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Peppone e don Camillo sono il simbolo di un’Italia che pensa anzitutto al bene comune

L’Italia era uscita a pezzi dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Non solo era stata sconfitta, ma si era giocata il suo onore e la sua credibilità, all’estero e, quel che più conta, nei confronti di se stessa; aveva vissuto il dramma di una guerra civile e non aveva avuto il coraggio di chiamarla con il suo nome; era passata alla democrazia sull’onda della "liberazione" da parte degli Angloamericani, ma illudendosi di essersi liberata, sostanzialmente, da sé; e voltando la testa dall’altra parte mentre bande di partigiani comunisti, i quali non certo per instaurare la democrazia avevamo preso le armi, ma per instaurare una nuova e ben più spietata dittatura, scorrazzavamo impunemente per il Paese, arrestando, fucilando e facendo sparire migliaia e migliaia di cittadini, così, senza processo, senza parvenza alcuna di legalità, e gettando i cadaveri nei fiumi, nel mare, nelle grotte, nelle foibe. Il terrore regnava in alcune regioni, come nel tragico "triangolo rosso" dell’Emilia-Romagna: spadroneggiavano quelli dal grilletto facile, e chi faceva troppe domande, rischiava a sua volta di fare una brutta fine.

Le distruzioni morali e spirituali si sommavano a quelle materiali. L’industria era in gran parte salva (e non certo, come fu detto, per merito dei partigiani, ma semplicemente perché i Tedeschi in ritirata, contravvenendo agli ordini del loro Comando Supremo, non fecero saltare in aria le fabbriche, puntando tutto sull’obiettivo di riguadagnare la Germania senza lasciarsi invischiare in una inutile e disperata battaglia di retroguardia); però non c’erano materie prime, né combustibile; le città avevano subito danni spaventosi dai bombardamenti aerei, e così le ferrovie, le strade, i porti; il patrimonio zootecnico era stato pressoché distrutto; l’economia era regredita al baratto; dai campi di prigionia, dalla Venezia Giulia, dalle ex colonie, rientravano laceri, affranti, centinaia di migliaia di Italiani che avevano perso tutto e che non avevano alcuna speranza di trovare un lavoro; e centinai di migliaia di Italiani riprendevano, dolorosamente, la via dell’emigrazione, come già avevano fatto i loro padri e i loro nonni, verso Paesi vicini e lontani, anche al di là dell’Oceano, anche in capo al mondo, fino al Sud dell’Argentina, alla Terra del Fuoco.

In questo Paese vinto, avvilito, profondamente umiliato, che aveva sognato di occupare una posizione eminente a livello mondiale e che aveva iniziato a costruire un intero quartiere nuovo di zecca, nella capitale, per celebrare la propria grandezza in occasione dell’Esposizione universale del 1942, e che adesso si trovava in ginocchio, non tutto era, però, perduto. Nonostante le ferite, morali e materiali; nonostante l’odio recente, i delitti rimasti impunti; nonostante la sudditanza verso il vincitore, che pur si era mostrato largo di aiuti, con il Piano Marshall, per la ricostruzione, non certo senza interesse, qualche cosa, nonostante tutto, era rimasto vivo: qualche cosa delle antiche virtù che né la sconfitta, né la guerra civile, avevano potuto interamente distruggere. Si trattava di un certo qual senso istintivo della solidarietà, del bene comune, dell’interesse generale; e, prima ancora, di una serie di virtù pratiche, la laboriosità, la sobrietà, l’onestà personale, il rispetto della parola data, una certa qual lealtà di fondo, vuoi per il retaggio dell’educazione religiosa, vuoi per quello di un modello civile che, dittatura o non dittatura, non aveva mai premiato apertamente la disonestà e la furfanteria, ma aveva sempre tenuto fermo il principio che il buon cittadino è quello che può andare a testa alta fra la gente, perché non ruba, non mente, non calunnia e, soprattutto, non si prostituisce, non si vende, mai, per nessuna ragione al mondo, fosse pure in cambio di un tesoro. A dispetto del fatto di essere povero, con la giacca rammendata e i pantaloni troppo corti, essendo quelli ereditati dal padre o dal fratello maggiore.

Altro fattore positivo: pur essendo fortemente ideologizzato, specialmente a cavallo delle elezioni politiche del 1948, in un mondo spaccato a metà dalla Guerra fredda, l’Italiano medio non era però (non ancora) così fanatizzato da ragionare solo ed esclusivamente in termini d’ideologia, fino al punto di anteporre l’ideologia a tutto il resto, e persino al buon senso. L’Italiano medio aveva conservato, attraverso tante vicissitudini e tante sciagure, un istintivo sentimento della cosa giusta da fare: nei confronti di se stesso, della propria famiglia, della propria moglie o del proprio marito, nei confronti del quartiere o del paese, nei confronti della Patria – che si poteva ancora chiamare così, senza provare un senso d’imbarazzo o di vergogna, come poi accadrà, specialmente a partire dagli anni del totale incretinimento politico e civile: quelli del 1968. Abituato alla povertà e alla sua inseparabile compagna, la sobrietà, sapeva che non ha senso cercare il proprio benessere a danno del prossimo e contro il prossimo. Abituato a vivere in case sovraffollate, con i servizi igienici in comune, con la fontanella dell’acqua da dividere con le pecore o le mucche, era abituato anche a pensare in termini di solidarietà e di collaborazione, perché il puro e semplice buon senso gli aveva insegnato che solo così avrebbe potuto proteggere se stesso e le persone care, non certo cercando di fregare i vicini o i parenti, coi quali divideva le magre risorse di una vita di stenti.

Insomma: la modernità non era ancor giunta a devastare definitivamente le menti ed i cuori degli Italiani; il boom economico, il benessere, il consumismo, che avrebbero stravolto per sempre il paesaggio, esteriore e interiore, degli Italiani, erano ancor di là da venire; in tempi di vacche magre, si tendeva ad aiutarsi, a compatirsi, anche se le rivalità esistevano, anche se le inimicizie non erano affatto merce sconosciuta. Però gli Italiani di allora avevamo abbastanza sale in zucca per capire che solo restando uniti, solo conservando un po’ di comprensione reciproca, avrebbero potuto tenere in piedi la baracca. Il femminismo non era ancora giunto a seminare la discordia ideologica fra la donna e l’uomo; mogli e mariti facevano del loro meglio per comporre le loro difficoltà, le loro incomprensioni, e per tirar su i figli con dei buoni principi, secondo l’esempio ricevuto dai nonni. Non era il paradiso terrestre, c’erano amarezze e delusioni, ma c’era anche la consapevolezza che la vita non è un luna-park, non si viene al mondo per "realizzarsi" egoisticamente, a discapito del prossimo, ma per vivere una vita buona, per fare degnamente la propria parte. In poche parole, il diabolico consumismo non aveva ancora guastato la sana coscienza delle persone.

Un esempio di quel buon senso che viene prima delle contrapposizioni ideologiche; di quella moralità che precede e che corregge i difetti delle istituzioni, dei partiti, delle chiese; di quella sobrietà, di quella moralità, di quel rispetto di sé e degli altri, che hanno consentito agli Italiani del secondo dopoguerra di rialzarsi in piedi, di medicare le ferite, di ricostruire le case, di risanare l’economia, facendo, addirittura, della lira una delle monete più stabili al mondo, tanto che fino ai primi anni Sessanta l’Italiano viaggiava nel Centro Europa per risparmiare sulle vacanze, è contenuto nella serie dei libri di racconti, o romanzi a episodi, di Giovannino Guareschi (1908-1968) intitolata «Mondo piccolo», e incentrata sulla rivalità, venata di rispetto, se non anche di vera amicizia, e sia pure inconfessata, fra il sindaco comunista Peppone e l’arciprete don Camillo, anticomunista a tutto tondo, in un non meglio identificato paesino della Bassa Padana (la localizzazione di Brescello è venuta con il cinema, mentre nei libri, una quindicina in tutto, il nome del paese resta sconosciuto al lettore).

Ha scritto Gian Franco Venè in «Vola Colomba. La vita quotidiana degli italiani negli anni del dopoguerra: 1945-1960» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1990, pp. 224; 228-231):

«Peppone e don Camillo nacquero nel 1946 sulle pagine di "Candido" ma penetrarono nelle biblioteche di famiglia solo nel 1948 quando apparvero nel volume intitolato "Mondo piccolo"; raggiunsero il massimo successo all’inizio degli anni Cinquanta, in un’epoca nella quale più di quattro milioni di italiani tolsero il voto alla Democrazia cristiana per disseminarlo a destra e a sinistra. […]

Peppone era tutto il contrario dei comunisti raffigurati da Guareschi nelle sue polemiche politiche: retto, onesto, intelligente, il sindaco comunista di "Mondo piccolo" governava il suo paese con saggezza e senso pratico. Era soprattutto incapace di "dare il cervello al’ammasso", come si diceva dei comunisti. Affrontava i problemi quotidiani con buon senso e coscienza: potendo vi impegnava le sue idee di militante comunista, ma se l’ideologia era di ostacolo la accantonava. A differenza degli studenti politicizzati dei primi anni Cinquanta, e a somiglianza dei loro genitori, non credeva affatto a rimedi politici universali. Aveva fede in Dio pur senza darlo a vedere, quando aveva un "peso sulla coscienza" se ne liberava grazie ai sacramenti.

Don Camillo è democristiano perché veste l’abito talare e perché non ha altra risorsa elettorale contro l’ateismo, ma dell’osservanza alle regole ecclesiastiche o governative tiene pochissimo conto. è un "ministro di Dio" come preferisce definirsi, e Dio, raffigurati da Guareschi nel Cristo crocifisso "pesante una tonnellata" con il quale l’arciprete ha colloqui quotidiani, non ha nulla in contrario a che gli uomini si distinguano in rossi, neri e bianchi purché all’atto pratico si comportino cristianamente secondo coscienza. Nell’epoca in cui la Chiesa fulmina gli elettori di sinistra, Peppone raccomanda a Gesù, che gli dia una mano a ottenere la maggioranza in comune. Gesù non s’impegna (a differenza di don Camillo, Peppone non ne percepisce la voce) ma, com’è come non è, anche il suo ministro finisce per votare comunista e i rossi continuano a comandare. Don Camillo aborre il comunismo, per lui un crogiolo pestilenziale di ateismo e di violenza, ma conosce la probità dell’amico avversario e sa che nessuno meglio di lui può amministrare il paese: Peppone, in compenso, vota scheda bianca: sa come vanno le cose nel partito e teme che qualcuno, dall’alto, lo costringa a fare più gli interessi di Mosca che quelli dei concittadini.

In circostanze normali il sindaco e l’arciprete litigano, s’insultano e si scazzottano; ma nel pericolo, di fronte a casi umani o a problemi collettivi da risolvere, trovano di fatto un accordo che trascende la politica, o meglio inaugurano una sorta di superpolitica che non ha nulla a che fare con l’intrigo o gli accordi tattici tra partiti. La microsocietà sulla quale essi agiscono può così progredire gradualmente senza traumi e senza vittorie definitive degli uni sugli altri. La persistenza dei comunisti al potere paese di Peppone non riduce all’immobilità don Camillo: al contrario, se il sindaco comunista costruisce una nuova Casa del Popolo, l’arciprete tanto fa — a costo di ricattare il più reazionario e bolso dei suoi parrocchiani — che inaugura un Oratorio ancora più moderno. Se c’è una crepa nel campanile o crolla la campana "Geltrude", don Camillo provoca i comunisti finché sono costretti a porvi riparo — e alla fin fine ne vanno orgogliosi. L’avversità politica esalta questa solidarietà costruttiva e rassicurante.

La morale contenuta nelle fiabe di don Camillo e Peppone si insediò nelle pieghe sentimentali dei lettori assai più spregiudicatamente dei consigli della Contessa Clara e dei drammi passionali di Raffaello Matarazzo. La scrittrice e il regista raccomandavamo la compassione per chi aveva sbagliato, ma ritenevano inevitabile l’espiazione dei trasgressori. Il sindaco e l’arciprete di Guareschi, invece, insegnavano che nessuna legge umana è assolutamente inderogabile: infierire sugli altri solo perché lo vogliono le disposizioni, le consuetudini, l’opinione pubblica o la mentalità è un delitto di presunzione contro la coscienza. Quando in piena repubblica muore la vecchia maestra monarchica, Peppone e don Camillo ne raccolgono l’ultimo imbarazzante desiderio: essere portata al cimitero con la bara avvolta nel tricolore sabaudo. La legge lo proibisce, il sindaco riunisce democraticamente il Consiglio comunale che esprime parere negativo, a cominciare dal gruppo democristiano. L’ultima parola spetta a Peppone: "In qualità di sindaco vi ringrazio per la vostra collaborazione e come sindaco approvo il vostro parere di evitare la bandiera richiesta dalla defunta, però siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere e che domani la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei perché rispetto più lei morta che voi tutti vivi".»

Scrittori come Guareschi, oggi, non se vedono molti in giro: non sul piano della qualità letteraria, ma su quello della passione civile e della risentita, esigente umanità. Guareschi, giova ricordarlo, è stato l’unico giornalista a finire in galera e a scontare la sua pena fino all’ultimo giorno, dopo essere stato condannato per diffamazione a mezzo stampa (non volle mai chiedere la grazia). Una accusa ingiusta e vergognosa, che accolse con fierezza e dignità. Ne avessimo ancora, di Italiani come lui…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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