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La biblioteca di Clara nel castello di Fratta, ovvero la malattia della lettura

Le persone leggono; chi più, chi meno; specialmente le persone sensibili, dotate d’immaginazione, e, spesso, anche se inconsciamente, poco soddisfatte dalla realtà presente: in tal caso, più che per conoscere, leggono per distrarsi, per evadere. Il romanzo, come è noto, è giunto buon ultimo sulla scena della produzione letteraria, nel XVIII secolo in Inghilterra, poi, a seguire, nel resto d’Europa e del mondo occidentale; al punto che dire, oggi, d’aver letto un libro, è praticamente la stessa cosa che dire d’aver letto un romanzo. Prima, si leggevano soprattutto poesie; prima ancora, poemi; a parte la Bibbia, le vite dei santi e i libri devozionali, che hanno sempre costituito una categoria a sé stante, destinata non alla letteratura amena, ma a quella religiosa, edificante e morale. È evidente che esiste, nella diffusione del romanzo, una relazione con il progredire della Rivoluzione industriale: stessi tempi, stessi luoghi. Il romanzo è la forma letteraria perfettamente appropriata alla borghesia in rapida ascesa, fiera di sé, dei suoi successi, del "self-made man" che essa rappresenta: non è un caso che uno dei primi romanzi di vasto successo sia stato il «Robinson Crusoe di Daniel Defoe, del 1719 (cfr. i nostro articoli: «Robinson Crusoe è l’uomo in fuga da se stesso approdato sull’isola della modernità»; «Quando la realtà supera la fantasia: la storia del vero Robinson, naufrago dimenticato», e «La straordinaria vicenda di Robert Knox che ha ispirato a Defoe il suo Robinson Crusoe», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente, il 16/08/2011, il 24/11/2011 e il 07/10/2014, e recentemente ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). E sempre alla penna di Defoe si deve anche il ritratto di una delle prime donne "moderne", capaci di farsi da sé, senza andar troppo per il sottile quanto ai mezzi impiegati — come Robinson, del resto, trafficante di schiavi -: l’avventuriera Moll Flanders, protagonista del romanzo, per così dire, gemello (1722). Il poema e la lirica, invece, erano stati le letture preferite dall’aristocrazia; e non è un caso che, fra i libri della biblioteca personale della tenera e affascinante contessina Clara – indimenticabile personaggio femminile de «Le confessioni d’un italiano», scritte da Ippolito Nevo nel 1857-58, ma pubblicate, postume, nel 1867 –, nel castello di Fratta, figurino, in primo luogo, l’«Orlando furioso» di Ludovico Ariosto e «La Gerusalemme liberata» di Torquato Tasso.

La contessina, animo umbratile e romantico, legge fino a tarda notte al lume della lucerna, quando la nonna vecchissima s’è addormentata e tutto il castello giace immerso nel sonno, e fantastica, immedesimandosi nei personaggi di quei poemi, negli eroi e nelle eroine, nelle loro avventure, nei loro amori, spesso contrastati e infelici: sospira con loro, freme con loro, soffre con loro; prova una particolare simpatia — e non è difficile capirne la ragione — per la bella e dolce Erminia, malinconica eroina della «Gerusalemme liberata», che cerca di dimenticare il suo amore impossibile per Tancredi rifugiandosi nel bosco e presso i miti pastori che vivono una vita semplice e sobria (cfr. il nostro articolo: «Erminia "fra le ombrose piante" è figura d’una segreta voluttà di soffrire», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 30/04/2015).

Ma come si è formata la sua piccola biblioteca, la contessina Clara? Oltre all’Ariosto e al Tasso, essa comprende il «Pastor fido» di Giovan Battista Guarini, qualche libro di memorie, le commedie di Goldoni — le opere più recenti in assoluto -, e, naturalmente alcuni libri di carattere devoto, che lei, anima profondamente religiosa, tiene in gran conto. Clara non trova nulla di strano nel passare dalle litanie della Madonna alle avventure di Brandimarte e Fiordiligi, o a quelle di Angelica e Medoro, queste ultime, soprattutto, piuttosto "spinte", in base ai canoni del tempo (siamo nella profonda provincia veneta, negli ultimi anni di vita della Repubblica serenissima, quando la Rivoluzione francese e Napoleone Bonaparte stanno per battere alle porte: e sarà la fine di quel mondo aristocratico e rustico nel medesimo tempo, patriarcale, clericale e provinciale, quasi lasciato indietro dall’incedere inarrestabile del progresso). Ebbene, quella piccola biblioteca, Clara se l’è formata praticamente per caso: ritornata al castello dopo tre anni passati in convento, presso le suore, si è ricordata di uno stanzone ove giacevano dei libri polverosi e semi-rovinati dall’umidità e dai tarli, li ha ispezionati, e ha salvato quelli ancora salvabili; poi, ha riservato a se stessa e alla parte della giornata più intima e segreta — la notte -, per sprofondarsi indisturbata nel lauto pasto delle sue letture solitarie.

Riportiamo la pagina in cui si descrivono le letture della Clara al castello di Fratta, per poi evidenziare i tratti salienti del suo carattere (da: I. Nievo, «Le confessioni di un italiano», cap. II (prefazione e commento di Arnaldo Stirati, Roma, Gremese Editore, 1964, pp. 72-75):

«La contessina Clara dormiva vicino alla nonna nell’appartamento che metteva in sala rimpetto alla camera de’ suoi genitori. Aveva uno stanzino che somigliava la celletta d’una monaca; e l’unico cignale che vi stava intagliato nello stucco della caminiera stessa, forse senza pensarvi, lo aveva coperto con una pila di libri. Erano avanzi d’una biblioteca andata a male in una cameraccia terrena andata a male per l’incuria dei castellani, e la combinata inimicizia del tarlo, dei sorci e dell’umidità. La Contessina, che nei tre anni vissuti in convento s’era rifugiata nella lettura contro le noie e il pettegolezzo delle monache, appena rimesso piedi in casa, erasi ricordata di quello stanzone ingombro di volumi sbarellati e di cartapecore; e si pose a pescarvi entro quel poco di buono che restava. Qualche volume di memorie tradotte dal francese, alcune storie di quelle antiche italiane, che narrano le cose alla casalinga e senza rigonfia ture, il Tasso, l’Ariosto e il "Pastor Fido"del Guarini, quasi tutte le commedie del Goldoni stampate pochi anni prima, ecco a quanto si ridussero i suoi guadagni. Aggiungete a tuttociò un uffizio della Madonna e qualche manuale di divozione e avrete il catalogo della libreria dietro cui si nascondeva nella stanza di Clara il cignale gentilizio. Quando a piede sospeso ella si era avvicinata al letto della nonna per assicurarsi che nulla turbava la placidezza dei suoi sonni, tenendo lamano davanti alla lucerna pe diminuirne il riverbero contro le preti, si riduceva nella sua celletta a squadernar taluno di quei libri. Spesso tutti gli abitanti del castello dormivano della grossa che il lume della lampada traluceva ancora dalle fessure del suo balcone; e quando pi ella prendeva in mano o "La Gerusalemme Liberata" o l’"Orlando Furioso" (gli identici volumi che non avean potuto decidere la vocazione militare di suo zio monsignore) l’olio mancava al lucignolo prima che agli occhi della giovine la volontà di leggere. Si perdeva con Erminia sotto le piante ombrose e la seguiva nei placidi alberghi dei pastori; si addentrava con Angelica e con Medoro a scriver versi d’amore sulle muscose pareti delle grotte; e delirava anche talora col pazzo Orlando e piangeva di compassione per lui. Ma soprattutto le vinceva l’animo di pietà la fine di Brandimarte, quando l’ora fatale gli interrompeva sul labbro il nome dell’amante e sembra quasi che l’anima sua trapassi a terminarlo e a ripeterlo continuamente nella felice eternità dell’amore. Addormentandosi dopo questa lettura, le pareva talvolta in sogno di essere ella stessa la vedova Fiordiligi. Un velo nero le cadeva dalla fronte sugli occhi e giù fino a terra; come per togliere agli sguardi volgari la santità del suo pianto inconsolabile; un dolore soave, melanconico, eterno le si diffondeva nel cuore come un eco lontano di flebili armonie; e dalla sostanza più pura di quel dolor emanava come uno spirito di speranza che, troppo lieve ed etereo per divagar presso terra, spaziava altissimo nel cielo. – Erano fantasie o presentimenti? — Ella non lo sapeva; ma sapeva veramente che gli affetti di quella sognata Fiordiligi rispondevano appuntino ai sentimenti di Clara.

Anima chiusa alle impressioni del mondo, erasi ella serbata come l’aveva fatta Iddio in mezzo alle frivolezze alle scurrilità alle vanaglorie che l’attorniavano. E le divote credenze e i miti costumi di sua nonna, appurati dalle meditazioni serene della vecchiaia, si rinnovavano in lei con tutta la spontaneità ed il profumo dell’età virginale. Nella prima infanzia ell’era sempre rimasta a Fratta, fida compagna dell’antica inferma. Sembrava fin d’allora il rampollo giovinetto di castagno che sorge dal vecchio ceppo rigoglioso di vita. Quella dimora solitaria l’aveva preservata dal vizioso consorzio delle cameriere e dagli insegnamenti che potevano venirle dall’esempio di sua madre. Viveva al castello semplice tranquilla e innocente, come la passera che vi celava il suo nido sotto le travature del granaio. La sua bellezza cresceva coll’età, come se l’aria ed il sole in cui si tuffava da mane a sera colla robusta noncuranza d’una campagnuola, vi si mescessero entro a ingrandirla e ad illuminarla. Ma era una grandezza buona, una luce modesta e gradevole al pari di quella della luna; non il barbaglio strano e guizzante del lampo. Regnava e splendeva come una madonna fra i ceri dell’altare. Infatti le sue sembianze arieggiavano una pace e religiosa e quasi celeste; si comprendeva appena, vedendola, che sotto quelle spoglie gentili e armoniose il fervore della divozione si mescolava colla poesia di una immaginazione pura nascosta operosa e colle più ingenue squisitezze del sentimento. Era il fuoco del mezzodì riverberato dalle ghiacciaie candide e adamantine del settentrione.

Le semplici contadine dei dintorni la chiamavano la Santa; e ricordarono con venerazione il giorno della prima comunione, quando appena ricevuto il mistico pane la era svenuta di consolazione di paura d’umiltà; ed elleno dicevano invece che Dio l’aveva chiamata in estasi come degna che la era d’un più stretto sposalizio con essolui. Anche la Clara si risovveniva con una gioia mista di tremore di quel giorno tutto celeste; assaporando sempre colla memoria quei sublimi rapimenti dell’anima invitata a partecipare per la prima volta al più alto e soave mistero di sua religione…»

Sono molte, più di quante non si creda, le persone che si dedicano alla lettura per diletto, per evasione, ma non in base a una vera e propria scelta, bensì affidandosi a ciò che capita loro sotto mano, ai libri trovati in qualche armadio o cassettone, o, semplicemente, a quelli consigliati da un amico, o imprestati da un conoscente. Giovanni Papini, nei suoi ricordi, narra di aver trascorso la fanciullezza e l’adolescenza letteralmente sprofondato nella lettura di un mucchio di libri, acquistati, a suo tempo, da suo padre, e ammucchiati in un cesto, dal quale egli li traeva per leggerli, uno dopo l’altro; solo dopo averli letti tutti — si trattava di volumi che riflettevano la cultura da autodidatta, fortemente laica e positivista, del padre, ex garibaldino, repubblicano, ateo e anticlericale; una cultura in voga anche fra la piccolissima borghesia di fine Ottocento -, il futuro scrittore scoprì che esistevano dei luoghi meravigliosi, le biblioteche pubbliche, dove erano custoditi migliaia e migliaia di libri, appartenenti a tutti i generi letterari, che si potevano prendere a prestito e leggere gratuitamente, a volontà.

Il caso, dunque, svolge un ruolo notevole nelle prime letture delle persone, specie degli adolescenti: leggono quello che trovano, quello che è fisicamente a portata di mano. Si dirà che anche nella scelta degli amici, il caso vuol dire molto; o meglio, il fatto di operare delle scelte che sono pur sempre circoscritte ad una cerchia, geografica e sociale, generalmente ristretta. Si fa amicizia con chi è simile a noi, anche dal punto di vista sociale, perché i suoi problemi, le sue speranze, le sue prospettive, sono simili alle nostre; e con chi abita vicino a noi, con chi frequenta la stessa scuola, con chi pratica sport nella stessa palestra o nella stessa squadra (anche se i social network, oggi, e la grande facilità del viaggiare, stanno cambiando queste abitudini; ma stanno cambiando anche il concetto stesso dell’amicizia). Con una grossa differenza rispetto al libro, però: il libro è un amico che si offre anche alla persona più timida e isolata; un amico in carne e ossa, bisogna pur sempre incontrarlo fisicamente, uscendo di casa, andando verso il mondo esterno. Ecco perché la lettura, e specialmente la lettura come evasione, tende a rinchiudere le persone in se stesse, ad accentuare la loro tendenza ad isolarsi, a sognare, a fantasticare, a eludere la realtà. In compenso, l’abitudine alla lettura può generare una tendenza utile, quella all’introspezione, all’analisi di sé: purché non degeneri in una forma esagerata, che paralizza la volontà e rafforza il solipsismo.

Giunti a questo punto, possiamo chiederci: fa bene, leggere? La vita della contessina Clara, o quella di Madame Bovary, o quella di tanti uomini e donne reali, non semplici personaggi letterari, sarebbe stata migliore, o più felice, o più piena, se avessero letto e fantasticato di meno, e vissuto la vita un po’ di più? Ecco una bella domanda; una domanda da un milione. A ciascuno sta cercar la risposta…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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