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«Ho dovuto restituire le chiavi del Duomo». Chi parla così è una ragazza dall’aria simpatica e dal viso pulito, psicologa di professione, un passato di cattolica militante, oratorio, Azione Cattolica, boy-scout e tutto il resto (non ne facciamo il nome per discrezione; ma è sulla stampa e sulla rete, perché così lei ha voluto). Poi, ha avuto dapprima una relazione con un uomo separato; indi, la decisione di andare a vivere con una donna, in una relazione apertamente omosessuale. Eppure non riesce a darsi pace, si sente cristiana come lo era prima. Nel mezzo della crisi determinata dalla "brusca" reazione del suo sacerdote di riferimento, dice di essere andata al monastero di Bose (quello del falso prete Enzo Bianchi), dove dice di essersi sentita finalmente "accolta" e riconciliata con la Chiesa. Ora continua a frequentare la Messa e a fare la comunione, pur sapendo che la Chiesa disapprova la sua vita: in pratica, ha deciso di assolversi da sola. Di farsi una religione fai-da-te, dove libito diventa licito, a propria discrezione, compresa la pratica dei sacramenti. Pur sapendo che accostarsi ai sacramenti senza aver ricevuto dal sacerdote la debita assoluzione è un sacrilegio.
È una storia come tante, niente di speciale rispetto a mille altre. Se ci soffermiamo su di essa, è perché bene illustra la perfetta inconsapevolezza, il relativismo auto-referenziale e auto-assolutorio con il quale milioni di "credenti", dopo il Concilio Vaticano II, si sentono autorizzati a intendere la propria "vocazione". A forza di sentirsi ripetere, da preti progressisti e modernisti, che Dio cerca l’uomo con amore e misericordia infiniti (il che è vero), hanno finito per scordare che Dio non può fare tutto, altrimenti annullerebbe il dono più prezioso che ha fatto all’uomo: il libero arbitrio; e che, pertanto, anche l’uomo deve fare qualcosa. Anche l’uomo lo deve cercare: e, per trovarlo, non può pretendere di dettargli le regole del gioco. Deve abbandonarsi al suo gioco: deve lasciar fare a Lui, ma partendo da un atteggiamento di assoluta umiltà e obbedienza, non di superbia. Deve svuotarsi del suo "io" e incominciare a dire "Tu". Non può pretendere che si pieghi alla sua logica, ai suoi desideri; che chiuda entrambi gli occhi sulle sue debolezze, sempre e comunque.
Un simile cristianesimo non sarebbe più cristianesimo: sarebbe una auto-deificazione dell’uomo travestita da cristianesimo. Un trucco per sembrare con le carte in regola. Ma del cristianesimo non avrebbe più la cosa essenziale: «Sia fatta la Tua volontà, Padre; non la mia». A questa logica si è sottomesso Gesù Cristo, pregando e sudando sangue nell’Orto degli Ulivi; possono sottomettersi anche gli uomini. Anche se pensano di aver "ragione", di essere nel "giusto". Ma l’uomo, se non accetta la volontà di Dio, non è mai nel giusto. Ed ecco, allora, la tentazione diabolica. Che fa leva sul più antico e più istintivo di tutti i peccati, quello di Adamo ed Eva, la superbia: «Ma che ne sa la Chiesa, di ciò che è la volontà di Dio? In fondo, la Chiesa è fatta soltanto di uomini. No, dai retta a me: devi imparare a fidarti di te stesso (o di te stessa). Fai tutto ciò che ti va di fare, perché sei meraviglioso (o meravigliosa). Non devi giustificarti, non devi pentirti, non devi convertirti: vai già bene così come sei. Dio ti ama, Dio ti accoglie, Dio ti accetta. Lui sì; non quei preti bigotti e oscurantisti». Ecco: questa, crediamo, è la tentazione del Diavolo. Giusto; chi è quel sacerdote, per condannarmi? Io mi assolvo da solo; anzi, sono certo che anche Dio mi assolverebbe. Diciamo meglio: non c’è niente da assolvere, perché chi segue la natura, non pecca. La natura è buona; reprimerla è sbagliato, produce ipocrisie, infelicità e nevrosi. Lo afferma anche Freud, lo dicono tutti gli psicanalisti, questi nuovi sacerdoti della Religione umanistica. Si sa. Solo i preti bigotti non lo sanno, non lo vogliono ammettere. Tanto peggio per loro.
Solo che tutto questo non è cristianesimo; è un’altra cosa Ciascuno ha diritto di pensare quel che vuole e la responsabilità di fare quel che gli pare: su questo non ci piove. Quel che non si può fare, è pretendere di essere comunisti (o fascisti, o democratici, o qualsiasi altra cosa), se non si è tali; di essere chiamati onesti, se non si è onesti; di sentirsi, e di vedersi riconosciuti, cattolici, se non si è cattolici. Non si sarebbe intellettualmente onesti. Non ci si può dichiarare quel che non si è, e non si può pretendere che gli altri riconoscano in noi quel che non c’è; né si può accusarli di pregiudizio, di chiusura, di grettezza, per il fatto che essi ci vedono per quel che siamo, e non per quel che pretenderemmo di esse, ma senza esserlo davvero. Nessuno, evidentemente, può impedire a due omosessuali di vivere la loro vita come meglio credono; ma c’è molto da dire sul fatto che essi pretendano di sposarsi, e che la loro unione venga ufficializza come un "matrimonio". Che sia loro concesso di adottare bambini (cioè, in pratica, nel caso degli omosessuali maschi, di "comparare" dei bambini in qualche Paese povero, dove le leggi lo permettono). E di essere chiamati cristiani e cattolici, e magari sposati in chiesa da qualche prete compiacente, come quel don Franco Barbero che accusa la Chiesa di "non capire" il problema degli omosessuali (ma intanto è stato dimesso allo stato laicale fin dal 2003).
E allora, dov’è il problema? Perché queste persone si ritengono trattate ingiustamente? Perché vogliono fare una "battaglia di civiltà", denunciare la "discriminazione" cui sono sottoposte, il "pregiudizio" di cui sono fatte oggetto? Perché non si accontentano di vivere la loro vita come meglio credono, tanto più che, a sentir loro, in moltissimi casi, genitori, parenti e amici si sono rallegrati e felicitati con loro, si son detti fieri di loro, hanno approvato tutte le loro scelte, compresa quella di avere o di adottare dei bambini? Perché sentono il bisogno di ottenere una attestazione giuridica, un riconoscimenti legale, una parificazione davanti alla legge? Si direbbe che ci sia qualcos’altro, oltre al proclamato desiderio di godere di tutti i diritti garantiti ai cittadini; quasi un inconscio desiderio di rivalsa. Non si accontentano di esercitare la propria libertà soggettiva: vogliono, pretendono, da parte della società, che questa riconosca oggettivamente l’assoluta "normalità" delle loro scelte. Se fossero davvero così tranquilli e perfettamente in pace con se stessi, come dicono di essere, sarebbero paghi di quel che dice la loro coscienza; non avrebbero alcun bisogno dell’approvazione altrui: né dello Stato, né della Chiesa.
Già, la Chiesa. La signorina di cui parlavamo all’inizio, e nella cui storia ci siamo imbattuti per caso, all’età di trent’anni dice di aver scoperto la propria omosessualità. Confessiamo di provare un certo imbarazzo ad entrare così nella vita altrui; ma non siamo noi ad entrarvi, sono queste persone che vogliono far sapere a tutti i casi loro. Questa signorina, dunque, si è affrettata a mettere la sua storia sui social network; poi, non parendole abbastanza, ha rilasciato interviste sia a giornali cartacei, sia su Youtube, raccontando con dovizia di particolari la sua vicenda. Titolo a caratteri cubitali: «Avevo le chiavi del Duomo di XXX». Come poi viene specificato: godeva della massima fiducia da parte dell’arciprete. Ma poi, quelle chiavi, ha dovuto restituirle. Dopo che lei aveva fatto le sue scelte e non aveva voluto nasconderle. Benissimo; ma dov’è il problema? Quando si fanno delle scelte difformi dal gruppo cui si appartiene, e nel quale ci si riconosce, c’è un prezzo da pagare per uscirne: quello di dover affrontare la solitudine. È normale: chi non rispetta le regole stabilite, non può restare all’interno del gruppo. Questo è il prezzo: e non è troppo caro, se si è convinti di quei che si sta facendo. Può sussistere, eventualmente, una certa amicizia a livello personale: questo dipende dalle singole persone, da una parte e dall’altra. Ma con il gruppo, il rapporto di fiducia si è incrinato, ed è logico che sia così. È venuto meno il rispetto delle regole, e, prima ancora, è venuta meno la condivisione dei principi e dei valori. E dunque, dov’è lo scandalo? Il prete che l’ha confessata, non ha preso bene la sua relazione con un uomo separato: è logico. Per la Chiesa, un uomo separato è colui che ha lasciato indebitamente la propria moglie: ha rotto un vincolo sacro, il matrimonio cristiano. Come potrebbe, la Chiesa, approvare la scelta di una ragazza di mettersi insieme ad un uomo separato, che ha lasciato la sua legittima sposa? Sarebbe come approvare l’adulterio e il disprezzo di un sacramento. La Chiesa non può farlo: non potrebbe, nemmeno se il singolo prete lo volesse. Un certo Gesù Cristo, a questo proposito, è stato molto chiaro: «L’uomo non separi ciò che Dio ha unito». Questa signorina è rimasta male, avrebbe voluto un po’ più di comprensione. Ma un prete — a prescindere dal tatto e dalla delicatezza personali, che sono doti auspicabili sempre, ma che non sempre ci sono — non può fare il generoso con ciò che non gli appartiene. Non può minimizzare un peccato grave per compiacere i suoi parrocchiani. Non è lui personalmente che assolve o non assolve; è Gesù, per mezzo della sua persona. E Gesù, come abbiamo visto, è stato chiarissimo. Perciò, torniamo a domandare: dov’è lo scandalo? Assistiamo a una strana pretesa: quella di chi vuole infrangere una legge, ma esigendo che ciò non rappresenti motivo di sanzione. Quel che va bene a noi, deve andar bene anche al ministro di Dio: la nostra coscienza ci assolve. Ma se la coscienza ci assolve, allora perché chiedere l’assoluzione ad altri? Questa è una incoerenza incomprensibile: come se un anarchico si recasse al seggio elettorale e pretendesse che gli scrutatori gli rilasciassero un documento nel quale si attesta che egli non ha votato, perché non crede né allo Stato, né alle sue leggi, però è pur sempre un ottimo cittadino, rispettoso delle leggi e dello Stato: e che, anche se non ha voluto deporre la scheda nell’urna, si deve attestare che anche è come se avesse votato, perché essersi recato al seggio e aver spiegato le sue ragioni equivale al fatto di votare. Strane contorsioni. Poi, cinque anni dopo, la "scoperta" dell’omosessualità. Anche qui, non vogliamo entrare nel merito; non ci entreremmo, se quella persona non avesse voluto farlo sapere al pubblico più vasto possibile. Abbiamo qualche riserva su queste "scoperte" sessuali tardive: secondo noi, una persona realmente omosessuale comprende la propria natura molto, ma molto prima dei trent’anni. Perfino prima dell’adolescenza. Vogliamo dire che, in questa materia, i "veri" omosessuali sono, probabilmente, un decimo o un ventesimo di quelli che si proclamano tali; ma questa è solo una nostra opinione, e non pretendiamo che abbia valore scientifico. Abbiamo solo la sensazione che, nella società trasgressiva odierna, la curiosità intorno a tutto ciò che è "proibito" genera i comportamenti anomali, ed usiamo quest’ultima parola senza alcuna intenzione offensiva. Sia come sia: a quel punto, avendo instaurato una relazione omosessuale, la rottura con la Chiesa appare inevitabile. Ergo, restituzione delle chiavi del duomo della sua cittadina. E dunque, di nuovo: dov’ è mai lo scandalo? Se viene meno un rapporto di fiducia, è logico che vi siano delle conseguenze. Diremo di più: se qualcuno si pone al di fuori delle regole del suo gruppo, dovrebbe essere lui stesso a togliere gli altri dall’imbarazzo, traendo le doverose conseguenze del suo agire. La stima come persona, può restare; ma la stima come membro di quel gruppo, con quelle regole, con quei valori, evidentemente no.
Oggi si assiste a uno strano fenomeno: le minoranze non accettano più la propria posizione marginale; pretendono visibilità, legittimità, parità; pretendono qualcosa di più: che la maggioranza dichiari solennemente non esserci alcuna differenza fra se stessa, e loro. A costo di negare l’evidenza, di cadere nell’assurdo. La parola "normalità" è diventata politicamente scorretta, addirittura impronunciabile. Del resto, ci era stato detto e suggerito per anni, silenziosamente, con fare apparentemente innocuo: «Che vuol dire "normale"? Siamo tutti normali e siamo tutti anormali. Ciascuno è diverso, ciascuno è se stesso». Si è arrivati alla palese contraddizioni di negare che le razze umane esistano, per esempio, pur riconoscendo che vi sono evidenti differenza fra gli esseri umani: simili amenità si possono leggere su quel sacro testo che è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Dunque: le razze non esistono, perché, se esistessero, potrebbe ricomparire anche il razzismo; però le differenze fra i gruppi umani vi sono, e appaiono evidenti: tanto peggio per la logica, e anche per il buon senso. La questione omosessuale, a nostro modo di vedere, e sempre nel massimo rispetto di tutti e di ciascuno, si pone sullo stesso piano. Oggi, tutti gli orientamenti sessuali devono essere proclamati, solennemente, "normali", perché sono tutti legittimi; e chi lo mette in dubbio, lo fa a suo rischio e pericolo, nel senso che rischia una denuncia per omofobia, e di dover fare i conti con le sanzioni previste dalla legge. Cioè: per legge bisogna negare l’evidenza: che il rapporto fra uomo e donna sia la condizione normale e legittima che assicura stabilità alla famiglia e al gruppo sociale; che da essa nascono i bambini, naturalmente e armoniosamente; e che l’omosessualità sia un male oggettivo sia per la famiglia, sia per la società (tanto è vero che, se dilagasse oltre un certo limite, ciò porterebbe la società all’estinzione).
Quanto alla religione cattolica, sebbene non spetti a noi, che non siamo né preti, né teologi, entrare nel merito, è noto che essa distingue fra la condizione e la pratica dell’omosessualità. Essere omosessuali non è peccato, perché gli istinti naturali, di per sé, non costituiscono peccato. Assecondare gli istinti, quando essi sono contrari alla legge morale, quello è il peccato. Possiamo immaginare facilmente l’obiezione che subito ci verrà mossa: dunque, la Chiesa sa proporre solo la castità, per non incorrere nel peccato. Certo, in una cultura che parla solo di diritti individuali, questo appare intollerabile. Ma il male è proprio questo: si è perso il senso del sacrificio, del limite, della croce. Non tutto è chiaro, nella condizione umana. Vi sono cose che restano misteriose, e che la ragione umana non arriva a comprendere. Perché un bambino nasce con un difetto gravissimo, o si ammala di una malattia incurabile, che lo condanna a una morte dolorosa e prematura? Perché? Nessuno può dirlo, nessuno lo sa. La religione cattolica non ha una spiegazione per tutto, ma ha una risposta universale: la croce. L’accettazione del mistero della sofferenza. La preghiera, la penitenza, l’amore a Dio. Parole vecchie, parole senza più contatto con la realtà? No, parole eterne: è la società moderna ad essersi allontanata da Dio. La cultura moderna vorrebbe comprendere e spiegare ogni cosa: è malata di superbia intellettuale, gonfia di orgoglio. Quando si perde la relazione amorevole con Dio, il mistero della sofferenza diventa insopportabile. Ci si ribella; lo si rifiuta. Si vorrebbe negarlo. Si pretendono delle leggi che annullino quel mistero, se possibile; che prevedano pene severe nei confronti di chi abbia il torto di ricordarlo, quando non lo è. Se colui che soffre si prende questo tipo di rivincita; se riesce a far sì che le leggi umane proclamino giusto e naturale ciò che non è naturale e neppure giusto, egli trova — forse – un certo qual sollievo, sia pure parziale e temporaneo, al suo soffrire. Ci si vuole ingannare con le parole. Si pretende, e ci si illude, che, quando i ciechi saranno chiamati, per legge, persone "diversamente abili"; e quando i malati di mente avranno ottenuto la chiusura dei manicomi e l’ammissione che è la società ad essere impazzita, e non loro; e quando si sarà trovato il modo di cambiare il colore della propria pelle, o di modificare i tratti del proprio volto, alla Michael Jackson, allora tutti i problemi finiranno, e con essi anche i complessi, le sofferenze, il senso di esclusione. Si vuol far finta, ad esempio, che l’unico problema, per gli omosessuali, risieda nel fatto che gli altri non li accettano. Ma forse non è così. Forse qualcosa, nel loro intimo, nel loro profondo, non sarebbe appagato e rasserenato neppure quando il mondo intero proclamasse che non esiste alcuna differenza fra amare una persona dell’altro sesso, e amarne una del proprio. Resterebbe comunque un disagio, un turbamento. Frutto del’educazione "sessuofoba" e "repressiva"? Forse. O forse no; forse è semplicemente il frutto della legge morale, che esiste nell’anima di ogni essere umano, fin dai primi anni di vita.
Si può barare con il mondo intero, ma non con se stessi. Sui libri di psicologia, fino a due generazioni fa, l’omosessualità era classificata fra le "perversioni"; oggi non più, e chi osasse dire una cosa del genere, rischierebbe una denuncia. Ma sui libri si può scrivere quel che si vuole, e si trova sempre una scienza mercenaria disposta, anzi, più che disposta, addirittura smaniosa, di ratificare l’esistente, qualunque esso sia. Di fatto, in una società relativista, come la nostra, i libri, i giornali, la televisione, il cinema, e soprattutto quella mediocre genia di parassiti e di mercenari che va sotto il nome di "intellettuali", dicono e ripetono quel che l’opinione pubblica vuol sentirsi dire. Opinione pubblica che, a sua volta, è miseramente manipolata dai poteri forti che stanno nell’ombra, e che manovrano tutti quanti come degli utili e volonterosi burattini. Meglio se i burattini sono in perfetta buona fede: sono i più zelanti, e quindi, appunto, i più utili alla "causa". Quale causa? Quella dell’omologazione universale; dell’appiattimento del mondo; della generale servitù volontaria. La scomparsa delle teste pensanti. La grande palude nella quale non ci saranno più persone, ma solo e unicamente produttori e consumatori, pronti a farsi convincere di ogni nuovo "bisogno" artificialmente creato dai suddetti poteri. Perché gli uomini, in una società edonista e relativista, credono di fare quel che vogliono: in realtà, fanno quel che altri vogliono che essi facciano. Si credono liberi e, invece, sono solo schiavi.
Ci sarebbero tante altre cose da dire; ma basta così. È impossibile dialogare con chi si crede nel giusto solo perché si sente autorizzato a esercitare un diritto, o una serie di diritti. La vita non è diritto, ma servizio: perché è una cosa troppo seria. Con ciò, non vogliamo giudicare nessuno. Ci piacerebbe solo che ciascuno accettasse le conseguenze delle proprie scelte; c’è sempre un prezzo da pagare. Ed è giusto. Oltre al bene ed al male, si vorrebbe abolire anche il valore del sacrificio…
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