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L’uomo della baracca continua a chiedersi: «Chi sono io? perché vivo? che senso ha tutto ciò?»

Prendendo lo spunto dal giornalista e saggista tedesco Hans Zehrer (1899-1966) e dal suo libro «L’uomo in questo mondo», del 1948, il filosofo francese Gabriel Marcel (1889-1973), del quale ci siamo già sovente occupati (cfr. i nostri precedenti articoli: «L’eterna lotta fra impulso di morte e capacità di amare nella riflessione di Gabriel Marcel» e «Il male, nel pensiero di Gabriel Marcel, non è un problema, ma un mistero», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente il 02/06/2008 e il 29/10/2012, e ora ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»), ha coniato una felice espressione per indicare l’uomo della civiltà contemporanea: "l’uomo della baracca". L’uomo della baracca è l’uomo sradicato, che non ha più una casa, un tetto sulla testa, una identità, un senso di appartenenza, delle radici che lo leghino alla società in cui vive; è come un ospite provvisorio e casuale, una specie di intruso o d’infiltrato, un masso erratico senza memoria e senza direzione. È anche, aggiungiamo noi, un disperato, e potenzialmente un folle, perché nessuno può vivere privo di radici, privo di identità, privo di alcun senso di appartenenza, senza precipitare nell’abisso della follia o senza indurirsi nel cinismo più rivoltante, divenendo un individuo che è capace di tutto, anche delle azioni più basse e immorali, pur di sopravvivere e affermarsi.

L’uomo della baracca, oggi, è un "baraccato" di lusso: la sua baracca è quella della società consumista, basata sulla ricerca compulsiva del superfluo e sullo spreco; ma, per quanto le sue pareti e il suo soffitto siano dorati, egli è pur sempre, anzi, più che mai, un alienato, un individuo solo e provvisorio, disconnesso dagli altri e dalla sua stessa parte più vera e più profonda, e ridotto a vivere in superficie, nutrendosi di rifiuti (rifiuti di lusso!), e ignorando tutto di sé, della propria autentica natura spirituale, un analfabeta di se stesso al punto da non saper riconoscere la nostalgia dell’assoluto e dell’eterno che geme e freme in fondo alla sua anima. La forma più grave di alienazione consiste proprio nel non riconoscere di essere alienati; e questa è appunto, nella gran parte dei casi, la situazione psicologica e spirituale in cui versa l’uomo contemporaneo, che è simile a un malato di tumore che ignori la propria malattia, oppure simile a un uomo che stia morendo di fame e di sete, ma che non avverta più gli stimoli del bere e del nutrirsi.

Le cause di questa suprema alienazione sono molteplici e hanno anche a che fare — e sottolineiamo anche – con le trasformazioni sopravvenute nella struttura economica e sociale della società moderna, specialmente a partire dalla Rivoluzione industriale, che ha sradicato letteralmente milioni e milioni di esseri umani dai loro villaggi, dai loro campi, dalle loro case, e soprattutto dalle loro tradizioni e dai loro affetti, per scaraventarli in una realtà urbana caotica e degradata e in un circuito produttivo nel quale le merci e il profitto contano assai più della persona umana. Tuttavia la causa fondamentale è molto più antica, ed è sempre la stessa: l’allontanamento dell’uomo da Dio e la sua pretesa di oltrepassare il proprio statuto ontologico, facendosi creatore: il peccato di Adamo ed Eva, nonché il peccato dei costruttori della Torre di Babele. È il peccato dell’uomo faustiano, che vende la propria anima alle forze delle Tenebre in cambio del segreto per dominare sulle cose.

Questo aspetto della riflessione antropologica di Gabriel Marcel, che si presta, a sua volta a considerazioni di portata veramente universale, è stato bene sintetizzato dallo storico della filosofia Rodolfo di Chio — autore, fra l’altro, di una splendida, piccola monografia, «Che cos’è il tempo?», apparsa nel 1966 per le Edizioni Paoline -, nella sua antologia di testi filosofici intitolata «Uomo, amore, felicità» (Firenze, Bulgarini Editore, 1981, vol. 3, pp. 187-188):

«L’uomo della baracca è stato sradicato dall’ambiente al quale era legato; le vicende della vita lo hanno disumanizzato, si sente sempre più estraneo a se stesso e immerso nell’indifferenza e nell’ostilità. Continua a chiedere a sé e agli altri: Chi sono io? Perché vivo? Che senso ha tutto ciò?

Ma nessuno riesce a dargli una risposta. Non lo Stato che lo considera "un numero su di una scheda inserita in un fascicolo che ne contiene infinite altre"; non un altro uomo che, non trovandosi nella sua situazione, non può provare le sue stesse sensazioni. Viene dunque a trovarsi sempre più solo, sempre più angosciato, sempre meno uomo.

La cosa più drammatica è che tutto questo non riguarda , come potrebbe sembrare, un caso limite; da trent’anni, dice Marcel, questa situazione sta maturando ed in breve tutto il mondo ne sarà vittima; né è possibile risalire ai responsabili, perché "il colpevole porta una maschera, infinite maschere: quella del nazionalismo, del razzismo, del nazionalsocialismo, del capitalismo e anche del socialismo e del comunismo".

C’è comunque una spiegazione della povertà spirituale dell’uomo: l’uomo ha perduto il rapporto con Dio e ciò, come vera e propria cancrena metafisica. Provoca la decomposizione dell’uomo.

"Oggi è in pericolo l’unità stessa dell’uomo" (Marcel, "Homo Viator"). E questa è la logica conseguenza della morte di Dio proclamata alcuni decenni fa da Nietzsche. A questo proposito non poche sono le responsabilità della tecnica e dei suoi cosiddetti progressi. L’analisi di Marcel, che precorre quella di Marcuse e che spesso la supera per profondità, non disconosce i successi e i meriti della tecnica, ma non ne tace i difetti e gli inconvenienti, primo tra tutti la creazione di quella mentalità che considera il mondo come "un inventario di energie" da sfruttare e l’uomo come produttività, "rendimento", come "un fascio di funzioni". Ma "una antropologia basata sull’idea di funzione" non può lasciare spazio a niente che rassomigli alla dignità: nasce così la "volontà di potenza" che porta allo sfruttamento irresponsabile della natura, al dominio sull’altro uomo, alla divisione degli uomini in gruppi antagonisti, mentre, conseguentemente, diventa sempre più forte il pericolo dell’irrazionalità, della degradazione, della perversione, della distruzione della stessa umanità. E già dal 1951 Marcel, scrivendo "Les Hommes contre l’Humain", faceva notare la generalizzazione progressiva delle così dette tecniche di avvilimento, già tristemente usate nei lager nazisti, e che da un lato riducono il perseguitato a cosa, "diciamo pure cosa psichica, soggetta a teorie elaborate da una psicologia di stampo materialistico", dall’altro rafforzano nel persecutore il sentimento della sua superiorità, procurandogli una gioia paragonabile a quella del sacrilegio, in quanto sa che ciò che viola è sacro, e, proprio per questo, gioisce nel violarlo. In queste aberrazioni oggi — come è noto — pescano a piene mani numerosi registi per i loro film. Diversi, ma non troppo, dalle tecniche di avvilimento sono da ritenersi la propaganda che limita, quando non annulla, la capacità di autonoma decisione, e i mezzi do comunicazione di massa che, tra l’altro, profanano molto spesso i dell’individuo in nome del cosiddetto "diritto-dovere di informazione": l’una e gli altri mostrano mancanza di rispetto per la intelligenza dell’uomo e per le sue convinzioni morali, , politiche, religiose. C’è poi da dire che l’uomo contemporaneo assume di fronte alla vita un atteggiamento di crescente disaffezione e di diffidenza. La vita è sempre meno considerata come dono, come valore: si tende ad arginarla e a limitarla; si cerca la gioia istantanea, si guarda solo al presente, si prescinde dall’avvenire. Ciò non meraviglia, perché quando si pine il primato dell’intelligenza tecnica, avverte Marcel, "la vita, qualunque sia la definizione che vogliamo attribuirle, apparirà sempre più come un certo modo di energia che non differisce essenzialmente dalle altre forze naturali". Di qui la noia e il vuoto che caratterizzano la vita; di qui ancora l’attaccamento di tanti uomini a soddisfazioni puerili e meschine per rendere "vivibile" la vita. L’uomo dei nostri giorni, chiuso nel piano dell’utile, della tecnica, dell’AVERE, avverte i suoi limiti nello spazio e nel tempo e si sente isolato, cosa tra le cose. Ma che cos’è AVERE? Il suo significato è, a volte, appena percettibile, come nel caso in cui si dice che si HA male alla testa, si HA bisogno ecc.; altre volte il senso è chiaro e preciso, per esempio quando si afferma: io HO una bicicletta, io HO le mie idee a questo riguardo, oppure il tal corpo HA tali proprietà. Lo stesso attaccamento alla cosa che si possiede non è sempre identico: si va dalla quasi indifferenza al tentativo di identificarsi con essa. Esempio tipico di un qualcosa con cui l’uomo si identifica e che tuttavia gli sfugge è il proprio corpo: più l’uomo vi è attaccato, più il corpo lo tiranneggia. "I nostri averi ci divorano". Ma attraverso l’amore, la fedeltà e la speranza l’uomo riesce ad evadere dal piano dell’avere che lo ha "catturato" e a sentirsi partecipe del piano dell’ESSERE.»

Ciò che è particolarmente apprezzabile, in filosofi come Gabriel Marcel, è lo sforzo di andare oltre le pessimistiche conclusioni cui li porterebbe una analisi rigorosa della condizione dell’uomo contemporaneo; di non fermarsi a rimestare, con masochistico compiacimento, o con vittimistica rassegnazione, e neppure con cinica indifferenza, fra le pieghe della triste realtà nella quale esso è rimasto intrappolato, ma di socchiudere sempre uno spiraglio alla speranza: non per debolezza o per desiderio di consolazione ad ogni costo, ma per intima e sofferta convinzione.

Chi non vede che l’uomo contemporaneo si trova immerso, e quasi sprofondato, in un mondo enormemente più complesso, più problematico e più contraddittorio di quello nel quale vissero i nostri antenati, anche solo fino a un paio di generazioni fa, vuol dire che non possiede nemmeno gli strumenti minimi di interpretazione del reale. Nondimeno, chi si ferma alla pars destruens e, quasi con malsano compiacimento, vi si trattiene indefinitamente, come se il compito che lo attende fosse soltanto quello di essere testimone della nostra stessa decadenza e della nostra stessa rovina, non merita di essere chiamato filosofo, e forse non merita neppure, in ultima analisi, di essere chiamato uomo (o donna).

Essere uomini significa non solo interrogarsi, ma cercare di darsi delle risposte; perciò, alle tre domande poste da Gabriel Marcel: chi siamo, perché viviamo e che senso ha il tutto, dobbiamo sforzarci in ogni modo, e a costo di qualunque sacrificio, di trovare delle risposte che restituiscano senso, dignità e bellezza al nostro orizzonte esistenziale (si badi: non alla nostra vita, qui e ora, ma al nostro orizzonte esistenziale: a qualcosa che possiamo intravedere, come dei nomadi o dei pellegrini in viaggio, e verso cui siamo protesi, ma che non ci è dato possedere pienamente, almeno nella dimensione del finito). Essere uomini in senso biologico è troppo poco, perché l’uomo, a differenza dell’animale, non è semplicemente colui che è, ma colui che è chiamato ad essere: vale a dire che il senso della sua esistenza risiede nel cammino che egli compie per diventare ciò che deve diventare, e per realizzare ciò che deve realizzare. L’uomo non è fatto per vivere perennemente in una baracca provvisoria, rimuginando la propria angoscia e la propria alienazione, né per atteggiarsi eternamente a vittima delle circostanze. L’uomo è fatto per prendere la vita nelle sue mani; ma — ecco il paradosso — questo è precisamente ciò che egli non può fare da solo, non può fare da se medesimo. L’uomo non può porsi, perché è già stato posto; e non può auto-affermarsi, perché la sua affermazione dipende solo in parte da lui, ma in gran parte dalla sua volontà di collaborazione con l’Essere che lo ha scelto, e, scegliendolo, lo ha chiamato.

Noi siamo stati scelti, quindi siamo stati chiamati. Il senso della nostra ricerca – perché di una ricerca si tratta, e non di un possesso – sta tutto qui. Non veniamo dal caso e non siamo destinati a sparire nel nulla. Siamo stati scelti con cura, prima che il mondo cominciasse a esistere, e dunque siamo estremamente preziosi. Non possiamo sprecarci in cose banali, di nessun conto; non possiamo mortificare la nostra dignità inseguendo piccoli miraggi di bene o meschine ambizioni; se ci sprechiamo, infatti, non avremo più nulla da donare, saremo totalmente e disperatamente poveri di tutto, come i più miserabili fra tutti i mendicanti. Eppure, il segreto della ricerca spirituale è tutto qui: nella comprensione che la vita è dono; e che, così come gratuitamente l’abbiamo ricevuta, gratuitamente dobbiamo donare a nostra volta. Dobbiamo donare ciò di cui abbiamo avuto cura, ciò di cui ci siamo assunti la responsabilità: la nostra parte migliore, quella più generosa, che non dice sempre "io", che non brama o teme continuamente, per avere o per evitare qualche cosa; ma che sa accogliere, lodare e benedire tutto ciò che riconoscere come parte del Vero, del Buono, del Giusto e del Bello, cioè come parte dell’Essere.

Altro che uomo della baracca! L’uomo di oggi, e di sempre, è chiamato a godere di una ricchezza incalcolabile: ma essa è tale che si rivela solo a chi gratuitamente dà, senza domandar nulla per sé…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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