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Secondo: smetterla di piangersi addosso e cominciare a ricostruire

Proviamo a immaginare, per semplice amore d’ipotesi (pazzesca e fantascientifica) che le stalle di Augia siano state ripulite; che un discreto numero di esseri umani, se non proprio tutti, e neppure la maggioranza, si siano impegnati seriamente a spalare tutta la sporcizia che vi si è accumulata, strato sopra strato, anno dopo anno, fino a nascondere completamente il lume del buon senso, la retta coscienza individuale, la capacità di distinguere il bene dal male, il vero dal falso, ciò che è secondo la legge morale naturale e ciò che va contro di essa.

A questo punto, è finita l’opera preliminare: ma resta da fare tutto il resto. Compito ancora più immenso, ancora più ciclopico, ancora più smisurato del precedente: adesso non basterebbe nemmeno un Ercole, anzi, nemmeno una squadra di semidei simili ad Ercole; adesso ci vorrebbe, anzi, ci vuole, l’aiuto di Dio. Che cosa si tratta di fare? Essenzialmente due cose: smettere di piangersi addosso, schizzando ovunque fango e lacrime da coccodrilli, e incominciare a ricostruire, dopo aver sgombrato il terreno dalle macerie.

Smetterla di piangersi addosso. È evidente che non serve a nulla ripulire le stalle di Augia, se si ricomincia subito con le cattive abitudini; se si permette allo sterco di rioccupare lo spazio, di intasare ogni angolo, di infettare e ammorbare gli ambienti. Vorrebbe dire che il ciclo della sozzura ricomincia daccapo; e che si è lavorato per nulla. Ma che cosa vuol dire, in concreto, smetterla di piangersi addosso? Dobbiamo capirlo, e capirlo bene.

Ci sono molte maniere di piangersi addosso: e, per la maggior parte, esse sono così astute (cioè non loro, ovviamente, ma noi che le pratichiamo) da camuffarsi per qualcosa di diverso: ad esempio, da sacrosanta denuncia e da sacrosanta indignazione; intanto, però, con la scusa della denuncia e dell’indignazione, non si fa un passo avanti, non si cava un ragno dal buco: si resta sempre fermi e impotenti. Un’altra maniera è quella di approfondire esageratamente, esasperatamente, nevriticamente; studiare, cavillare, sofisticare, arzigogolare, cerebralizzare, non già per capire, ma per rimandare il momento dell’impegno e della prova. È il pirandellismo: il piacere malato di grattarsi la rogna, ancora e ancora, fino alla carne viva, fino a far sprizzare il sangue; e, arrivati a questo punto, provare un’estasi di voluttà, naufragare in un mare di delirio.

L’uomo moderno è stato un vero campione di pirandellismo: un campione del rancore, del rimprovero a trecentosessanta gradi, della denuncia, del dito perennemente puntato contro qualcosa o contro qualcuno: contro la vita che non mantiene le promesse, che imprigiona se stessa, il suo libero fluire; contro la trappola sociale, a cominciare dalla famiglia e dal lavoro, visti esclusivamente sotto una luce negativa, demoniaca; contro gli altri, nel senso più concreto della parola («l’inferno sono gli altri», diceva un altro maestro di pirandellismo e di sofisticherie nichiliste, Jean-Paul Sartre). Ma una intellighenzia che sputa sulla famiglia e sulla società, che disonora il padre e la madre e che deride e disprezza la nobiltà del lavoro, è una accolita di ciarlatani astuti o masochisti: ciechi che guidano altri ciechi, se non peggio: lupi travestiti da agnelli, che mirano solo a sbranare il gregge (o a tosarlo sistematicamente, non essendo nel loro interesse privarsi della loro comoda fonte di profitti e privilegi).

Da Petrarca in avanti, coi suoi lagnosi ahi, lasso!, fino a Leopardi, con la sua natura empia e matrigna; a Montale, col suo male di vivere; a Sartre, con la sua nausea; a Heidegger, con il suo essere per la morte, è tutta una geremiade di vittimismo, una sarabanda di autocommiserazione, un’orgia di nichilismo e di cupio dissolvi. Poi ci sono gli intellettuali che parlano solo a se stessi e a pochissimi intimi, cerebrali e incomprensibili come loro (Hegel ammetteva che certi suoi pensieri non li capiva nemmeno lui stesso, figuriamoci gli altri; e chissà quanti lettori capiscono un poeta come Zanzotto, o un pensatore come Cacciari, o quante persone comuni capiscono i "capolavori" di certi pittori, di certi scultori o di certe archistar, peraltro contese da tutti e pagate a peso d’oro); quelli che sbeffeggiano, deridono, scherzano sulle cose serie e fanno la parodia della vita buona: cinici, vuoti e impenitenti, che affastellano parole senza senso ed espongono alle mostre d’arte i loro bravi stracci e pezzi di legno (come Alberto Burri) o i loro bravi pisciatoi (come Marcel Duchamp), con seriosa compunzione. E poi, quelli che si aggirano come pazzi furiosi, delirando in maniera tale da lasciare in dubbio se stiano scherzando o se facciano sul serio(come Carlo Emilio Gadda, ma anche, spesso, come Pirandello); quelli che la buttano sulla pornografia, a volte giocosa e spensierata, a volte trucida e sado-masochista (come fanno, rispettivamente, Alberto Moravia e, soprattutto come regista, Pier Paolo Pasolini); quelli che psicanalizzano, vivisezionano e spaccano il capello dell’inconscio in quattro, in otto e in sedici, per trovarvi, in fondo, qualsiasi cosa ed anche il suo contrario; e così via.

Osservava padre Tomas Tyn. Uno dei più grandi teologi e metafisici del pensiero contemporaneo, che nella civiltà moderna vi è un continuo voler schizzare fango su tutto, quasi per insozzare la parte divina e soprannaturale della persona umana, che tende verso l’Alto. Ebbene: tutto questo deve finire; abbiamo toccato il fondo; ora deve incominciare la risalita. I cattivi maestri dello sberleffo, del cachinno, della dissacrazione, del nulla e del disprezzo verso la vita, devono essere ridotti al silenzio mediante il silenzio stesso: bisogna smettere di parlare di loro, di recensire i loro "capolavori", e non subire più il ricatto intellettuale (per non parlare di quello professionale) che consiste nel dare loro spazio, più spazio di quanto essi meritino, sempre più spazio, con il pretesto che è giusto e doveroso ascoltare i "testimoni" della crisi della nostra civiltà e prendere atto della "serietà" delle loro obiezioni alle "vecchie certezze". È il cavallo di Troia del relativismo: far passare la Cultura, il Sapere, il Bello, il Vero, per "cultura tradizionale", per "conservatorismo", per "totalitarismo intellettuale"; e, con ciò, aprire la porta, e stendere tanto di tappeti rossi, davanti a qualunque buffone, a qualunque mariolo, a qualunque disperato in buona o in mala fede, il quale voglia profanare, insozzare, dissacrare ogni cosa, spacciandosi per un "coraggioso" esploratore del lato oscuro della realtà, e, magari, niente di meno che un "profeta" di nuovi cieli e nuove terre, a noi comuni mortali ancora sconosciute, ma foriere, essi dicono, di chissà quali meravigliosi cambiamenti e profondi significati.

Dunque: smetterla di produrre sporcizia intellettuale, spirituale, morale; smetterla di vomitare addosso agli altri le proprie basse pulsioni, i propri peggiori istinti; e, soprattutto, smettere di accoglierla, porre fine alla domanda. Non ci serve di sapere che Leopold Bloom, il protagonista dell’«Ulisse» di Joyce, si masturba guardando una ragazza sulla spiaggia, e meno ancora ci serve di seguirlo al gabinetto, quando vi si reca a defecare: quel che fa dietro la porta del bagno, gli odori che vi regnano, la carta che utilizza per pulirsi: tutto questo non c’interessa, non è arte, non è indagine psicologica, non è letteratura, non è niente di niente: è solo e unicamente spazzatura, compiacimento malsano della volgarità, ebbrezza di rotolarsi e avvoltolarsi ben bene in mezzo al fango. Non abbiamo bisogno di scrittori di tal fatta, di artisti di tal fatta, di pensatori di tal fatta: gente che sa solo schizzare fango dappertutto e che vorrebbe trascinarci nella sua stessa lordura, magari per sentirsi meno abietta — e, nei casi più fortunati (beninteso, fortunati per loro), persino per ricavarci dei soldi, della celebrità, forse delle cattedre universitarie. Di loro e delle loro opere, ne facciamo volentieri a meno. Bisogna smettere di dar loro importanza; bisogna fronteggiarli col silenzio. Non meritano tutta l’attenzione che riserviamo loro: prosperano sulla nostra curiosità morbosa, sulle nostre frustrazioni segrete e sui nostri pruriti insoddisfatti. Ma se il pubblico diviene moralmente e spiritualmente sano, nonché intellettualmente onesto, per costoro è finita. Lasciamoli rimestare nei loro stessi escrementi; nessuno ne sentirà la mancanza.

Incominciare a ricostruire: ecco finalmente la pars construens; a ricostruire dopo aver sgombratole macerie e dopo essersi liberati dalle cattive abitudini.

Ma ricostruire che cosa? Tutto, semplicemente. È tutto da rifare; c’è ben poco che si possa ancora utilizzare. I vecchi materiali sono sporchi, contaminati; bisogna rifondare le basi stesse della vita intellettuale, spirituale, morale. Compito vertiginoso, da far tremar le vene e i polsi; umanamente impossibile: ma non a Dio, se noi lo desideriamo: perché a Dio nulla è impossibile, e noi stessi possiamo spostare anche le montagne e trasportarle in mare, con il soccorso della Sua grazia.

Da dove partire? Ma dal bene e dal male, naturalmente. Dobbiamo ricominciare a parlare del Bene e del Male: dobbiamo rimettere la questione etica all’ordine del giorno. Dobbiamo recuperare la semplice, ma impegnativa verità, che tutta la vita, tutta l’esistenza terrena, tutto l’universo con lo spazio, il tempo, le galassie e i miliardi di anni luce, altro non sono che lo scenario d’una perenne lotta fra il Bene e il Male, alla quale siamo chiamati, e rispetto alla quale non possiamo restare neutrali. E, naturalmente, dobbiamo ricominciare a parlarne, e soprattutto a dare il buon esempio, ai bambini, agli adolescenti, ai nostri figli e nipoti: dobbiamo responsabilizzarli, far capire loro la serietà della vita, persuaderli che la vita non è una caccia al tesoro, un eterno Luna Park, un perenne carpe diem, finanziato dai genitori come fossero uno sportello del Bancomat:; ma che è impegno e sacrificio da parte di ciascuno, in vista della felicità vera, quella che non delude, non tradisce, né lascia mai l’amaro in bocca, ma anzi, un senso perfetto di appagamento e di vera pace interiore.

Osservava giustamente, a proposito di alcuni recenti, raccapriccianti fatti di cronaca nera, Maurizio Blondet, uno dei rarissimi scrittori e giornalisti che conservano ancora la schiena ben dritta, in mezzo a una marea di servi e di buffoni di regime (e che, appunto per questo, non ci è più dato di vedere in televisione, né di leggere sui giornali), che la psichiatria e la sociologia invano si affaticano per dare un nome e un significato a certi crimini insensati, immensamente malvagi, e, nello stesso tempo (stridente paradosso) inspiegabilmente futili: non vi è un nome, né un significato (aggiungiamo noi), se non il nome e il significato che a cose simili davano, con il loro elementare buon senso contadino, i nostri nonni, e che i preti e i teologi di un tempo che sembra già lontano, mentre è vecchio di alcuni decenni appena, confermavano con linguaggio e con concetti un po’ più elaborati, ma, nella sostanza, perfettamente concordanti: si tratta di una vittoria del Male. Semplicemente, si fa per dire, vi sono persone che cedono al richiamo del Male: così, senza un perché particolare. Persone che hanno una famiglia normale, un lavoro normale, una casa normale, dei passatempi abbastanza normali, delle amicizie più o meno normali. Persone che hanno detto "sì" al Male, al Diavolo: perché ciascuno di noi è chiamato a scegliere fra il Bene e il Male, e la risposta che daremo non è mai scontata in partenza. Nessuno, neppure i santi più grandi, sono immuni dalla tentazione dell’Inferno, specialmente se per caso abbassano la guardia e si lasciano afferrare dalla maledizione dell’io, della vanità, della superbia, dell’orgoglio, e si dimenticano che ciascun essere umano, anche il più forte, anche il più virtuoso, è fatto sempre e solo di fragile carne piena di debolezze e che, senza l’aiuto di Dio, non possiamo fare niente, siamo indifesi come bambini, basta un attimo di tentazione, il cedimento d’un istante, e il Diavolo può scatenarsi dentro di noi e travolgere le nostre vite e, insieme a quelle di altre persone.

Però la civiltà moderna ha abolito questi concetti, questi pensieri, perfino questo linguaggio. La cultura moderna non vuol sentir parlare del Bene e del Male, né di Dio e del Diavolo; non vuol sentire parlare di debolezza della carne, di tentazione, di caduta e di peccato; meno ancora vuol sentir parlare della Redenzione. La cultura moderna afferma e proclama che l’uomo è arbitro del suo destino, con le sue sole forze, e che da solo può salvarsi, oppure da solo perisce: senza chiedere aiuto a nessuno (tranne che ad una scienza incapace di aiutarlo, quando non lo sprofonda nel male ancor di più), senza aspettarsi nulla da nessuno, in quel deserto che è la vita umana — in quel deserto allucinante, stralunato, mostruoso, che la modernità ha fatto della vita umana, dopo averne strappato via, ad uno ad uno, i frutti più belli, i profumi più dolci, le gemme più preziose.

Ebbene: è da qui che dobbiamo ricominciare. Dobbiamo ritornare alla consapevolezza del libero arbitrio: dobbiamo riassumere la responsabilità del Bene e del Male che incessantemente c’interpellano. Troppi scrittori moderni — Italo Svevo, per esempio, o Luigi Pirandello — hanno affermato che il male non è opera di qualcuno: che esso accade, semplicemente. Funesta menzogna. Se il male avviene, c’è qualcuno che lo ha scelto: qualcuno che ha detto di no al Bene e all’Amore…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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