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8 Febbraio 2016Un piccolo imprenditore pieno di debiti uccide a colpi di pistola il suo creditore, che era anche suo amico, poi – come tenta di far credere anche alla compagna, madre di un figlio, la quale, inizialmente, gli crede e ne prende le difese, cerca di rivoltare la frittata: si è solo difeso, dice; stava per essere lui la vittima, c’è stata una colluttazione, è partito un colpo e il carnefice è stato colpito accidentalmente. Ma la pistola non l’aveva portata lui; era stato l’altro a presentarsi armato e a puntargliela addirittura in bocca. Uno dei due era destinato a morire: l’assassino si è visto costretto a reagire, si è difeso con la forza della disperazione. L’indagine è ancora in corso, ma pare proprio che non sia andata così; che sia stato, al contrario, un omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione. Oltretutto, ora salta fuori un altro delitto, di parecchi anni fa, per il quale l’omicida reo confesso — che ha una grande passione per le armi — fu sospettato: il colpevole potrebbe essere stato lui. Si chiama Renato Rossi e ha 67 anni; la vittima è Ezio Sancovich, di 62. Il fatto è accaduto a Piombino Dese, in provincia di Padova, il 1° febbraio 2016.
Due giovani fratelli, impazienti di ereditare la casa dei genitori, uccidono a botte la madre; condannati a soli dodici anni di carcere, uno dei due, dopo averne fatti appena sei, comincia già a godere di permessi premio e a girare liberamente per il paese, con raccapriccio dei parenti della madre. Un matricidio perpetrato barbaramente per il movente più sordido, quello economico, non vale neppure una detenzione di dodici anni. La modesta pena fu dovuta alla sentenza che optò per un delitto preterintenzionale: in pratica, il pugno che uccise la donna (ma vi furono anche dei calci) sarebbe stato sferrato senza una vera volontà omicida. Eppure, durante il processo, è emerso che la decisione di fare fuori la madre era già nell’aria. E il padre, che brilla per la sua assenza in tutta la vicenda, non seppe fare altro che aiutare i figli a occultare il cadavere nel greto del Piave. Ciò accadde a Faè di Oderzo; la donna si chiamava Graziella Barbiero; era il 22 novembre 2006. Dopo averla uccisa, i due ragazzi, Benjamin e Brian, parlarono di lei, al telefono, con frasi sprezzanti; tentarono di depistare le indagini e giunsero a fabbricare dei falsi biglietti indirizzati a un ipotetico amante della madre, per screditarla agli occhi degli inquirenti. La vittima venne scaricata in una località deserta, presso Cimadolmo, come un sacco d’immondizie; la sua colpa era stata quella di non averlo voluto andarsene di casa, che i figli volevamo ereditare dal padre.
Un pensionato di 62 anni, persona chiusa di carattere, ma, nel complesso, non ritenuta per nulla fuori della norma dai compaesani del piccolissimo centro sulle colline famose per i vigneti, un giorno, non si sa perché, ha ucciso la moglie di 52 anni, fracassandole la testa. Poi è salito nella camera ove dormiva il figlio di 24 anni, e ha ucciso anche lui, tagliandogli la gola. Da ultimo, è salito nella mansarda, ha legato una fune a una trave del soffitto e si è tolto la vita, impiccandosi. I cadaveri sono stati trovato solo un paio di giorni dopo; sul momento, nessuno aveva notato nulla, né sospettato alcunché. Non si sa cosa abbia spinto l’uomo a fare ciò che ha fatto; pare che fosse geloso della moglie e che ci fossero stati dei diverbi, ma niente di particolarmente allarmante. O, almeno, così pareva. L’assassino-suicida si chiamava Sisto De Martin; la moglie era filippina e si chiamava Teresa Reposon; il figlio, Christian, lavorava in un’azienda della zona, ed è stata la sua assenza, il lunedì successivo, a far scattare l’allarme. La tragedia sarebbe avvenuta, secondo la ricostruzione degli inquirenti, nella serata del 1° dicembre 2014; lo scenario del massacro è Refrontolo, minuscolo comune presso Pieve di Soligo, in provincia di Treviso.
A Conegliano, un giovane operaio di 35 anni, Moreno Coletti, uccide la madre di 65 anni, Paolina Saporosi, gettandola dall’ottavo piano d’un condominio. A caldo, ha dichiarato: «Ero assillato ed esasperato da mia madre, che mi aveva reso la vita un Calvario. Volevo liberarmi di lei». E lo ha fatto. Era andato a casa di lei con la precisa intenzione di ucciderla. Era il 27 febbraio del 2014.
Un trentaduenne di Colle Umberto, sempre in provincia di Treviso, Matteo Bottecchia, aggredisce Gianpietro Pagotto, 35 ani, di Vittorio Veneto. Questi ha appena lasciato la casa della fidanzata, una ragazza di 24 anni – madre di una bimba di 2 – che è la ex compagna dell’aggressore. Questi esce dal buio all’improvviso, mentre il rivale è alla guida dell’automobile, costringendolo a frenare per non investirlo, e allora infrange il finestrino della vettura e sferra un tremendo fendente con l’accetta. La vittima verrebbe decapitata, se non si proteggesse, d’istinto, con il braccio: che risulta quasi tranciato di netto. Verrà soccorso dai vicini e portato in ospedale, inzuppato di sangue: si salverà per miracolo, ma l’uso del braccio rimane seriamente compromesso. Poi l’aggressore si allontana in auto, vaga nella notte per qualche ora; infine accosta sul bordo dell’autostrada, si arrampica sulla rete di protezione d’un altissimo viadotto e si getta nel vuoto, facendo un volo senza scampo di circa 100 metri. Tutto questo accade, di nuovo, alla periferia di Conegliano, la notte del 22 dicembre 2015: poco prima del Natale.
Ancora a Conegliano, pochi mesi prima, il 21 marzo 2015, un ex finanziere di 45 anni, Maurizio Aronica, tenta di uccidere la moglie, da cui è separato, a colpi di roncola: la massacra in tutto il corpo, viene fermato in extremis prima di portare a termine la sinistra opera. La donna riporterà lesioni irreparabili. Colpisce il fatto che l’uomo, dopo la separazione, si era rifatto una vita: aveva una nuova compagna, che gli aveva dato anche un bambino. Ma il rancore accumulato è stato più forte di tutto e lo ha spinto a rovinare la vita anche a queste due persone innocenti.
Potremmo continuare a lungo; anche troppo. Questi fatti di ordinaria follia costellano ormai le cronache quotidiane; quelli che abbiamo riportato qui sopra hanno in comune l’ubicazione geografica: il ricco (o, per dir meglio, l’ex ricco) Nord-Est; la provincia veneta, dove fino a un paio di generazione fa era fortissimo il radicamento religioso e dove, per quasi cinquant’anni, la Democrazia cristiana ha governato e amministrato quasi da padrona, facendo il bello ed il cattivo tempo. Terra di gente seria, di gran lavoratori; terra di emigranti fino all’inizio degli anni ’60 del Novecento; poi, quasi di colpo, ecco giunto il benessere, il "miracolo", grazie ad una piccola imprenditorialità diffusa, a struttura familiare, modello vincente soprattutto nel settore delle esportazioni: falegnameria, scarpe e scarponi da sci, elettrodomestici, abbigliamento, cartiere, occhialerie, vini e spumanti, edilizia, cementifici, frutticoltura e orticoltura, biciclette, motocicli, dolci, gelati e… casse da morto. Gente che, fino — appunto – a due generazioni fa, lavorava anche il sabato sera e, durante la settimana, staccava a mala pena per il pranzo; che aveva il culto del lavoro ben fatto, il senso del fare impresa, la tradizione dell’artigianato nel sangue.
Fatti come quelli che abbiamo riportato sono divenuti frequenti a partire da qualche anno; prima, erano rarissimi; prima ancora, diciamo una ventina d’anni fa, sarebbero sembrati impossibili. Roba da fantascienza; roba che accadeva solo in luoghi lontani, come gli Stati Uniti. Ora, invece, si tratta di casi sempre più frequenti. La stampa e i telegiornali li gonfiano al massimo, come d’uso, tuttavia non si può dire che il fenomeno sia un’invenzione dei giornalisti. Oltre alle violenze perpetrate dalla malavita straniera, le rapine pressoché quotidiane, gli stupri (come nel caso di una ragazza, a due passi dalla stazione ferroviaria di Treviso), le mattanze d’innocenti (come la strage perpetrata in un villa di Gorgo al Monticano, con le orribili sevizie cui furono sottoposti i due custodi, marito e moglie, da una banda di romeni e albanesi in preda ai fumi della droga), è divenuta ormai frequente una violenza che ha per teatro le mura domestiche e per protagonisti i membri di famiglie tranquille, normali. Ma ciò che più impressiona è l’assenza di pentimento, di rimorso, da parte dei colpevoli.
In altre parole: sta accadendo qualcosa che non sappiamo identificare, che stentiamo a riconoscere; ma sta accadendo qualcosa di terribile, che indica una mutazione antropologica e una immensa sofferenza, una disperata solitudine all’interno dell’istituto familiare. La famiglia, che era il luogo del rasserenamento, della protezione reciproca, della solidarietà, della consolazione, sta diventando l’anticamera dell’Inferno dantesco. Se due giovanotti arrivano a massacrare a pugni e calci la loro mamma perché non vuole andarsene di casa, lasciandola tutta a loro, vuol dire che la famiglia sta impazzendo, e noi tutti insieme a lei. E se non sappiamo vedere che questi fatti non appartengono alla tragica contabilità della "normale" cronaca nera, ma indicano una frattura irreparabile all’interno della nostra società, della nostra sensibilità, del nostro modo di essere, allora vuol dire che siamo veramente giunti al capolinea. È come se un malato di tumore, ormai in piena metastasi, non si rendesse affatto conto di star male, e accusasse di portare iella il medico o l’amico che lo consigliassero di sottoporsi a degli esami clinici.
Forse, raccogliamo quel che abbiamo a lungo seminato. Da più di un secolo — hanno cominciato Italo Svevo e Luigi Pirandello — gettiamo fango e disprezzo sulla famiglia; la descriviamo come la trappola sociale per eccellenza, la stanza delle torture; vomitiamo su di essa le accuse più infamanti, i rimproveri più amari. La cultura del ’68 ha ripreso e amplificato questo atteggiamento: ha raddoppiato sia le accuse che il disprezzo. E ha preteso dai genitori che lasciassero fare ai figli qualsiasi cosa, riducendosi a svolgere il ruolo di un bancomat sempre aperto. «Vietato vietare», «proibito proibire», hanno detto e ripetuto i nostri grandi maîtres-à-penser. Pasolini, nei suoi film, ha presentato la famiglia come un manicomio di padri perversi e di figli repressi e frustrati, ove regnano i vizi più orrendi e le fantasie più morbose; Moravia, nei suoi romanzi, ha fatto lo stesso, se non peggio. Dario Fo, nel «Mistero buffo», non ha saputo far di meglio che prendersela con la Sacra famiglia, deridendola e sbeffeggiandola: la qual cosa ha fatto sì che venisse salutato come il genio del teatro italiano. Se avessimo preso a pedate questi cattivi maestri, forse sarebbe stato meglio per noi e per loro, ma soprattutto per i nostri figli; invece, li abbiamo applauditi e riveriti.
Le trasformazioni economiche, la distruzione della piccola impresa da parte dei centri commerciali a capitale estero, il prelievo fiscale pazzesco da parte dello Stato, la funzione usuraia delle banche, l’artigiano e l’imprenditore lasciati a se stessi, i licenziamenti a catena nelle fabbriche: tutto questo contribuisce a delineare un quadro plumbeo, angosciante, senza un raggio di sole; e si aggiunga la povertà culturale, la scomparsa della bellezza, il diradarsi della vera amicizia, il dilagare della volgarità televisiva e della dipendenza dai mezzi di comunicazione elettronici, la depressione ormai galoppante, la scarsità di buoni esempi e l’assenza d’una valida guida spirituale, il penoso restringimento degli orizzonti esistenziali. Tuttavia, non vogliamo metterci a fare della facile sociologia. Lasciamo ad altri, più competenti, l’analisi sociologica e psicologica dei fenomeni qui accennati; quanto a noi, preferiamo concentrare l’attenzione su un solo aspetto: l’allontanamento degli uomini da Dio, la perdita della relazione verticale con la trascendenza, con il sacro, con il soprannaturale, con il Mistero — e con il suo inseparabile compagno, il senso del limite.
San Paolo ha tracciato un quadro estremamente drammatico, ma realistico, della situazione dell’uomo che si allontana consapevolmente da Dio (Romani, 28-32):
E poiché si sono allontanati da Dio nei loro pensieri, Dio li ha abbandonati, li ha lasciati in balia dei loro pensieri corrotti, ed essi hanno compiuto cose orribili. Sono ormai giunti al colmo d ogni specie di ingiustizia e di vergognosi desideri. Sono avidi, cattivi, invidiosi, assassini. Litigano e ingannano. Sono maligni, traditori, calunniatori, nemici di Dio, violenti, superbi, presuntuosi, inventori di mali, ribelli ai genitori. Sono disonesti e non mantengono le promesse. Sono senza pietà e incapaci di amare. Eppure sanno benissimo come Dio giudica quelli che commettono queste colpe: sono degni di morte. Tuttavia, non solo continuano a commetterle, ma anche si rallegrano con tutti quelli che si comportano come loro.»
In tutto questo elenco impressionante di sentimenti e comportamenti malvagi, ce n’è uno che spicca sinistramente su tutti gli altri, e che, in un certo senso, li riassume: «Sono senza pietà e incapaci di amare». I loro cuori si sono inariditi, induriti, pietrificati: ed essi sono diventati disumani. Questo è anche il nostro caso, di figli della società del "benessere": edonista, materialista, consumista e spiritualmente arida come un deserto. Il benessere se n’è andato, i vizi son rimasti: superbia, egoismo, aggressività, ingiustizia. E Dio non è tornato. Da Machiavelli in poi, se non addirittura da Tucidide, siamo abituati a pensare la società e la storia come il luogo dell’immanenza, ove le azioni umane si spiegano da sé. Ebbene, forse abbiamo sbagliato. Dovremmo tornare a guardarle nella prospettiva del soprannaturale, e riconsiderare l’importanza che ha, nelle azioni umane, la vicinanza o la lontananza da Dio. Qualcuno dirà che questo è misticismo, cioè regresso. Padrone di pensarlo. Ma Dante, che non era uno sciocco, sapeva che significhi smarrire la diritta via nella selva oscura…
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