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Si deve restaurare il concetto originario di “virtù”, capovolto dai cattivi maestri della modernità

I concetti sono più importanti di quel che non si creda; servono a mostrare la direzione giusta da seguire nella vita: sono come dei cartelli indicatori per un viaggiatore che non è pratico dei luoghi, o, se si preferisce, sono come dei fari che brillano nella notte, guidando la rotta dei marinai e infondendo loro un senso di sicurezza. Se, tuttavia, le parole "tradiscono" i concetti, invece di rappresentarli fedelmente; se, cioè, vengono adoperate non per avvalorarli, ma per confonderli, o, addirittura, per travisarli, e magari per capovolgerne il significato, allora si crea una situazione simile a quella che si avrebbe se qualcuno, nella notte, si divertisse a spostare i cartelli stradali indicanti le direzioni, oppure se qualcuno spegnesse la luce dei fari e accendesse altre luci, ma ingannevoli e traditrici, dall’alto delle scogliere, non per guidare i marinai, ma per spingerli verso il naufragio. Ebbene: ciò è quanto si è verificato, nel corso della modernità, riguardo ad alcuni concetti-chiave, specialmente nella sfera morale (ma non solo in quella), a partire da uno dei concetti basilari, sui quali si regge gran parte della costruzione speculativa e anche gran parte dell’orientamento pratico nella vita delle persone: quello di "virtù" in senso morale.

Per circa due millenni il concetto di "virtù" è stato simile a un faro che splende nella notte e guida i naviganti; poi, specialmente a partire da Niccolò Machiavelli (ma tali cose non avvengono mai ad opera di un singolo uomo, bensì quando la società è matura per esse) il suo significato, pur restando uguale la parola, è completamente cambiato; ed è passato a indicare un contenuto diverso e pressoché opposto. La "virtù" ha cessato di essere la qualità morale positiva per eccellenza, quella che guida gli uomini verso la vita buona, ed è diventata l’arte del prendere il destino nelle proprie mani, specialmente nell’ambito politico, e di farlo con qualsiasi mezzo, "buono" o "cattivo", decretando, anzi, che il fine è sempre "buono" per chi riesce a realizzare i propri obiettivi, perché il fine giustifica i mezzi. Machiavelli, per la verità, ha ancora la decenza di non chiamare "bene" il male, e viceversa; ammette che il principe, deve saper "intrare" anche nel male, solamente, però, "se necessitato"; ma il fine della politica, rafforzare lo stato (o conquistarlo) e assicurare la pace e l’ordine al suo interno, è buono in se stesso, per definizione (o, comunque, il Segretario fiorentino non si prende la briga di dimostrare perché lo sia): perciò, a quel punto, diventa una questione del tutto secondaria il fatto di chiamare "male" o "bene" quel che il politico fa, visto che quel che conta è che egli sappia rafforzare lo Stato, e, se ci riesce, qualunque cosa abbia fatto (compreso l’inganno, il tradimento, l’assassinio e così via) sarà sempre ben fatto, cioè, in senso politico, sarà pur sempre un valore positivo, un "bene".

Ad ogni modo, i pensatori delle generazioni successive, un poco alla volta, abbandoneranno anche gli ultimi ritegni e non esiteranno a qualificare come "buono", o "giusto", o "vero", ciò che è conveniente: a tale esito si giungerà con l’utilitarismo anglosassone, fra XVIII e XIX secolo. Ma è pur vero che l’intera società europea stava andando in quella direzione già da quasi due secoli prima dello stesso Machiavelli: basta leggere le novelle del «Decameron» per rendersene conto. Per Boccaccio, quel che è ammirevole negli uomini è la loro capacità di volgere la Fortuna a proprio vantaggio (mediante quella che lui chiama "industria", virtù borghese per eccellenza, fatta di intuizione opportunistica e di fiuto mercantile per il buon affare), anche a costo di capovolgere la morale e la stessa religione, o meglio, gloriandosi di capovolgere il senso comunemente accettato del bene e del male. Ciò si vede in innumerevoli novelle e dimostra come Machiavelli non abbia fatto altro che estendere alla sfera della politica e teorizzare con rigore di pensiero quel che le persone comuni già avevano elaborato nella loro mappa concettuale e nella loro tavola dei valori di uso corrente, nel loro prontuario etico e sociale. Andreuccio da Perugia, ad esempio, si guarda bene dal restituire l’anello del vescovo, trafugato fortunosamente dalla sua arca funeraria, e parte da Napoli con il frutto dell’azione sacrilega, considerandolo come un semplice risarcimento di quanto ha perso, per la sua ingenuità iniziale, nella casa della prostituta siciliana. E Nastagio degli Onesti sfrutta l’apparizione infernale nella Pineta di Ravenna per piegare la ragazza di cui è innamorato a prenderlo come sposo: ha l’incredibile sfrontatezza di servirsi della giustizia divina per conseguire i suoi scopi privati di natura affettiva e sessuale.

Ma vediamo più da vicino come è cambiato, nel corso della modernità, il significato di "virtù".

Prendiamo il «Dizionario critico di filosofia» compilato dalla Società Francese di Filosofia, a cura di André Lalande (edizione originale: 1926; ed. italiana, ISEDI, 1971) e, alla voce virtù, leggiamo: Senso generale (oggi quasi scomparso): A. Potenzialità, potere (fisico o morale), e talora concepito come partecipe dell’uno e dell’altro); proprietà di una cosa, considerata come la ragione degli effetti che essa produce. […] B. Disposizione permanente a voler compiere una sorta determinata di atti morali [segue l’elenco delle virtù cardinali, morali, teologali e della virtù politica]. C In senso più generale (la virtù): disposizione permanente a volere il bene; abitudine di farlo […] D. Oggettivamente: l’insieme delle regole di condotta che si riconoscono come valevoli…»

Ora prendiamo il «Dizionario di Filosofia» di Nicola Abbagnano (UTET, 1971, 1994) e leggiamo: «Il termine designa una qualsiasi capacità o eccellenza, a qualsiasi cosa o essere appartenga. I suoi significati specifici possono essere ridotti a tre: 1, capacità o potenza in generale; 2, capacità o potenza propria dell’uomo; 3, capacità o potenza propria del’uomo, di natura morale… [Passiamo quindi direttamente al terzo significato, quello che ci interessa]. Deve trattarsi di una capacità uniforme, o continuativa, come già notava Hegel ("Filosofia del Diritto", § 150 aggiunta) giacché un atto morale non fa virtù. Questa condizione tuttavia non è sempre rispettata e Locke, per es., parla di Virtù e di vizio nel senso di atti morali isolati ("Saggio", II, 28, 11)…»

Ed è proprio così: con Locke e con l’illuminismo, poi con l’utilitarismo, la "virtù" comincia a disgregarsi, a frammentarsi; non è più un abito costante, un modo di vita, ma passa a indicare, un po’ alla volta, i singoli atti virtuosi: eppure è noto che una rondine non fa primavera, e che un atto virtuoso non corrisponde a una vita virtuosa. Non crediamo che questo slittamento di significato sia stato casuale; tanto più che esso si è accompagnato ad altri slittamenti semantici e concettuali: dalla Verità si è passati gradualmente alle verità; dalla Morale, alle morali; dalla Conoscenza, alle conoscenze; dal Sapere, ai saperi; dalla Scienza, alle scienze; e così via. Tutti i concetti-chiave si sono relativizzati, rimpiccioliti, "imborghesiti"; e le singoli rondini hanno cominciato a sostituire la primavera. L’uomo stesso, del resto, si è frammentato, relativizzato, soggettivizzato: è diventato, come voleva Pirandello, uno, nessuno e centomila. Insomma, se ci perdona il gioco di parole, la Virtù non solo ha cessato di essere la Virtù, ma ha proprio cessato di essere una virtù; ha incominciato ad essere percepita e presentata, dagli esponenti della cultura moderna, come il suo opposto, come un vizio, vale a dire come una pretesa irragionevole, autoritaria, intollerante, d’imporre un concetto (e un corrispondente valore) "forte", in un mondo di concetti (e di valori) "deboli"; d’imporre un "pensiero forte" a una cultura che ormai non è disposta ad accettare se non delle forme di "pensiero debole".

Ma torniamo a Machiavelli e allo snaturamento moderno del concetto di virtù. Ha scritto Alberto Scerbo nel suo saggio «Diritto e virtù» (in: «Una introduzione alla filosofia del diritto». A cura di Massimo La Torre e Alberto Scerbo, Rubbettino Editore, 2003, pp. 118-120):

«Nel capitolo XVIII de "Il Principe" […] Machiavelli manifesta la volontà di escludere dalla vita politica, e in particolare dal governo dello stato, ogni riferimento di natura etica, mosso dal’intento espresso di "andare drieto alla verità effettuale della cosa" piuttosto che "alla immaginazione di essa", per il semplice fatto che la scelta inversa conduce lo studioso ad essere "tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua". È l’affermazione del primato della prassi sulla teoria, e quindi della necessità di adattamento della riflessione dottrinale alle esigenze della mera concretezza. Le norme morali cedono il passo alle regole di comportamento finalizzate, poiché il giudizio di valutazione sulla condotta politica non è più IN SÉ, ma rapportato al perseguimento del risultato. Gli obiettivi da realizzare diventano, così, le tracce sulle quali deve indirizzarsi l’azione pubblica, e al contempo i principi ispiratori della vita della collettività: l’estraneità della morale dal gioco politico non si limita a produrre i suoi frutti dal lato del potere, ma riverbera i suoi effetti anche sui governati, per i quali diventa indispensabile unicamente che il principe sia in grado "di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare e con lo evento della cosa". In questa costruzione si attenua la carica positiva della virtù, di derivazione classica, poiché, depurata da ogni carattere strutturale connesso ad una dimensione ontologica, viene degradata a principio di efficienza politica, a connotato strumentale dell’esercizio del potere. Si stravolge la visione della virtù come principio attivo della morale, perché spogliata della sua finzione di forza propulsiva per l’affidamento e l’attuazione di valori eticamente sostenuti. La materialità dei fini favorisce un autentico ribaltamento concettuale, che rende la virtù l’effetto più che la causa degli scopi della politica: non può destare meraviglia, pertanto, la considerazione che "è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità". La virtù appare, pertanto, del tutto svincolata dall’idea di bontà morale, e ancor più dall’idea di giustizia, poiché fondamentalmente si è andato raffinando un capovolgimento dei ruoli delle soggettività politiche, a tutto vantaggio della "individualità" statuale a cui è attribuito il controllo ed il governo della società. La rettitudine morale non costituisce, perciò, il presupposto dell’attività politica, come la giustizia non rappresenta il fine dell’organizzazione pubblica e neppure il criterio regolativo delle relazioni istituzionali. Tanto meno questi aspetti devono coinvolgere, al modo della "natura", l’operato dei soggetti privati, chiamati a conoscere il "buono"e il "giusto" per il tramite esclusivo del potere coercitivo dello stato, mediato dalle scelte "virtuose" dei governanti. La relazione con il diritto si appresta come assolutamente evanescente, poiché, se per un verso si prospetta come uno strumento essenziale per la disciplina della vita sociale, per l’altro incontra tutta una serie di eccezioni e di integrazioni dettate dal contesto storico e dai bisogni contingenti. In quest’ottica va interpretata la duplice modalità esecutiva del principe, una attraverso le leggi e l’altra con l’ausilio della forza: "quel primo è proprio dell’uomo, quel secondo è della bestia: ma, perché al primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo"; il che equivale a dire che "bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile". […] Il pensiero di Machiavelli può essere assunto come paradigma delle concezioni politiche e giuridiche della modernità, improntate al metodo della scienza ed ispirate al criterio del’operatività. I cardini della sua teoria si ripetono, con gli opportuni accorgimenti e con i dovuti sviluppi, nelle dottrine dei maggiori autori del contrattualismo, a cui è dovuta la graduale cristallizzazione dei passaggi fondamentali del modo "moderno" di intendere il politico ed il giuridico e la definitiva strutturazione dei rapporti tra i diversi SOGGETTI della realtà esteriore e i diversi MOMENTI di intersezione tra pubblico e privato.»

Tutto questo, del resto, è perfettamente logico, se si riflette da dove parte la rivolta dell’uomo moderno nei confronti della tradizione, ossia dalla imperiosa volontà di emanciparsi completamente da qualsiasi principio trascendente, e dalla pretesa di farsi signore assoluto del proprio destino. In questo rifiuto del divino (compreso il significato trascendente della storia) e in questa auto-glorificazione dell’uomo diventa non solo logico, ma necessario, spazzare via tutto ciò che a tale marcia si oppone. Ora, la Virtù si oppone alla marcia dell’uomo verso l’auto-affermazione, perché essa poggia su una dimensione trascendente, che, sola, può garantirne il valore di assolutezza, e sottrarla al gioco incessante delle verità contingenti. Ora, non potendola rifiutare sic et simpliciter, non restava che capovolgerne il senso: ossia fare della virtù l’insieme delle qualità che garantiscono il successo, partendo dalla negazione che esista un mondo di valori distinto dalla realtà effettuale…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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