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20 Febbraio 2016Matrimonio e celibato: è venuta meno, ai cattolici “progressisti”, l’attesa escatologica

Se c’è un punto — uno, fra parecchi altri – nel quale appare con maggiore evidenza il venir meno della tensione escatologica, l’affievolirsi e lo spegnersi dell’attesa specificamente cristiana, in quei cattolici che amano definirsi volentieri "progressisti", o addirittura "modernisti" (quasi che la scomunica lanciata da san Pio X contro il modernismo fosse morta insieme a lui), è quello riguardante il rapporto reciproco fra matrimonio e celibato. Premesso che sia il matrimonio, sia l’ordine sacerdotale, sono, per la Chiesa cattolica, come tutti sanno, dei sacramenti, e che, pertanto, non ha senso domandarsi se vi sia un sacramento "superiore" ad un altro, resta la coda di paglia di quei cattolici "progressisti", imbevuti di cultura femminista e di sinistra, orfani del marxismo che non hanno il coraggio di presentarsi apertamente come tali, pieni di risentimento contro il supposto atteggiamento "maschilista" del Magistero ecclesiastico, e contro la stessa Tradizione cattolica (dimenticandosi che la Tradizione non è un elemento di origine umana, e che tanto varrebbe litigare direttamente con Dio), i quali vedono come il fumo negli occhi l’affermazione paolina che ciascuno dovrebbe rimanere nel proprio stato, nubile o sposato che sia, poiché il compimento dei tempi è imminente. L’affermazione si trova nella Prima Lettera ai Corinzi, nel capitolo settimo, che è interamente dedicato alla questione — posta da una specifica domanda dei cristiani di quella comunità — del rapporto reciproco sussistente fra il matrimonio e lo stato celibatario, o, se si vuol essere ancora più precisi, fra il matrimonio e la verginità. Si deduce, dal tono della risposta, che, a Corinto, alcuni uomini, o alcune donne, pur essendo sposati, avevano deciso di vivere come se fossero stati celibi, cioè osservando la completa castità, cosa che contrastava, evidentemente, con la promessa matrimoniale di appartenere al proprio coniuge e di diventare "una carne sola".
San Paolo afferma, a tal proposito (cit., 7, 1-9): «Rispondendo alla domanda che mi avete posto nella vostra lettera, io vi dico: è meglio per l’uomo non sposarsi; tuttavia, per non rischiare di cadere nell’immoralità, ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. L’uomo sappia donarsi alla propria moglie, e così pure la moglie si doni al proprio marito. La moglie non deve considerarsi padrona di se stessa: lei è del marito. E neppure il marito deve considerarsi padrone di se stesso: egli è della moglie. Non rifiutatevi l’un altro: a meno che vi siate messi d’accordo di agire così per un tempo limitato, per dedicarvi alla preghiera. Ritornate però subito dopo a stare insieme, per evitare che Satana vi tenti facendo leva sui vostri istinti. Quel che vi sto dicendo è solo un suggerimento, non un ordine. Io vorrei che tutti fossero celibi, come me: ma Dio dà a ognuno un dono particolare: agli uni dà questo dono, ad altri dà uno diverso. Ai celibi e alle vedove dico che sarebbe bene per essi continuare a essere soli, come lo sono io. Se però non possono dominare i loro istinti contraggano il matrimonio. È meglio sposarsi che ardere di desiderio». Queste, le parole di san Paolo. Come si vede, è necessario distinguere — perché egli stesso lo fa — tra ciò che è "dottrina", ossia Magistero ecclesiastico, e ciò che è semplice opinione, e, in questo caso, fraterno e affettuoso consiglio. Un consiglio può essere ispirato dalla sollecitudine e totalmente disinteressato, e nondimeno può essere sbagliato, o eccessivo, o imprudente. San Paolo afferma essere preferibile il celibato al matrimonio, ma come suggerimento e opinione personale: egli è convinto che la fine dei tempi sia vicina, e che sia bene che ciascuno possa rivolgere tutte le proprie energie spirituali alle cose di Dio, non alle preoccupazioni e alle passioni terrene. Nondimeno, non svaluta e non disprezza affatto il matrimonio; e, quanto al suo supposto maschilismo, esso riceve qui la più completa smentita: la moglie appartiene al marito, così come il marito appartiene alla moglie. È sbagliato che una persona sposata si consideri come padrona di se stessa: ha scelto di donarsi interamente, e così deve regolarsi; non deve più cerare la soddisfazione della propria volontà, ma deve donarsi amorevolmente, e senza riserve, al proprio coniuge. Tale è la vocazione al matrimonio: smettere di affermare l’io e imparare a porre il "tu".
Sembrerebbe impossibile riuscire a trovare tracce, in queste parole, di un atteggiamento negativo nei confronti del matrimonio, che qui è considerato come un dono di Dio, un carisma, alla pari dello stato di verginità: eppure, questo passo della Prima Lettera ai Corinzi è stato una delle pietre dello scandalo per la cultura cattolica "progressista", allorché, negli anni Sessanta del Novecento, è divampato l’incendio della "modernizzazione", impegnata di femminismo e tutta intesa ad accusare la dottrina cattolica di oscurantismo, di repressione sessuale, di misoginia, di disprezzo o di svalutazione della donna e del ruolo delle persone sposate rispetto a quelle che hanno scelto la vita consacrata. Ed ecco che uno stuolo di solerti teologi progressisti, fra i quali Edward Schillebeeckx, uno degli uomini di punta della corrente riformista all’epoca del Concilio Vaticano II (colui che ha ispirato il controverso Catechismo olandese, oltre ad aver messo in dubbio la resurrezione di Cristo come fatto oggettivo della fede, tanto da essere richiamato a Roma per fornire spiegazioni davanti alla Congregazione perla dottrina della fede: cosa che gli ha permesso di atteggiarsi a vittima della "repressione" dei reazionari in Vaticano), si è lanciato alla ricerca d’una "spiegazione" delle parole di san Paolo, che si potesse conciliare con i suoi pregiudizi di tipo femminista, modernista e progressista. Spiegazione facilmente trovata: san Paolo non si sarebbe rivolto a tutti i cristiani, secondo tali esegeti, ma solo a quelli che avevano intenzione di dedicarsi interamente alla predicazione: tipico esempio di "riduzionismo" ermeneutico, funzionale non alla ricerca della verità (una lettura appena un po’ attenta del testo in questione non autorizza una simile interpretazione), ma alla difesa di un paradigma culturale precostituito: ridimensionare, minimizzare, sfrondare e, se possibile, eliminare dalle Scritture tutto ciò che non è in linea con una lettura immanentistica, laicista e minimalista della Rivelazione (sino, appunto, alla negazione, o all’agnosticismo, rispetto al fatto, assolutamente centrale per il cristianesimo, della resurrezione di Cristo).
Il cappuccino Venantius de Leeuw, classe 1917, sacerdote dal 1943, è stato fra quei membri del clero olandese i quali hanno osservato la marea montante del riformismo conciliare nelle sue forme più estreme, e, pur condividendo la necessità, per la Chiesa, di dialogare con il mondo moderno, non hanno perso la testa e sono rimasti fedeli alla sana dottrina cattolica, che non può essere modificata a colpi di maggioranza, come una qualunque opera umana. Uno di coloro i quali non hanno avuto "paura" della modernità, ma che, semplicemente, si sono resi conto che una certa maniera di impostare il "dialogo" avrebbe condotto la Chiesa lungo il piano inclinato di una resa a discrezione alla cultura moderna, razionalista, laicista, irreligiosa, e hanno voluto offrire il loro contributo spirituale, senza lasciarsi strumentalizzare dal partito progressista e senza subire ricatti o cedimenti nei confronti dello " del mondo". Ecco che cosa scrive de Leeuw, circa la questione posta da San Paolo (in «L’uomo moderno di fronte alla Bibbia»; titolo originale: «Bladerend in de Bijbel»; traduzione dall’olandese di Vitus van Bussum, Roma, Ed. Paoline, 1970, pp. 430-432):
«Oggetto di accesi dibattiti e polemiche e contestazioni, [la riflessione paolina sul reciproco rapporto fra celibato e matrimonio], che anche nel Vaticano II ebbero un’eco prolungata, ha creato in molti ambienti un’atmosfera tesa e inquieta. Di conseguenza sono stati molti e appassionati gli studi che lo riguardano, specialmente quelli circa la sua origine, i fondamenti biblici e dommatici e la sua obbligatorietà e superiore perfezione rispetto al matrimonio. Come è intuibile, tutta la dottrina biblica è stata particolarmente riesaminata e interpretata in maniera diversa e qualche volta contraddittoria. Tale sorte ha subito 1 Cor 7, che anzi è tra i più studiati per ovvie ragioni. Tra le molte ipotesi sostenute come di Paolo, trova molta accoglienza oggi quella di Audet e Schillebeeckx – pur se tenacemente rifiutata da altri – i quali ritengono che l’apostolo raccomandi il celibato solo per motivi funzionali e logicamente non a tutti, ma ai predicatori che, come lui, devono peregrinare continuamente e ai quali il dovere di pensare alla famiglia impedirebbe una totale ed esclusiva dedizione all’apostolato, cioè alla causa di Dio e delle anime. Le conseguenze di una tale interpretazione sono chiare: precarietà del celibato, convenienza e relatività secondo luoghi, tempi e persone, consiglio che Paolo dà per motivi pratici e contingenti, per cui sarebbe illogico concluderne una legge universale, stabile e perentoria; anzi, sembra che neppure si possa dedurre una assoluta superiorità quale stato di perfezione nei confronti del matrimonio.
Personalmente a noi tale dottrina […], appare infondata e ingiustificata: la parola dell’apostolo è anche parola di Dio e non riusciamo a scorgere le ragioni di precarietà e limitatezza che paolo darebbe alla sua viva raccomandazione. Insistiamo pertanto nel dire che qui, come nelle lettere ai Tessalonicesi, egli scisse sotto l’ispirazione d’una speranza e d’una viva attesa che lo spingevano a guardare con desiderio al ritorno di Cristo.
Il nostro mondo moderno, che ritiene lontano questo ritorno, non si sente più impressionato dalla parola di Paolo e perciò non tiene più in considerazione una vita celibataria. Ma se vogliamo vivere in questo mondo come veri cristiani, dobbiamo essere persuasi di vivere "alla fine dei tempi" (1 Cor, 10, 11) e perciò stare all’erta (Mt., 24, 44; Lc., 12, 40). La nostra vita dev’essere pervasa da un’attesa che ci trasporti in un’atmosfera escatologica Si potrebbe perciò rendere l’espressione "situazione precaria" piuttosto con "attesa escatologica".
In questo spirito di attesa paolo propone anche i suoi consigli agli sposati di Corinto. Le parole iniziali: "Per prevenire il pericolo di incontinenza, ogni uomo abbia la propria moglie, e ogni donna abbia il proprio marito" (1 Cor., 7, 2), gli furono ispirate dalla considerazione del marasma morale imperante nella pagana città marittima e ci offrono una visione degli antichi costumi greci. Che Paolo abbia avuto un’alta stima del matrimonio, appare chiaramente da quanto soggiunge: egli pone il matrimonio sullo stesso piano ella sua vita celibe e chiama tutti e due i modi di vivere un "carisma", un dono gratuito di Dio: "Vorrei che tutti gli uomini fossero come sono io; ma ciascuno riceve da Dio il suo dono particolare, chi in un modo e chi in un altro" (1 Cor. 7, 7). Quindi passa a dire dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale, che scaturisce dal precetto dello stesso Signore (1 Cor., 7, 10); e permette il divorzio in un solo caso, eccezione che in seguito sarà detta "privilegio paolino" (1 Cor., 7, 15).
Sembra che i cristiani sposati in Corinto, sotto l’ispirazione del loro ideale di essere "azzimi" [cioè "uomini nuovi"], avessero talmente abbandonato il loro precedente modo di vivere, che, almeno alcuni di essi, credevamo di dover vivere in continenza. Per essi Paolo suggerisce una via di mezzo: "Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera, e poi ritornate a stare insieme, perché Satana non vi tenti nei momenti di passione" (1 Cor. 7, 5).Rispetto al dovere coniugale, paolo esige che gli sposati siano d’accordo l’uno con l’altra in un amorevole spirito di servizio: "La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie" (1 Cor,.7, 4). Queste norme concrete di vita matrimoniale , come pure quelle circa il celibato, ricevono luce dalla concezione che Paolo ha intorno alla fine dei tempi: "Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero, cloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero, quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno, perché passa la scena di questo mondo!" (1 Cor. 7, 29-31).
Queste parole possono sembrare strane a chi, nel secolo ventesimo, vuole costruire un mondo diverso e sopratutto migliore. esse cozzano contro l’idealismo e la smania di far del bene su questa terra, dimenticando un poco o del tutto il cielo. Nondimeno, sono in armonia con le parole di Gesù stesso (Lc., 14, 26-31). Avere un’idea esatta in proposito è una grazia; e grazia ancor maggiore è vivere secondo questa idea.»
Polemica sul matrimonio a parte, de Leeuw richiama tutti noi ad una semplice riflessione: san Paolo può essersi sbagliato sull’imminenza della Parusia, sul ritorno finale di Cristo, ma dobbiamo sempre regolarci come fosse imminente: «Fate attenzione, rimanete svegli, perché non sapete quando sarà il momento decisivo» (Mc.,13,33). Da ciò si riconosce il cristiano: dalla sua tensione escatologica…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI