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La nostra civiltà è agonizzante perché ha sostituito la tecnica all’amore per la vita

I segni della disgregazione e della progressiva dissoluzione della nostra civiltà — della civiltà europea, intendiamo: perché quella statunitense è un’altra cosa, lo abbiamo detto e ripetuto, ed è un grandissimo equivoco quello che ci porta a identificare le due cose — sono ormai talmente evidenti, che resta solo da chiedersi quando giungerà la fine.

La nostra civiltà sta crollando essenzialmente per cause interne, delle quali il crollo della natalità e l’invecchiamento della popolazione sono il sintomo più palese (nell’Unione europea, su 500 milioni di abitanti solo 80 milioni, ossia il 16% del totale, sono giovani sotto i trent’anni). Si tratta di un autentico disamore per la vita, nonché di un vero e proprio odio di sé: delle proprie radici, della propria tradizione, dei propri valori, delle proprie famiglie, sovente accompagnato da una ammirazione ingenua, perfino grottesca, e comunque, quasi sempre, caratterizzata da una profondissima ignoranza, per tutto ciò che viene da fuori, per le altre culture e gli altri valori. Questo disamore si incrocia e, in un certo senso, si completa, per un raffinamento di malizia, con un edonismo sfrenato che degenera in lussuria e in glorificazione di tutto ciò che è abnorme, deviato, repellente: nessuna epoca della storia ha mai conosciuto una dissolutezza generalizzata e istituzionalizzata come la nostra, il tutto, per giunta, spacciato per conquista di civiltà e progresso della coscienza morale. Quando Nerone volle sposare un suo amante maschio, un certo Sporo, perfino la Roma lussuriosa e pervertita ebbe un fremito di sdegno; oggi i matrimoni omosessuali e l’adozione di bambini da parte delle coppie omosessuali, compresi i bambini ottenuti con la pratica dell’utero in affitto, sono riconosciuti per legge in moltissimi Paesi europei, e una severa legislazione "anti-omofoba" s’incarica di chiudere la bocca a quanti trovassero su ciò qualche cosa da ridire. La corruzione sociale e politica, l’uso di droghe e alcol, l’alto numero di depressioni e di sucidi, la conflittualità familiare permanente, i divorzi e le separazioni in aumento esponenziale, la pratica sistematica dell’aborto come forma di contraccezione, la violenza quotidiana dentro e fuori le mura domestiche, e, su tutto, la tirannia crescente, paurosa, cieca, della tecnica, di una tecnica onnipervasiva, e il conseguente rimbecillimento collettivo, dovuto all’abuso dell’informatica e dei mezzi di comunicazione elettronici, tutto questo attesta che siamo più che maturi per il crollo finale.

Si aggiunga l’opera nefasta dei cavalieri del Nulla, di una mala razza d’intellettuali pervertitori di ogni legge e di ogni norma, lieti solo di distruggere, infangare, deridere tutto ciò che appartiene alla serietà della vita, alla bellezza e alla santità del mondo, di annientare il bene ovunque lo scorgano, d’insozzare l’infanzia e l’incanto che le appartiene, di inoculare ovunque, per puro compiacimento del male, i virus letali della dissoluzione, dell’egoismo eretto a sistema, della ribellione fine a se stessa, dello svilimento dell’etica, del relativismo cinico e beffardo, della smania narcisista e delle febbre dell’auto-affermazione, indipendentemente da qualunque merito e da qualsiasi virtù: si aggiunga, dicevamo, l’opera nefasta di costoro, dei quali non si saprebbe dire se siano più grandi la diabolica malizia o il puro e semplice servilismo, per non dire la prostituzione e il mercimonio sistematici, al servizio dei poteri oscuri che li finanziano, li incoraggiano e li lusingano, premiando la loro sconfinata vanità: e si avrà un quadro abbastanza realistico, benché assai incompleto, della crisi interna della nostra civiltà.

Ci sono poi le cause esterne, le quali, però, non avrebbero la forza dirompente che, effettivamente, esercitano su di essa, se questa non fosse ormai fradicia e svuotata di linfa vitale: prima fra tutte, l’invasione massiccia, quotidiana, apparentemente inarrestabile, da parte di milioni di persone provenienti da altre civiltà e cresciute nell’osservanza di valori assolutamente incompatibili con i nostri (incompatibili e fatalmente conflittuali, per quanta "comprensione", "tolleranza" e spirito di conciliazione noi possiamo dispiegare nei loro confronti); invasione che sarebbe più esatto definire auto-invasione, dal momento che i nostri governi, le nostre istituzioni, il nostro clero, la incoraggiano, l’approvano e la favoriscono in ogni maniera: fino al punto di inviare le navi della nostra Marina militare a raccogliere queste persone a poche miglia dalla costa africana dalla quale partono, dopo essere state filtrate e "disciplinate" da centrali terroristiche delle quali fingiamo di non vedere il ruolo che giocano in questa supposta "migrazione".

Però, lo ribadiamo, se la civiltà europea esistesse ancora, se credesse in se stessa, se avesse amore e rispetto di sé e delle proprie radici, non saremmo a questo punto; vi sono state epoche della storia in cui essa ha saputo difendersi contro nemici estremamente agguerriti (a Vienna, per esempio, nel 1529 e nel 1683; o a Lepanto, nel 1571), e, pur mostrando sintomi di profonda disunione (quando i re di Francia trescavano col Turco, in odio all’Impero asburgico, per dirne una), è riuscita non solo a parare la minaccia, ma anche a rafforzarsi, espandersi, e infine proporsi come il motore della storia mondiale. Ora, però, essa sta affondando sotto il potere illimitato che ha concesso a tecnici e scienziati, ormai liberi di manipolare a piacere le vite e perfino i cromosomi, oltretutto presentando tali sinistre operazioni come programmi altamente filantropici e come espressioni di progresso.

Scriveva Joseph De Maistre (1753-1821), due secoli fa, nelle «Serate di Pietroburgo» (cit. in: Filippo Burzio, «Piemonte», Torino, Editrice Teca, 1965, pp. 213-215):

«Noi non abbiamo saputo tenere in questo secolo i "dotti" al loro posto [ma la giusta traduzione avrebbe dovuto essere "gli scienziati" e non "i dotti", come del resto si evince chiaramente dal seguito del ragionamento di De Maistre], che è il secondo. Un tempo vi erano pochissimi dotti, e un piccolissimo numero di questo piccolissimo numero era empio: oggi non si vedono altro che "dotti"… da tutte le parti essi hanno usurpato un’influenza senza limiti: e tuttavia, se v’è una cosa certa al mondo, è, a mio avviso, che NON S’APPARTIENE ALLA SCIENZA DI GUIDARE GLI UOMINI.. tocca ai prelati, ai nobili, ai grandi ufficiali dello Stato d’essere i depositari e i custodi delle verità conservatrici; d’insegnare alle nazioni ciò che è male e ciò che bene; ciò che è vero e ciò che è falso nell’ordine morale e spirituale: gli altri non hanno diritto di discutere su siffatte materie. Essi hanno le scienze naturali per spassarsi: di che potrebbero lagnarsi? … I filosofi (o quelli che così son chiamati) han tutti un orgoglio feroce e ribelle che n on si contenta di niente: detestano senza eccezione tutte le distinzioni di cui non godono, non v’è autorità che a loro non dispiaccia, non v’è cosa sopra di loro ch’essi non detestino […].

La tentazione più perfida che possa presentarsi alla mente umana: quella di credere alle immutabili leggi della natura. Io… non scorgo quelle leggi immutabili , e quella inflessibile catena di eventi, di cui si è tanto parlato: non vedo, al contrario, in natura, che delle molle pieghevoli, quali appunto debbono essere per acconciarsi, quanto è necessario, all’azione degli esseri liberi… Tutti i filosofi del nostro secolo non parlano che di leggi immutabili: lo credo! Non si tratta per essi che d’impedire all’uomo di pregare; e questo è il mezzo infallibile di riuscirvi… la loro filosofia non conosce l’olio della consolazione. Essa dissecca, indurisce il cuore ed allorché ha ridotto l’uomo a siffatta condizione, crede avere formato un sapiente…"»

Ha ragione da vendere, De Maistre, quando afferma che agli scienziati, in una società sana e coesa, dovrebbe essere riservato il secondo posto, non il primo; ma quest’ultimo, diversamente da quel che lui pensava, e che era già anacronistico pensare all’epoca della Restaurazione, dovrebbe spettare a una classe dirigente degna di questo nome, spiritualmente evoluta, culturalmente preparata, conscia delle sue responsabilità, moralmente solida, e, soprattutto, selezionata secondo il merito, sì da esprimere quanto di meglio la società possiede, intellettualmente, spiritualmente e moralmente: politici, amministratori, insegnanti, medici, professionisti, imprenditori, sacerdoti, ufficiali di carriera, cresciuti col senso del dovere, nell’amore per la cultura e nella dedizione al bene pubblico.

Lo strapotere dei tecnici e degli scienziati è stato criticato anche da pensatori assai più recenti di De Maistre, e di orientamento molto diverso dal suo; per esempio, dal filosofo della scienza Paul K. Feyerabend (1924-1994), il quale metteva in guardia contro i pericoli ad esso inerenti ed esortando i comuni cittadini a riprendersi in mano il proprio destino, sottraendolo alle decisioni dei sedicenti "specialisti" che tendono ad ergersi a veri e propri tiranni del progresso. Tuttavia, quanto alla classe dirigente "umanistica" da noi delineata, qualcuno potrebbe pensare che essa esiste solo nei sogni di qualche improbabile utopia, e che con le utopie non si offrono risposte, tanto meno ad una civiltà in agonia, attanagliata da una malattia mortale.

Ebbene, noi pensiamo che non sia così; che non vi sia nulla di utopistico nei tratti salienti della classe dirigente che abbiamo testé delineato; di più ancora: non esitiamo ad affermare che una simile classe dirigente noi l’abbiamo avuta, e che essa ha svolto il suo ruolo degnamente, fino a una o due generazioni fa. Non abbiamo parlato di persone infallibili, né abbiamo immaginato delle istituzioni perfette: semplicemente, lo ripetiamo, abbiamo pensato a persone e istituzioni mediamente all’altezza dei loro compiti, con le idee chiare su quel che va fatto, con un sufficiente spirito di sacrificio e senso dell’onore, con una adeguata preparazione professionale, con un discreto retroterra culturale, e, più importante di tutto, con un bagaglio di valori etici profondamente sentiti, anche se non sempre e ovunque — ma questo è umano, ovviamente – messo interamente a frutto, non sempre del tutto rispettato, non sempre realizzato.

Fino a una o due generazioni fa, un politico o un pubblico amministratore sorpresi a rubare, dovevano dimettersi; un insegnante, un medico, un professionista poco seri, poco preparati, venivano circondati dalla riprovazione generale e, in un modo o nell’altro, allontanati dai posti di maggiore responsabilità; un imprenditore, un sacerdote, un ufficiale di carriera che si fossero macchiati di comportamenti non consoni alla loro funzione, che avessero dato scandalo sul piano morale, o professionale, o, peggio, giudiziario, macchiandosi di colpe o di reati, sarebbero spariti dalla circolazione: magari promossi, se non era possibile cacciarli, ma, in ogni caso, allontanati dallo sguardo di coloro che ne avevano visto la miseria e l’inadeguatezza. Era una società bigotta, una società giustizialista? Sì, certo, secondo i parametri odierni: secondo i parametri di una società relativista e permissiva, che non si scandalizza più di nulla e che giunge ad ammirare il corrotto che la fa franca, il disonesto che arricchisce o avanza nella carriera.

Il nostro problema attuale è che le cosiddette classi dirigenti non dirigono più un bel nulla: vivacchiano, oppure spadroneggiano, vale a dire che saccheggiano risorse e occupano spazi professionali, politici, economici. Di fatto, sono divenute classi parassitarie: non producono idee, né ricchezza, né forniscono buoni esempi: vanno dove soffia il vento, investono capitali la borsa va su, delocalizzano le fabbriche quando la borsa va giù, tirano a campare, seguono le masse invece di guidarle, prendono tempo e speculano su quel poco che resta di sano e di produttivo. Le nuove classi dirigenti sono ormai formate da tecnici, scienziati, specialisti (soprattutto quei sedicenti "specialisti" che vanno sotto i nomi di sociologi, psicologi, psicanalisti, opinionisti, sondaggisti, pubblicitari, esperti di mangement e simili): esattamente quelli che, secondo De Maistre, devono stare al secondo posto, perché non spetta a loro custodire, e tanto meno elaborare, i valori morali e spirituali sui quali una società, per poter esistere, deve necessariamente reggersi. Ma costoro, per definizione e per formazione, non possiedono valori morali e spirituali "forti", né si pongono la domanda su dove si voglia andare: ad essi basta andare avanti in una direzione qualsiasi, purché ci sia una nuova scoperta scientifica da sfruttare. «Sapere è potere», diceva Bacone. Si scopre che le persone possono venire persuase ad accettare qualsiasi cosa, anche la più ripugnante, come il cannibalismo, purché opportunamente "lavorate" secondo precisi meccanismi di condizionamento collettivo, come illustrato dalla "finestra di Overton"? E allora, ecco, subito si vuole mettere a frutto tale "scoperta", e vedere fino a che punto gli esseri umani possano venire eterodiretti, come burattini, fino ad instaurare il regno della pazzia e presentarlo come il trionfo della razionalità della saggezza, della tutela dei più "deboli" e dei più "indifesi": anche se la verità è tutto il contrario. E allora, dove andrà a finire la civiltà europea, ora che s’è affidata a questi apprendisti stregoni, i quali suscitano forze diaboliche e non hanno alcuna idea su quel che ne seguirà? Lo sapremo ben presto…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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