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Il Progresso è la mitologia (demoniaca) di una modernità senza Dio e senza uomo

Nell’insieme della – o delle – mitologie, delle quali si è dotata la cultura della modernità per giustificare, glorificare ed espandere se stessa, e per imporsi come la sola ideologia degna di coronare la storia dell’umanità, oltre la quale nulla si può pensare di migliore o di più perfetto, spicca, come un pilastro fondamentale, l’idea di Progresso: non un Progresso qualsiasi, ma un Progresso illimitato, e, quel che più conta, un Progresso auto-sussistente ed auto-generantesi, ossia prodotto interamene dalle dinamiche umane, e volto esclusivamente all’affermazione dei bisogni e dei valori umani. Ma che, già oggi, mostra di voler andare oltre l’uomo, anche suo malgrado.

Un Progresso che è figlio della Ragione: di una Ragion pura e di una Ragion pratica, le quali hanno in se stesse la loro misura, il loro baricentro, la loro finalità ultima; in una Ragione libera e spregiudicata, che non rispetta la tradizione e che non si pone alcun limite, perché presume di essere capace, con il tempo e con il progredire — appunto — delle scienze, di rimuovere, uno dopo l’latro, tutti gli ostacoli dal cammino dell’umanità, e di consentire a quest’ultima di raggiungere quello stato di benessere, sicurezza e felicità che, finora, le è sempre sfuggito a causa del persistere dell’errore, dell’oscurantismo e della superstizione.

Il mito ed il culto del Progresso, a partire dalla Rivoluzione industriale, è venuto a coincidere con il mito e con il culto della macchina, di cui i calcolatori elettronici dell’ultima generazione rappresentano, attualmente, la forma più avanzata e sofisticata, ma pur sempre provvisoria e destinata ad essere superata; così come esso si incarna, anche, nelle recentissime scoperte e realizzazioni della bio-ingegneria, che hanno messo improvvisamente a portata di mano dell’uomo quella manipolazione totale degli esseri viventi, compresi gli stessi esseri umani, che filosofi come Francesco Bacone avevano, bensì, auspicato e profetizzato, ma che erano ben lontani dal poter raggiungere, così come lo erano i biologi fino a pochi decenni or sono.

Ma da dove è venuta, alla modernità, l’idea del Progresso, con queste caratteristiche? Quando è nata e quali sono le sue radici, i suoi antecedenti, i suoi prodromi? Ebbene: per quanto ciò possa apparire, a prima vista, paradossale, è difficile negare che l’idea di Progresso, con il relativo culto e la relativa assolutizzazione, trae origine non dal pensiero moderno, non dal pensiero illuminista, ma proprio dal pensiero cristiano e medievale: perché è con il cristianesimo che la storia viene sottratta al cieco ripetersi dell’uguale o al capriccio del Fato (come era nelle concezioni dell’antichità, compresa quella greca), e assume un significato preciso, una direzione, uno scopo. Anche in questo caso, come in tanti altri, la modernità va debitrice al cristianesimo di una delle sue idee centrali: si può ben concordare con G. K. Chesterton, pertanto, che molti aspetti della modernità non sono altro che schegge di virtù cristiane impazzite, nel senso che sono state strappate al loro contesto naturale e sono letteralmente "esplose", venendo messe al servizio di una ideologia radicalmente diversa, per non dire opposta, a quella da cui erano nate (cfr. il nostro precedente articolo: «Il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane divenute schegge impazzite», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 03/03/2015, poi ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni»).

Perché il moderno mito del Progresso non è altro che la scheggia impazzita di una antica virtù cristiana? Perché, nel cristianesimo, il progresso (con la lettera minuscola) è guidato e orientato dalla Provvidenza, così come tutta la storia umana: non esiste un progresso che sia soltanto immanente, un progresso di cui l’uomo sia il solo ed unico artefice; il progresso, se c’è davvero, è il risultato dell’incontro felice fra la disponibilità umana e la grazia divina. Niente Dio, nessun progresso. Invece, nel mito moderno del Progresso (con la maiuscola; ma tanto, anche se la si scrive con la minuscola, il concetto è pur sempre quello di un valore assoluto ed auto-sussistente), Dio non c’entra affatto: chi lo muove è l’uomo medesimo, con la sua intelligenza, con la sua — direbbe Boccaccio — "industria": la capacità di sconfiggere la Fortuna o di piegarla secondo il suo volere (concetto poi ripreso e sviluppato, sul piano storico e politico, da Machiavelli). Ed è a questa idea di Progresso, laico e immanente, profano e secolarizzato, che si richiameranno, nel XVIII secolo, i philosphes dell’illuminismo, certi e sicuri di poter traghettare l’umanità verso il regno della felicità: nuova versione, deista e anticristiana, della vecchia idea di un progresso finalizzato alla salvezza dell’umanità mediante il suo ritorno a Dio.

Così, la concezione illuminista (e poi marxista, positivista, evoluzionista) del Progresso è imbevuta di un ottimismo a prova di bomba: se l’uomo ha nelle sue mani le chiavi per progredire, per puntare verso il meglio, per costruire il paradiso in terra, chi mai potrà fermare la sua marcia trionfale? Chi mai potrà ostacolarlo, ritardalo, contrastarlo, nella realizzazione dei suoi radiosi destini? L’idea che a contrastarlo possa essere lui stesso, cioè che l’uomo moderno, allontanatosi da Dio e privo di alcun senso del limite, possa costituire un pericolo per se medesimo, e, addirittura, per la creazione tutta, non si affaccia mai alla mente dei filosofi moderni, almeno fin verso il 1945, cioè fino al "fungo" di Hiroshima. È solo davanti alla prospettiva di una auto-distruzione dell’umanità per mezzo delle sue stesse scoperte e realizzazioni scientifiche, delle quali, finora, era andato così fiero, e nelle quali aveva riposto tutto il suo orgoglio e tutte le sue speranze e aspettative, che egli, quasi di colpo, incomincia a vacillare e a dubitare: e ne seguirà una lunga crisi di fiducia in se stesso, dalla quale uscirà ridimensionato, sì, nelle sue utopie russoviane, ma non abbastanza da interrogarsi sino al fondo ultimo della questione: cioè sino al nodo centrale della sua assoluta autonomia e della sua capacità di discernere, con le sue sole forze, il Bene ed il Male, esattamente come avevano preteso di fare Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, fallendo – però – miseramente.

Ci piace riportare una pagina, come già altra volta abbiamo fatto, del professor Angelo Nepi, alla voce «Modernità», tratta dal «Dizionario delle idee politiche», diretto da Enrico Berti e Giorgio Campanini (Roma, Editrice Ave, 1993, pp. 509-512):

«In senso generale, il progresso è l’interpretazione della storia come continuo avanzamento, vale a dire come continuo miglioramento e perfezionamento delle possibilità del singolo individuo e della intera umanità. In questo senso generale, che si declina poi in accezioni più particolari (progresso scientifico, economico, culturale, politico…), il progresso è stato una delle più potenti ideologie della modernità L’idea di progresso era infatti ignota nel mondo antico, che vide nella storia umana o un processo di decadenza rispetto a una primitiva età dell’oro, oppure interpretò gli eventi storici come un eterno ritorno, ebbe cioè una visione ciclica della storia.

L’idea del progresso si afferma, inizialmente, soprattutto in relazione alla rivoluzione scientifica del ‘600, e trova nella cultura illuministica del secolo successivo una applicazione estensiva alla interpretazione della storia dell’umanità. Bacone, Galilei, Cartesio, Pascal, Leibniz, sostengono, in polemica con il culto umanistico-rinascimentale dell’antichità, che il progresso nelle conoscenze scientifiche è continuo e inarrestabile, e che tale progresso finirà per offrire condizioni di vita sempre migliori. Negli illuministi (A. R. J. Turgot, B. Fontenelle, Voltaire, M. J. A. Condorcet, G. E. Lessing), la fiducia ottimistica nel progresso è una conseguenza della fiducia nelle capacità di progresso della ragione, intesa nel suo significato più universale, sia come ragione speculativa sia come ragione pratica.

Il concetto di progresso diventa una compiuta filosofia della storia nelle concezioni storicistiche degli idealisti, in cui il progresso storico è considerato come una legge necessaria del divenire, che si autopone indipendentemente dall’azione dell’uomo, e finisce per condizionare le scelte dei singoli individui. La concezione idealistico-romantica della storia era stata in qualche modo anticipata dal pensiero di G. Vico, con la sua teoria della storia che progredisce a spirale attraverso "corsi e ricorsi". Solo che in Vico il progresso era guidato dall’ordine trascendente della Provvidenza, mentre nello storicismo idealistico il progresso è guidato da una ragione immanente allo stesso piano storico degli eventi.

Alla tesi progressista in senso storicistico si sono collegate, nel corso dell’800, varie espressioni culturali, come il positivismo, il marxismo e l’evoluzionismo (A. Comte, H. Spencer, K. Marx, F. Engels…). Rispetto al’ottimismo illuministico nei confronti del progresso, la concezione storicistica e evoluzionistica si pone non solo come una fiduciosa attestazione circa la possibilità di miglioramento insita nello sviluppo storico, ma come una vera e propria spiegazione scientifica delle leggi che regolano il corso progressivo della storia. Ciò è particolarmente evidente nella concezione dialettica della storia, sia che essa venga intesa in senso spiritualistico (Hegel) oppure in senso materialistico (Marx-Engels). Ma anche la nuova scienza ottocentesca, la sociologia, è intesa dai suoi sostenitori (C. Fourier, C. H. Saint-Simon, e soprattutto A. Comte) come una "fisica sociale", cioè come una spiegazione scientifica delle leggi del progresso, che si realizzano dunque soprattutto attraverso oggettive descrizioni previsionali e non solo in base a una generica e astratta aspirazione degli uomini a condizioni di vita sempre migliori, come avveniva negli ideali progressisti dell’illuminismo

È stato da qualcuno messo in evidenza che l’idea di progresso, ignota nell’antichità classica, ha radici cristiane, in quanto la concezione storica che discende dalla rivelazione cristiana presuppone una visione lineare della salvezza, che procede dalla creazione, passando attraverso la caduta e la redenzione, verso il compimento escatologico che si realizzerà con la venuta finale di Cristo. Per questo studiosi come Löwith (cf "Significato e fine della storia" [1949], Comunità, Milano, 1963) e E. Voegelin (cfr "La nuova scienza politica [1952], Borla, Torino, 1968), assumendo come termine di riferimento il concetto moderno di progresso storico, hanno interpretato la modernità come radicale razionalizzazione-naturalizzazione della escatologia cristiana e del significato cristiano della storia. A. Del Noce contesta invece questa interpretazione, della modernità, in seguito alla sua identificazione tra la secolarizzazione e l’ateismo, che costituisce per lui il postulato fondamentale, ossia "l’inglobante non problematizzato") della ideologia moderna (cf A. Del Noce, 1990). Negli anni immediatamente seguenti alla chiusura del Concilio Vaticano II, tra le nuove teologie vi fu anche il tentativo, peraltro ben presto lasciato cadere, di elaborare una "teologia del progresso".

Dal punto di vista storico, in realtà la Chiesa ha assunto nei confronti della categoria del progresso un atteggiamento inizialmente critico. Con il "Sillabo" (1864) di Pio IX, la Chiesa condannava l’ideologia del progresso, vista come uno degli errori moderni, in quanto basata sul presupposto illuministico dello sviluppo storico fondato unicamente sulle capacità emancipative della ragione. Il progresso, in altre parole, era visto allora dalla Chiesa come una concezione unilateralmente ottimistica della storia, funzionale tra l’altro alla emarginazione, a vantaggio dei nuovi soggetti sociali, politi ci e culturali, delle forze religiose considerate come residuali rispetto ai processi d’innovazione e di modernizzazione che venivano affermandosi in ogni ambito della vita sociale e culturale.

Solo nel nuovo clima di dialogo con il mondo moderno, avallato ufficialmente dal Concilio Vaticano II, la Chiesa assume un atteggiamento positivo nei confronti del progresso. Di questo nuovo atteggiamento documento soprattutto la costituzione pastorale su "La Chiesa nel mondo contemporaneo", nota soprattutto come "Gaudium et spes" (vedere in particolare i nn. 35, 37, 39 e 53) e l’enciclica di paolo VI, "Populorum progressio" (1967). Sullo stesso orientamento, con una linea interpretativa più attenta alle profonde trasformazioni storiche degli ultimi decenni, si mantenuto anche l’insegnamento sociale di Giovanni Paolo II, soprattutto con le encicliche "Sollicitudo rei socialis" (1987) e "Centesimus annus" (1991).

Da sottolineare alcune note costanti dell’insegnamento sociale cristiano in ordine alla concezione del progresso: la distinzione, nella sia pur necessaria correlazione, tra progresso storico e avvento finale del Regno di Dio, come criterio distintivo tra la visione storica propria del cristianesimo e le varie forme di utopia; la critica delle ideologie che assolutizzano il progresso in senso materiale, a cui sono riconducibili sia la concezione marxista sia quella capitalistica; l’istanza di una corretta fondazione antropologica della idea di progresso, che la dottrina sociale della Chiesa individua nelle varie espressioni del personalismo cristiano; l’esigenza di affrontare il problema del progresso in una ottica planetaria, in termini di solidarietà tra paesi scientificamente e tecnologicamente avanzati e i paesi in via di sviluppo.»

Ora, venendo alla Chiesa e al cristianesimo, è un fatto che, fra il 1864, anno del «Sillabo», ed il 1965, data della «Gaudium et spes», corre un secolo: un secolo nel quale si è passati dalla condanna severa, implacabile, senza appello, di tutte le ideologie della modernità, di tutti i suoi miti, di tutti i suoi pretesi valori, da parte di Pio IX, all’apertura, al "dialogo", al confronto costruttivo e perfino a delle forme di collaborazione esplicita, secondo l’esortazione di Paolo VI. Un secolo è tanto o poco, sulla scala della storia, anche tenendo conto di quanto rapidi sono stati i cambiamenti e le trasformazioni prodotti dalla tecnica, dalla scienza, dalla politica e dalla cultura contemporanee? Certo, di primo acchito, un secolo potrebbe sembrare un arco di tempo lungo, lunghissimo; ma, di fronte a duemila anni di storia, cosa sono cento anni, ossia meno di quattro generazioni? Eppure, è innegabile che la Chiesa, dai tempi di Pio IX a quelli di Paolo VI, ha effettuato un cambiamento radicale nei confronti della modernità, e, quindi, anche di fronte all’idea di progresso, così come la intende la cultura moderna: non si è trattato di un aggiustamento di rotta, ma di una vera e propria inversione di rotta, di una rotazione di centottanta gradi. Se prima, a partire dal «Sillabo», la Chiesa andava in una certa direzione, adesso, a partire dal Concilio Vaticano II e dalla «Gaudium et spes», essa sta andando nella direzione diametralmente opposta.

Tutto ciò non può essere considerato "normale", neppure secondo i parametri, notoriamente elastici e quasi evanescenti, del mondo moderno, e neppure tenendo conto della "liquidità" della società moderna, secondo la celebre e calzante definizione di Zygmunt Bauman. Una istituzione plurimillenaria, come la Chiesa cattolica, che ha visto cadere uno stato millenario come l’Impero romano d’Occidente, e poi l’Impero bizantino, e poi il Sacro romano impero germanico, e poi l’Impero napoleonico; e che poi ha visto sorgere e tramontare, in una vampa di fuoco, il fascismo, il nazismo, il comunismo; che ha visto sorgere e tramontare gli imperi coloniali, che ha assistito alla rivoluzione scientifica, alla rivoluzione industriale, alle rivoluzioni democratiche del XVIII e XIX secolo; che ha visto sorgere e andare in crisi il capitalismo finanziario; e che sta entrando, insieme al mondo profano, nella fase storica della post-modernità: una Chiesa, come quella cattolica, con il suo Magistero, con la sua Tradizione, con la sua teologia e con la sua filosofia, non può invertire la ritta come se nulla fosse; non può andare nella direzione esattamente opposta a quella seguita fino a due generazioni prima, diciamo fino a Pio XII. Non può dire, semplicemente: «Ragazzi, contrordine: ci eravamo sbagliati»; tanto più che non lo ha detto. Ha capovolto la sua strategia, la sua attitudine verso la modernità e verso il progresso, ma senza dare spiegazioni, né fare autocritica, senza registrare il mutamento, anzi, dando per scontato di stare procedendo nel modo più logico e naturale. Ma da quando la Chiesa cattolica prende per buone, come linea di condotta, le categorie della "logica" e della "naturalezza" mondane? Da quando si fa dettare l’agenda dai ritmi e dagli appuntamenti stabiliti da altri, in questo caso dal progresso della modernità? Da quando si mette al seguito di una visione del mondo e della vita che diverge profondamente dalla sua, e che, su punti sostanziali, è innegabilmente, irrimediabilmente contrapposta alla sua?

Quella del Concilio Vaticano II, e, ancor più, del dopo Concilio, è stata forse una resa a discrezione? La Chiesa è rimasta ancora padrona di se stessa, delle proprie scelte? Ha conservato la capacità di dire "no", chiaro e tondo, a ciò che è incompatibile con il Vangelo? Di dire, forte e chiaro, "no" all’aborto, all’eutanasia, allo stesso divorzio; di dire "no" alla manipolazione dell’uomo, alla liberalizzazione della morale, sessuale e non sessuale; di dire "no" al femminismo e alla conflittualità permanente fra uomo e donna, al rancore sociale, alla democrazia come feticcio intangibile, alla libertà senza responsabilità, al progresso senz’anima, al futuro senza Dio? E, soprattutto: è ancora capace di scendere nelle catacombe, qualora ciò fosse necessario? Di opporsi all’ingiustizia e alla disumanizzazione dell’uomo, anche a costo di essere perseguitata? Eppure i cristiani, di fatto, sono già perseguitati in moltissime parti del mondo. La Chiesa sarà con loro o no?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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