessava un momento di tramare sempre nuove cabale: sognava di rinnovare la rottura con la Chiesa per qualche altra causa giurisdizionale; sognava una alleanza fra la Repubblica di Venezia e il duca di Savoia, contro la Spagna e il papa; sognava una partecipazione dell’Olanda e dell’Inghilterra, ma anche dei cantoni calvinisti svizzeri, e, se possibile, della Francia, a una grandiosa crociata antiasburgica e antipapale. Era un uomo di Chiesa che sognava la guerra; un uomo di Dio, che auspicava il versamento di fiumi di sangue: ciò che aveva in mente non era una scaramuccia, ma una guerra di proporzioni continentali (quella che poi scoppierà, alla fine: e sarà la tragica, disastrosa Guerra dei Trent’anni, che avrebbe riportato indietro la civiltà europea di almeno un secolo). A Sarpi non importava nulla se, per realizzare il suo obiettivo — riportare la cristianità alle purissime sorgenti del Vangelo! — sarebbero stati uccisi milioni di esseri umani. È un modo di ragionare, il suo, degno di un Pol Pot; dietro la sua mitezza, dietro la sua vita "esemplare" di frate sorretto da altissimi ideali, ammirato dai suoi confratelli e stimato per le sue virtù personali, c’è la stoffa di un Robespierre (al quale lo accomuna più di un tratto psicologico, a cominciare dalla tetraggine quasi misantropica): che perisca anche il popolo, purché la Virtù trionfi!
Ma c’è ancora una cosa interessante da rilevare, nella psicologia e nella strategia di fra’ Paolo. Egli ammira l’Inghilterra perché in essa si realizza quella "interdipendenza" di politica e religione che, per lui, è così importante. Strano! Quando pensa all’Italia e alla sua amata Venezia, egli è il più fiero nemico di ogni commistione fra politica e religione; un autentico campione non solo dei diritti giurisdizionali dello Stato, ma di vero e proprio laicismo, da fare invidia a Hobbes: come osa, la Chiesa di Roma, intromettersi nelle faccende di Venezia? Però, quando si tratta dei Paesi protestanti, e, in particolare dell’Inghilterra, ecco che la sua prospettiva si capovolge di centottanta gradi, e il fatto che politica e religione procedano insieme diventa, per lui, una questione essenziale. Fra’ Paolo, dunque, è giurisdizionalista e laicista in Italia, ma fondamentalista e integralista in Inghilterra. In un certo senso, sì; ed è anche logico, a suo modo: perché, una volta fatta della Riforma la spada del rinnovamento cristiano, ne deriva che chi brandisce quella spada ha tutti i diritti, a cominciare da quello di far sue le cose della religione (e il re inglese, infatti, non è forse il capo della Chiesa riformata di quel Paese?); in Italia, invece, la religione e la politica devono stare ben distinte, specialmente quando la religione non è precisamente quella che il Nostro vorrebbe, quella che ha in mente nei suoi sogni generosi di ritorno alla purezza evangelica. In Italia, guai se il papa si azzarda a far valere le sue attribuzioni di capo della Chiesa cattolica: ciò equivarrebbe ad una intollerabile invasione in un ambito che non gli compete.
Paolo Sarpi passò la vita così: a lambiccarsi il cervello e a sperare che scoppiasse un incidente abbastanza grave da provocare una nuova e decisiva rottura fra la Santa sede e qualche Stato cattolico, di cui servirsi come una leva per scalzare l’autorità papale. Fu una vita ben spesa, la sua?
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