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Lo stupro: il crimine che non verrà mai perdonato (se a commetterlo è un uomo bianco)

La cultura femminista oggi imperante sta riducendo sempre più la figura del maschio in una condizione di "libertà vigilata", alla quale guardare con sospetto, sfiducia e disistima, che va tenuta d’occhio in quanto potenzialmente pericolosa, e, comunque, notoriamente inaffidabile. Una figura che, in famiglia, merita d’essere posta sotto accusa da parte della madre (e dei figli); che, in politica, deve assicurare una quota fissa di "quote rosa", e, comunque deve sempre render conto alle elettrici di quel che non ha fatto per migliorare la "condizione femminile; che, quanto al codice penale, deve rassegnarsi a scontare una pena maggiorata se la persona contro cui ha commesso un reato è di sesso femminile; che, nel campo del giornalismo e dell’informazione, nonché della critica letteraria, cinematografica, musicale, ecc., deve fare bene attenzione a come parla, perché qualunque critica, anche velata, ai "valori" femministi, equivale a un reato di lesa maestà; e che perfino fra le mura di una caserma deve badare al rispetto della pari dignità della donna (vedi «Soldato Jane»), per non offendere la sensibilità delle soldatesse, il che significa, tra le altre cose, astenersi da qualunque espressione a sfondo sessuale, perché ciò equivarrebbe — immancabilmente — a una discriminazione maschilista della peggior specie…

La cosa, naturalmente, funziona a senso unico. Se a molestare un dipendente sul luogo di lavoro è una donna, e la vittima è un uomo, allora non si tratta di vero e proprio stalking, ma di "semplice" arroganza padronale; se a tormentare sessualmente, e infine uccidere un uomo, è una donna, allora non è "viricidio, anche se, nel caso contrario, sarebbe un caso lampante di "femminicidio"; se a voler vivere di rendita, facendo pagare all’ex marito le spese di mantenimento, è una donna, si tratta d’una cosa perfettamente lecita, e, anzi, sacrosanta, ma certo non lo sarebbe nel caso opposto; e così via. Il turismo sessuale, poi, è una cosa sordida, ignobile, se a praticarlo è un uomo, preferibilmente bianco, o comunque occidentale, e danaroso; se, invece, a pagarsi le prestazioni sessuali di un aitante giovanotto è una matura signora in vacanza ai Caraibi, la cosa risulta simpaticissima e suscita, nell’universo femminile, dei complici sorrisetti, per metà di bonaria indulgenza e per metà (o più di metà) di malcelata invidia (cfr. il nostro articolo: «Il turismo sessuale fa schifo, a meno che sia quello femminile», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/01/2014).

Il crimine maschile per antonomasia, dal quale non c’è redenzione possibile, quello che grida vendetta al cielo e che non sarà mai perdonato, è lo stupro: anche se la donna ha fatto di tutto per provocare il maschio e anche se, fino a cinque secondi prima di subire la violenza, il rapporto sessuale era esattamente quello che voleva (chi non ricorda il "mitico" film «Sotto accusa», interpretato da Jodie Foster e Kelly McGillis: la ragazza poco-di-buono dei quartieri bassi e l’avvocatessa rampante radical-chic, alleate di ferro nella nobile crociata antistupro?). Da più parti si chiede, anche da parte di politici e opinionisti di sesso maschile, la castrazione, o almeno la sterilizzazione, del bruto che si sia macchiato d’una simile infamia. Eppure, anche qui, abbiamo assistito a delle sorprese — si fa per dire — altamente rivelatrici della psicologia contorta e dell’atteggiamento intellettualmente disonesto delle signore femministe, in occasione degli stupri concertati di Colonia, avvenuti nella notte di San Silvestro del 2015; per poi scoprire che episodi analoghi erano già avvenuti in numerose città tedesche, svedesi, eccetera; che la polizia aveva messo tutto a tacere; e che la stampa, a cominciare a quella progressista e femminista, si era sorprendentemente auto-censurata, e così la radio e la televisione — e perfino Internet.

Che cos’era successo? Era successo che a commettere le rapine, le molestie, le offese sessuali e gli stupri, erano stati decine e centinaia di immigrati, compresi parecchi richiedenti asilo, arrivati freschi, freschi dai Paesi del Vicino Oriente; che non erano biechi reazionari cristiani, meglio se cattolici, ma baldi giovanotti di rigorosa fede islamica; e che insomma, in omaggio al pluralismo, alla tolleranza, alla "accoglienza" e all’intramontabile mito del "buon selvaggio" di Rousseau (contrapposto al cinico e brutale uomo occidentale civilizzato), non bisognava parlare troppo della cosa, per non fornire esca ai "veri" nemici del Progresso e dell’Integrazione, e, dunque, anche delle Donne: i conservatori, di solito in odore di maschilismo. Meglio subire lo stupro, insomma — anche perché a subirlo è stata qualcun’altra, e non le signore radical-chic che vanno in televisione e scrivono sui giornali — piuttosto che mettere in cattiva luce gli immigrati, gli islamici e tutto il carrozzone ideologico del paradigma mondialista, buonista e catto-comunista.

Abbiamo accennato al fatto che lo stupore di chi è rimasto sorpreso da questo atteggiamento delle varie signore Boldrini & C. deve essere il frutto o di una memoria assai corta, o di una colossale ingenuità politica e culturale. La verità è che questo tipo di atteggiamento non è nato il 31 dicembre 2015, con i fatti di Colonia, ma è sempre esistito presso i custodi e le sacerdotesse del politically correct, debitamente progressista e "illuminato". Una prova? Gli stupri delle donne belghe, suore comprese, durante i disordini del luglio 1960, in Congo, allorché quel Paese africano ebbe accesso all’indipendenza. Anche allora la cultura di sinistra "censurò", per un riflesso automatico, le notizie che riferivano quei fatti; e anche allora i giornali e la televisione fecero in modo di parlarne pochissimo, anche se erano proprio gli anni — o meglio, proprio perché erano gli anni — della marea montante della cultura progressista e libertaria, che sarebbe culminata, poco dopo, nelle "mitiche" giornate della rivolta studentesca sessantottina.

A parlarne, rompendo un tenacissimo tabù, sono stati solo pochissimi esponenti della sinistra progressista; gli "altri", cioè tutti i non marxisti, i non libertari e i non credenti nelle "magnifiche sorti e progressive" della cultura sessantottina, potevano dire quel che volevano, tanto le loro parole e le loro opinioni erano, semplicemente, immondizia. Ebbene, fra i pochissimi progressisti che osarono sfidare il tabù del politically correct vi fu una femminista, non certo sospetta di simpatie destrorse, e che, infatti, si affannò ad ogni pagina a rimarcare la distanza da ogni possibile interpretazione in senso conservatore, o anche solo "moderato", delle sue affermazioni; ma, appunto per questo, tanto più credibile allorché decise di denunciare, senza mezzi termini, non solo gli stupri operati dai congolesi sulle donne europee, ma anche il complice silenzio degli intellettuali di sinistra, i quali preferirono credere ai loro dogmi ideologici che alla realtà dei fatti. Stiamo parlando di Susan Brownmiller, giornalista televisiva molto nota negli Stati Uniti d’America, in quegli anni. Nel suo grosso libro-inchiesta di quasi 550 pagine «Contro la nostra volontà» (titolo originale: «Against our Will», 1975; tradizione dall’inglese di Andrea D’Anna, Milano, Bompiani, 1976, p. 161), ella non esita a denunciare con chiarezza sia la realtà degli stupri di massa, sia l’inaccettabilità del silenzio dei media occidentali, dovuto a un vero e proprio auto-ricatto ideologico, se così possiamo definirlo; allo stesso modo che aveva denunciato la realtà degli stupri operati dalle truppe marocchine inquadrate nell’esercito francese, durante la campagna d’Italia, nella Seconda guerra mondiale (e, in quel caso, la Brownmiller dà ragione a De Sica, per il film «La Ciociara», contro il suo connazionale John Howard Lawson, uno dei cosiddetti "dieci di Hollywood", il quale, forte della propria autorità nel mondo dello spettacolo, aveva accusato il regista italiano di "razzismo"):

«Quando, nel luglio 1960, le forze congolesi cominciarono a celebrare l’indipendenza stuprando donne belghe, comprese delle suore, e alcune notizie sparse comparvero sui giornali, il mio atteggiamento fu d’incredulità. Pensai che gli articoli si basassero su voci menzognere, essenzialmente razziste, volte a danneggiare la causa di Patrice Lumumba, eroe e martire dell’autodeterminazione del Congo. Non ero la sola nel mio scetticismo. L’intera stampa mondiale parve dividersi parve dividersi secondo posizioni politiche. I giornali inglesi pro-Lumumba, come il civilissimo "Manchester Guardian", ignorarono completamente le notizie di stupri, mentre i giornali ostili al nazionalismo africano, come il "Daily mail" e il "Daily Express", entrambi portati al sensazionalismo, riferirono volentieri gli episodi di violenze carnali. Nel nostro Paese la sparuta ma combattiva stampa di sinistra considerò le storie di stupri come delle bieche e deliberate menzogne, mentre secondo la conservatrice "National Review" di William Buckley, che sosteneva i secessionisti del Katanga, gli stupri dimostravano "i misfatti dei selvaggi neri". Le linee di battaglia della verità furono tirate, come frequentemente accade, sui corpi delle donne.

Quindici anni sono passati dai tragici tempi della lotta del Congo per l’indipendenza, e la mia opinione rimane immutata per quanto riguarda Lumumba. Io credo ancora che egli fosse la speranza del Congo. Ma la "politik" di una donna opera indipendentemente dalle tradizionali forze maschili di sinistra e di destra, come tutto in questo libro dovrebbe spiegare con chiarezza. Ci furono stupri nel Congo, e in gran numero, malgrado le smentite di Lumumba. E non si trattò di un complotto della C.I.A. o degli interessi minerari belgi, né una fantasia isterica di suore affamate di sesso.»

Anche se la conclusione è, a dispetto dell’apprezzabile "mea culpa" dell’Autrice, una triste ricaduta nel pregiudizio ideologico (op. cit., p. 167):

«Non furono soltanto donne belghe ad essere violentate da soldati e civili congolesi, ma anche portoghesi, greche e americane: nessuna cittadina straniera fu risparmiata. E i congolesi, in quel breve e infelice periodo del luglio 1960, non fecero altro, in modo violento e concentrato, che quello che i colonialisti avevano fatto alle donne nere per un secolo, e che nell’intero corso della storia avevano atto alle donne della loro stessa razza»

Povera Susan Brownmiller, classe 1935: è vissuta abbastanza per leggere sui giornali, o piuttosto per non leggere, la notizia degli stupri di Colonia nella notte di San Silvestro: chissà se almeno adesso avrà capito che, in questi casi, in ballo non c’è l’inveterata solidarietà maschilista, di sinistra o di destra, come lei sosteneva con estrema decisione e con qualche supponenza, ma piuttosto il paraocchi ideologico della sinistra, del progressismo – e di quello delle donne "intellettuali" non meno di quello degli uomini.

A suo modo, però, la Brownmiller è onesta, e bisogna dargliene atto. Per esempio, quando tratta gli stupri perpetrati da soldati di colore, sempre dell’esercito francese, nella città tedesca di Stoccarda (Stuttgart), nella primavera del 1945 (op. cit., p. 85), dapprima si diffonde sull’uso strumentale, e razzista, che di quelle notizie fece un senatore del Mississippi, James O. Eastland, ma poi riconosce che gli stupri ci furono, eccome; che quelli accertati dalle autorità tedesche furono almeno 1.200, ed ebbero come vittime delle donne di età compresa fra i 14 e i 74 anni; e che la maggior parte di esse furono violentate nel corso di rapine subite in casa propria, da marocchini inturbantati, col risultato che 4 di esse vennero uccise e altre 4 si suicidarono. In un caso, un marito uccise la moglie che era stata stuprata, e poi si tolse la vita a sua volta. Ma anche quei fatti, a suo tempo, ebbero scarsissima circolazione sui mezzi d’informazione: avrebbero gettato un’ombra alquanto antipatica sui nobili intenti dei "liberatori" dell’Europa, e ciò avrebbe guastato la festa con cui si era trionfalmente conclusa, per le potenze anglosassoni, la Seconda guerra mondiale.

Ma quante femministe, oggi, e quanti uomini aderenti alla cultura femminista, hanno mostrato l’onestà intellettuale di questa femminista americana della passata generazione? Il silenzio assordante, le mezze parole di sdegno, le caute, timide condanne pronunciate a mezza bocca sui fatti di Colonia – fingendo, peraltro, di non sapere che quei fatti sono solo la punta dell’iceberg, e che moltissime donne europee hanno subito, e subiscono, simili oltraggi, da parte di immigrati che godono del favore e della simpatia politica della cultura radical-progressista (ma anche di quella cattolico-neomarxista, vigorosissima in Italia e giunta a installarsi nei palazzi del potere), la quale non vuole nemmeno chiamarli con il loro nome, cioè"invasori", ma pretende di chiamarli "migranti", se non addirittura "profughi", ancor prima di sapere se verrà loro concesso lo status giuridico di profughi, o se non si tratta di persone che non fuggono affatto, come i media continuano a ripetere, in maniera ossessiva, "dalla guerra e dalla fame", e che non vengono affatto in Europa per salvarsi la vita, ma per altre ragioni, meno drammatiche e, a volte, assai meno legittime. Persino il femminismo deve inchinarsi agli ordini di scuderia del potere mondialista…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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