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In Pascoli, il cristianesimo aggiunge all’amore umano la speranza o la disperazione dell’eterno

Abbiamo già avuto modo di spiegare perché, a nostro avviso, Giovanni Pascoli si possa considerare, al massimo, un poeta vagamene cristianeggiante, ma niente affatto un poeta cristiano, mancandogli del tutto ciò che rende specifica la visione cristiana della vita (cfr. il precedente articolo: «Pascoli poeta cristiano?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 14/11/2015); ci resta, peraltro, da considerare un ulteriore ambito della produzione pascoliana: quello in lingua latina.

Come è noto, in alcuni dei poemetti latini — opere semplicemente splendide, che valsero all’Autore una serie di meritatissime vittorie nel Concorso internazionale di poesia latina di Amsterdam — Pascoli tratta tematiche storiche e morali di tipo esplicitamente cristiano, con personaggi di fede cristiana, ambientati all’epoca dell’Impero romano, verso il tramonto della religione pagana; si tratta, pertanto, di opere nelle quali la sua posizione, nei confronti della religione di Cristo, dovrebbe risultare interamente risolta, assai più che nelle poesie in lingua italiana, ove il tema religioso, pur essendo frequentemente sottinteso, e, comunque, quasi sempre presente alla coscienza dell’Autore, non veniva mai trattato in maniera troppo esplicita.

Prenderemo in considerazione particolarmente due poemetti latini di Giovanni Pascoli: «Pomponia Graecina», del 1910, con cui vinse la medaglia d’oro al Certamen Hoeufftianum di quell’anno, e «Thallusa», composto nel 1911, ma pubblicato postumo nel 1912 (l’Autore si era spento il 6 aprile di quell’anno), vincitore di un’altra medaglia d’oro al medesimo concorso, e che può considerarsi, pertanto, il vero testamento spirituale del Nostro.

Nel primo dei due poemetti, il più delicato e, a nostro parere, il più fine sia dal lato psicologico e spirituale, che dal lato poetico e narrativo, la schiava cristiana Tallusa accudisce i tre bambini di una coppia di sposi, ai quali si è affezionata; ma, piena di dolore e di sordo risentimento perché il marito, a suo tempo, le era stato ucciso e il figlioletto portato via, una sera prova sentimenti di odio per la famiglia presso la quale vive, compresi i piccoli, giungendo, quasi, all’idea di vendicarsi del mondo intero col rivolgersi contro di essi, allorché il pianto del minore la riscuote dalle sue cupe fantasie e la spinge a prenderlo in braccio, parlandogli come se si rivolgesse al proprio bambino perduto. In quel momento sopraggiunge la vera madre del bambino, che si era recata alla festa della Bona Dea, la quale, turbata, bruscamente la allontana e le dice di prepararsi presto per il mattino dopo: infatti, come deciso dal marito, un nuovo acquirente verrà a portarsela via.

Nel secondo poemetto, Pomponia Grecina – personaggio realmente esistito, di cui ci parla Tacito negli «Annali» (1, XIII, 32) e che già era stato trattato da un autore moderno, Henryk Sienkiewicz, nel suo celebre romanzo «Quo vadis?» -, è una nobile matrona, moglie del generale e uomo politico romano Aulo Plauzio, la quale, accusata di seguire la religione cristiana, viene fatta processare dal suo stesso sposo e posta davanti all’alternativa di sacrificare agli dei, oppure di venire ripudiata e perdere per sempre l’amatissimo figlioletto. Per amore di questo, Pomponia si piega e sacrifica; tutti applaudono il gesto, il marito la riaccoglie festoso: ma sul cuore di lei scende, da quel momento, una tristezza invincibile. Anni dopo, all’epoca della persecuzione anticristiana di Nerone, aggirandosi fra le catacombe, Pomponia scoprirà il cadavere straziato di un bambino, il compagno di giochi di suo figlio: cosa che tornerà a inasprire i suoi mai sopiti sensi di colpa per la scelta fatta.

Scrive Alfonso Traina, l’illustre filologo classico e latinista, nella Introduzione a: G. Pascoli, «Pomponia Graecina» (Bologna, Patron Editore, 1967, pp. 12-15):

«Né Pomponia né Tallusa potrebbero applicare a sé il detto evangelico: "chi ama, più di me, figlio o figlia, non è degno di me". In entrambe il cristianesimo non fa che aggiungere al loro amore materno la speranza — o la disperazione — dell’eternità. Tallusa non accetta, non si rassegna, non perdona; si ribella alla promessa divina in nome di una maternità irreparabilmente offesa: "Credo, moriar quandoque, resurgam: parve puer, te non in primo flore videbo, cum risum risu tentabam promere primumn" (132 ss) Il suo dramma non si dissolve con la morte né si risolve con l’immortalità, perché la resurrezione non si configura come la restaurazione degli affetti terreni: "Me nescit matrem, mihi qui non riserit umquam!" (v. 135). Amore "viscerale" (direbbe il Barberi Squarotti, cui l’allusione virgiliana dà la sua classica cadenza; e perciò appunto dolore immedicabile dallo spiritualismo cristiano: madre e figlio sono destinati a rimanere estranei per sempre: "Hic luctus fauces inconsolabilis angit. Nil contra Deus ipse potest, nil ipsa potest mors" (136 s.). Il cristianesimo è la causa diretta del dramma di Pomponia. Ma è un cristianesimo che proietta nell’eterno il "nido" familiare e ne perpetua oltre la morte gli affetti: "Quod precor ut tibi tu, mihi sim tecum ipsa superstes, atque olim caros, ipsa duce morte, parentes incolumes visat dulcis puer, Aule, putabis esse nefas? Amor est" (126 ss.). Questo amore, che non è l’"amor Dei", si torva al processo dinanzi al conflitto di due dimensioni temporali: quella immediata e contingente, in cui vive Pomponia, e quella futura ed escatologica, in cui si risolve per lei il messaggio cristiano. Il suo amore materno è, come quello di Tallusa (con cui Pomponia ha in comune certe reazioni ferine), ancora troppo legato ai moti del sangue per non rispondere alla voce del figlio: "Mater ubi est?" (v. 133). Ma, compiuta l’abiura, non è l’offesa fatta a Dio a tormentarla, bensì l’attesa della parusia che segnerà la fine degli affetti terreni. Perché, si noti, il polo negativo dell’aldilà di Pomponia non è la dannazione eterna, contrapposta all’eterna beatitudine, ma l’annullamento, la morte definitiva che coinvolgerà madre e figlio e il loro amore: "Puero moriendum est funditus! Omnis ipsa die moriar finita! Quicquid amavi, nil fuerit" (194 ss). La morte degli affetti, la vanità di un amore destinato a finire: questo è l’inferno di Pomponia: "Mortalis amor, dolor immortalis!" (v. 197). Coerentemente il suo paradiso è la sopravvivenza degli affetti: nel giorno del giudizio la donna avrebbe valicato la barriera di fuoco tenendo il fioglio per mano: "dextra… prehensum deducens puerum" (190 s.). E questo è anche il paradiso di Alassàmeno, il giovane martire di "Paedagogioum": "mater eunti constituit mihi fida locum quo visere rursum complectique iterum decreto tempore possem"(152 ss.). Perciò Alassàmeno può andare a morte sereno: "Et liceat mihi visere matrem" (v. 172). La stessa aspirazione — non la stessa fede — vibrava, un decennio prima, in unì’invocazione del poeta alla madre: "fa che ritorni a sperare! A sperare e ora e nell’ora così bella se a te conduce!… O madre, a me non dire, Addio, se di là è, se teco è Dio!" ("Commiato"). Alla vigilia della morte, al fondo di Tallusa e di Pomponia l’erede del Carducci ritrovava Zvanì.

Ma se i due "carmina" nascono da un medesimo "complesso", l’intuizione lirica in cui esso si esprime è diversa. Tallusa guarda a un passato la cui memoria ossessiva obnubila il presente. "Immemor" la descrive il poeta, con la costanza di una parola tematica. Il culmine del carme si ha quando il passato e il presente si sovrappongono in un’allucinante compresenza, che ci ha dato il più pascoliano dei versi latini del Pascoli: "Flet Thallusa canens, aeque memor, immemor aeque" (v. 180). Pomponia vive in una realtà cui il messaggio cristiano ha sfumato i contorni e distrutto le certezze, al limite di due mondi antitetici, ciascuno dei quali rovescia i valori dell’altro: la vita dei pagani è more per i Cristiani e viceversa. Incapace di una scelta definitiva, la donna appartiene all’uno per la sua speranza e all’altro per i suoi affetti. Perciò il poeta le ha creato intorno un’arcana compresenza di vita e di more, che è il costante sfondo della sua storia: nella scena del processo le maschere degli avi si animano e i presenti si pietrificano; la solitudine delle catacombe brulica del respiro e del canto dei sepolti; lo sguardo d’un morto con la sua muta domanda sigilla il poemetto. Pochi carmi del Pascoli sono così coerenti. Questa unità tematica si riflette in una serie di scelte stilistiche, di innovazioni semantiche e sintattiche, di variazioni allusive tra le più felici del Pascoli latino […].»

Due donne, dunque; entrambe cristiane: ma, soprattutto, due madri. Entrambe dolenti, entrambe sole: materialmente l’una, moralmente l’altra. La prima ha perduto il figlio per sempre e non sa darsi pace di non averlo più con sé; la seconda, per il terrore di perderlo in questa vita, ha sacrificato la speranza della vita eterna, non solo per sé, ma anche per lui. Tallusa è disperata perché non trova conforto nel pensieri del ricongiungimento finale di tutte le anime in Cristo; Pomponia, perché teme che, nel giorno del Giudizio, Dio non riconoscerà lei, né il figlio, dopo la sua abiura e la sua rinuncia a educare cristianamente il bambino. Sia per l’una che per l’altra, il fatto di essere madri, di sentire da madri, di pensare da madri, offusca tutto il resto, fa passare in secondo piano tutto il resto: è la loro ragione di vita, ma, in un certo senso, anche la loro ossessione. È il peso che le tiene legate, ancorate al mondo: al vecchio mondo che sta per finire, il mondo del paganesimo, ma, più in generale, il mondo come dimensione del finito, chiusa e ripiegata in se stessa, con le sue passioni indomabili, la sua violenza, il suo cieco attaccamento alle cose periture; quel mondo che impedisce loro di staccarsi realmente verso l’alto, verso la dimensione della vita divina, che è soprannaturale e nella quale la luce dello spirito trasfigura dall’interno ogni cosa, proiettandola nell’eterno.

E, dietro il dramma di Tallusa e di Pomponia, c’è Pascoli, col suo dramma, tutto umano, di dolore e di ferite immedicabili. Tallusa non sa perdonare gli altri, coloro che le uccisero il marito e le rapirono il figlio; Pomponia non sa perdonare se stessa, e crede che la sua debolezza risulterà fatale anche per il suo bambino. Una ha perduto il figlio in questa vita, l’altra lo ha perduto per sempre: l’una non sa sperare abbastanza, non sa credere sino in fondo che ogni cosa le sarà restituita; l’altra non sa credere sino in fondo alla misericordia di Dio. Non sono interamente cristiane, perché, del cristianesimo, non hanno fatto propria la cosa più importante: l’atteggiamento spirituale verso la vita. Vedono la vita eterna come il riflesso della vita terrena, e non la vita terrena come un pallido e imperfetto riflesso di quella eterna. Capovolgono la prospettiva per il troppo sentimento materno, che le appesantisce, le trattiene nella sfera del finito, dominata ancora dalle passioni, dai timori, dai rimorsi. Certo, non qualsiasi madre potrebbe spingersi ai livelli sublimi di fede in Dio raggiunti da Santa Rita da Cascia, la quale, piuttosto che vedere i suoi due figli macchiarsi di omicidio (e sia pure per una causa "giusta" o, comunque, ritenuta lecita, e perfino doverosa, nella mentalità del suo tempo: vendicare il loro padre, a sua volta assassinato), domanda a Dio di prenderli con sé, prima che si macchino le mani di sangue. Tuttavia, pur senza arrivare a simili altezze, che fanno di Santa Rita il più perfetto modello di madre cristiana, forse, dopo la Madonna, si vorrebbe vedere in ogni madre cristiana un qualche riflesso della nuova umanità annunciata dal Vangelo: una umanità non più inchiodata al richiamo della carne, fosse pure nella forma più nobile che questo possa assumere: l’amore umano di una madre per le sue creature; ma né in Tallusa, la schiava, né in Pomponia, la matrona, vi si trovano tracce persuasive. In queste due donne il cristianesimo si è sovrapposto alle vecchie credenze pagane, ma l’uomo vecchio, in esse, è rimasto vivo e indomabilmente ancorato al suolo. «Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove», annuncia San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi (5, 17). E ancora, nella Lettera ai Colossesi (3, 9-10): «Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore».

Ma Pascoli non sa indossare i panni dell’uomo nuovo, perché non sa, né vuole dismettere i panni dell’uomo vecchio. Intuisce, senza dubbio, che, in questo modo, non ritroverà le cose perdute, non ritroverà la famiglia che gli è stata crudelmente strappata nell’infanzia e nella prima giovinezza; però non trova l’animo di fare il passo successivo, di abbandonarsi interamente a quel mondo nuovo ove a tutto si rinuncia, di tutto ci si sbarazza, per tutto ritrovare, ma su un livello più alto e glorificato. E così le sue donne antiche, la schiava e la matrona: il loro amore materno, che è il tratto sublime del oro carattere, è anche la loro maledizione: ciò che le condanna a una sterile vita di rimpianti e di rimorsi. Si è fatta, e si fa, troppa retorica, forse, nella celebrazione dell’amor materno. Quando esso diventa ossessione, porta con sé anche una volontà di dominio, un rifiuto di lasciar crescere il figlio. Che ne sarebbe stato del figlio di Tallusa, se le fosse stato lasciato? Che ne sarà del figlio di Pomponia, che le è stato lasciato, ma solo perché lei viva in una lenta, continua agonia?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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