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André Gide, una notte, in Africa, a tu per tu con lo spirito del Male

André Gide (nato a Parigi nel 1869 e morto, sempre nella capitale francese, nel 1951), vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1947, è stato — dicono — uno dei più grandi scrittori francesi del Novecento. Anche se il suo immoralismo e la sensualità torbida ed esasperata dei suoi scritti possono dispiacere, così come molti aspetti del suo carattere (apertamente omosessuale, sposò castamente la cugina Madeleine, donna malata e tormentata, e la condannò all’infermo di un matrimonio in bianco, senza amore, e tuttavia morbosamente "assoluto"), è riconosciuto quasi da tutti come un maestro di stile e, se le sue idee non sono profonde, in compenso sono sincere e coerenti. Fu uno dei pochi intellettuali di sinistra a prendere le distanze dal comunismo e a dichiarare apertamente, dopo un viaggio in Unione Sovietica, che il proletariato internazionale era stato ingannato e che quel che Stalin aveva realizzato nella sua patria non era affatto il "paradiso dei lavoratori" tanto reclamizzato in Occidente. Lo disse nel libro-inchiesta «Ritorno dall’Urss», nel 1936, in piena stagione dei Fronti popolari e nonostante i tentativi delle autorità sovietiche di bloccarne la pubblicazione; cosa che gli valse la reazione piccata dei vari Éluard e Aragon, i poeti ufficiali dello stalinismo, e la disapprovazione di molti altri intellettuali engagés (unica maniera possibile di essere impegnati politicamente: militare a sinistra). Pure, evidentemente gli dispiaceva troppo — a lui, scrittore decadente ed estetizzante alla Oscar Wilde, di cui era divenuto amico e ammiratore nel 1891 — farsi depennare del tutto dai salotti buoni della Parigi progressista, per cui rifiutò gli inviti di alcuni suoi ammiratori a rompere definitivamente con l’equivoco della sinistra e a schierarsi apertamente con la destra, cosa che sarebbe stata molto più in sintonia con le sue concezioni aristocratiche, con la sua cultura "purista", con la sua sensibilità raffinata ed esigente; ma non ebbe il fegato di rompere il sacro tabù per cui un intellettuale francese o è della gauche, o non è un intellettuale da prendersi sul serio.

Gide è universalmente conosciuto per romanzi quali «L’immoralista» (1902), «La porta stretta» (1909), «I sotterranei del Vaticano» (1914), «La sinfonia pastorale» (1919), «Se il seme non muore» (1926); pure, fra le sue opere minori vi sono due libri di viaggio relativi all’Africa tropicale — egli viaggiò molto e, ovunque andasse, come attestano i suoi diari, era tormentato dal pensiero di Madeleine, dal senso di colpa nei suoi confronti, dalla coscienza di averla resa infelice per tutta la vita — che si leggono ancora volentieri per la freschezza e la facilità dello stile, e per il piglio quasi da antropologo dilettante che vi si dispiega; chissà che Claude Lévi-Strauss, nello scrivere, trenta anni dopo, i suoi «Tristi tropici» (1955), non abbia avuto presenti anche le pagine di Gide. C’è un episodio, in quella relazione di viaggio, che riguarda una danza di esorcismo e l’incontro una oscura presenza diabolica, nel cuore della notte, cui lo scrittore francese si trovò ad essere presente assolutamente per caso, soltanto attratto dal rullare inquietante dei tamburi, a non molta distanza dalla capanna in cui si accingeva a riposare.

Il racconto in questione fra parte del libro «Ritorno dal Ciad», del 1928, che, di solito, viene pubblicato insieme all’altro diario di viaggio in terra africana, «Viaggio al Congo», del 1927, e compare sotto la data del 17 marzo 1926; in il volume Italia è stato tradotto (per la casa editrice Einaudi di Torino, che non poteva lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione per arruolare fra i critici del colonialismo un intellettuale prestigioso come Gide) dall’onnipresente Franco Fortini, allora attivissimo su tutti i fronti della letteratura cosiddetta "impegnata" e di sinistra, negli anni a ridosso del 1968, a dispetto del fatto che i problemi coloniali di cui parla Gide in quelle pagine fossero totalmente superati a oltre quarant’anni di distanza, quando ormai il colonialismo era finito e gli Stati africani indipendenti erano alle prese con ben altri problemi che quelli dei primi decenni del secolo (da: A. Gide, «Viaggio al Congo»; traduzione dal francese di Franco Fortini, Milano, Longanesi & C., su licenza di Giulio Einaudi Editore, 1969, pp. 226-227):

«Ieri, a notte fatta, il suono di un "tam-tam", a un centinaio di metri dall’alloggiamento. Vado a vedere, mentre, in una improvvisata camera oscura, Marc carica le sue macchine. La luna, al primo quarto, rischiara appena; ma la terra battuta del sentiero riluce fiocamente fra le zolle di un futuro campo di miglio. La curiosità che mi attira laggiù non è molto forte. Se la lampada facesse resterei a leggere; ma il vetro è ritto e la fiamma della candela s’agita al minimo soffio. Mi creo un dovere professionale di osservare… Ormai tutti mi conoscono nel villaggio e il mio arrivo non interrompe il "tam-tam". Dei bambini mi si fanno intorno, ma è così buio che non conosco nessuno. È molto se nel buio riesco a riconoscere il gruppo dei danzatori negri. Sono appena una quarantina, cantano malissimo e si agitano con molta confusione al suono di un solo tamburo. Un piccolo !tam-tam" familiare. Come può questo mediocre eccitamento essere sufficiente a provocar egli spasimi, la frenesia, la crisi di cinque persone, nel poco tempo che son rimasto a vederle? Che triste, orribile scena. Un corpo giovanissimo e fragile (dal luccicare della cintura di perline capisco che si tratta di una ragazzina) si rotola nella polvere, gemendo un lamento di bestia ferita. Respira affannosamente; le gambe si agitano in fremiti convulsi: poi, più nulla. Mi spiegano che è il "diavolo" ad agitarla. Mi chino su lei: non si scorge più nemmeno il leggero moto di un petto che respira. Quel corpo pare inanimato, abbandonato dal dèmone. Un vecchio s’inginocchia vicino a lei e la esorcizza. Trascorre un lungo tempo; poi la ragazza si rialza; sembra riaversi da un sogno. Ma subito la danza, che non si è interrotta, la riprende; e ancora due volte, nello spazio di mezz’ora, la vedo ricadere a terra. Si tratta di un dèmone ostinato che non vuol lasciarla. Altri dèmoni agitano e strapazzano, subito dopo, altre donne. Una vecchia esce dal ballo; indietreggia a piccoli salti, con grande spasso degli spettatori che la eccitano gridando. Finalmente la vecchia cade, si torce al suolo. Più in là, ce n’è un’altra; un’altra ancora. Poi un uomo. Si direbbe che si compiacciano, che questo stato da angoscia sia proprio quello che si augurano di ottenere e si sforzano di provocare. Dunque la danza non ha affatto qui (e non aveva a Mala) il carattere che aveva altrove. Sembra un esercizio igienico, antidemoniaco. Ma che? Queste persone sono tutte ammalate? O diventano epilettiche o isteriche per la suggestione? La credenza nel diavolo, come la credenza in Dio, basta a provocarne la presenza? Questa credenza pare abbia una gran parte nella vita dei Massa. Ora qui, ora là, ora nella campagna, ora ai margini di un villaggio, o nel villaggio steso, a pie’ di un albero, non importa dove, ci si sorprende di trovare un rialzo di terra, quasi sempre tinto di bianco, della forma e grandezza di un alveare. Si domanda che cos’è.

"È il diavolo", rispondono. E non son potuto arrivare a capire se essi credevano che Eblis fosse chiuso là dentro, se si trattava di un atto propiziatorio; di una trappola per diavoli, di un para-diavolo.. Ma insomma, se si vedono quei piccoli monumenti, vuol dire che il diavolo è lì.

Non mi risultato che questa credenza in un potere malefico sia controbilanciata, nello spirito di quei poveretti, dalla credenza in qualche potere provvidenziale. Il meglio che possono augurarsi è la mancanza di ostilità… Ma posso sbagliarmi. Per chi non parla la lingua e si limita a viaggiare, è quasi impossibile penetrare a fondo la psicologia di un popolo, malgrado la gentilezza e cordialità (vorrei dire: la disposizione all’ospitalità) di questa gente. Mi è parso che ieri sera non vedessero di buon occhio la mia presenza alla celebrazione di quei loro misteri. Appena mi allontani dalla danza, subito le grida raddoppiarono, come se la danza fosse stata un po’ contenuta, e repressa la frenesia, durante la mia presenza. In più, per tre volte, mentre mi attardavo con loro, sono stato colpito da un oggetto. Era soltanto una zolletta di terra, lanciata da una mano così debole che lì per lì ho creduto di essere stato urtato al ventre, involontariamente, dal braccio di un danzatore in delirio; ma n, un secondo colpo, cinque minuti dopo, mi ha fatto capire il primo. Il terzo, che ho riavuto nella schiena, mi ha fatti quasi male. Non mi sono voltato subito, preferendo non accusare il colpo e era tanta la cortesia verso di noi, che Marc, cui raccontai il fatto, mi disse che avevo dovuto sbagliarmi, che quella zolletta di terra scagliata, non voleva certo avere un senso ostile; che bisognava vedervi, forse, un invito, magari un richiamo… Per conto mio ho interpretato quel gesto (senza alcuna intenzione di ferirmi, spiacermi o nuocermi) soltanto come un anonimo e discreto: "va’ via". Non mi allontanai subito, e così potei assistere alle ultime tre crisi. Non mi piace darla vinta. Certo mi son detto, dopo, che non era stato forse che non era stato molto prudente esser venuto solo e riandarmene solo, in aperta campagna, di notte. Quando c’è di mezzo il diavolo, la cortesia non conta più. Può succedere qualunque cosa. .. Dovrei forse aver paura, ma non mi riesce. Due robusti giovanotti mi seguono. Il meglio è fare l’amico. Tendo loro le mani e cammino per un po’ con le loro mani nelle mie. Quando s’ha da fare coi diavoli, il meglio è sempre accattivarseli. Massis sa che riesco benissimo.»

Premesso che è lo stesso André Gide a riconoscersi totalmente sprovvisto degli strumenti culturali anche minimi per poter interpretare correttamente, o anche solo verosimilmente, questo episodio (a cominciare da quello più indispensabile di tutti: la conoscenza della lingua parlata da quella popolazione del Ciad, o, come si diceva allora, dell’Ubangui-Shari), e fatta la tara all’atteggiamento piuttosto superficiale col quale egli si pone davanti al mistero, a tutto vantaggio della freschezza e della immediatezza del racconto, ma con poco guadagno dell’approfondimento e della reale comprensione di quell’episodio, resta il fatto che qui Gide ammette di essersi imbattuto in qualcosa di strano e di sfuggente, che elude le normali categorie mentali e culturali dell’uomo bianco e, in genere, dell’uomo "civilizzato": qualcosa che sembra rimandare indietro alla notte dei tempi, quando gli esseri umani erano dotati di poteri mentali e spirituali poi dimenticati, e credevano nella presenza effettiva di spiriti ed entità capaci di interferire concretamente con le loro vite, perfino di impadronirsi dei loro corpi e, nei casi più gravi, delle loro anime.

Quel che Gide ha visto è stata una cerimonia di esorcismo, condotta all’interno di una serie di danze estatiche, miranti a produrre la perdita dello stato di coscienza ordinaria e l’emergere delle entità diaboliche che si erano insinuate in alcuni membri della tribù. Il fatto che la cerimonia sia proseguita anche dopo la comparsa dello spettatore, importuno e non invitato (anche se a questi venne fatto capire, molto discretamente, che la sua presenza era di troppo), starebbe a indicare che non si trattava di riti segreti e che l’esorcismo non rischiava di venir compromesso da tale presenza. Inoltre, non sembra che l’esorcismo fosse praticato da sacerdoti specializzati, ma che facesse parte di una ritualità relativamente ordinaria, in tono minore. L’atmosfera di povertà culturale percepita da Gide può essere stata una sua impressione soggettiva, aggravata dalla constatazione che, nell’orizzonte di quelle popolazioni, non parevano esservi potenze favorevoli capaci di controbilanciare l’azione malefica del diavolo; in ogni caso, quel mescolare continuamente la descrizione dei fatti con un giudizio frettoloso e sommario su di essi, non depone a favore dell’attitudine "scientifica" che pure Gide vorrebbe assumere. Fin dall’inizio egli giudica che i negri "cantino malissimo", che danzino in maniera "confusa", e, per giunta, appare deluso che siano "solo una quarantina": eppure non si capisce in base a cosa egli formuli tali giudizi. Non conoscendo né la lingua, né l’esatta natura della cerimonia in questione, e non avendo accanto a sé nessuno che gliela possa spiegare, quel che vede è il solo involucro esterno: troppo poco davvero per sbilanciarsi in qualsiasi tipo di valutazione, anche solo di natura estetica (cosa lo avrebbe convinto che i danzatori stessero cantando bene, se non le sue aspettative melodiche di europeo colto?).

La ragazzina che si rotola per terra, poi giace sfinita, quasi senza vita, quindi venire esorcizzata, si rialza ancora due volte e cade di nuovo, nel corso della danza spossante, era davvero posseduta dal diavolo? E di quale diavolo si tratta? Del Diavolo cristiano, di cui, senza dubbio, hanno parlato a quegli indigeni i missionari cattolici? Oppure è una cattiva traduzione dalla parlata africana; o, ancora, è una arbitraria inferenza dello stesso Gide, per analogia, mentre si sarebbe trattato, per i diretti interessati, della presenza di "spiriti", ad esempio le anime defunte di persone malvagie, sobillante dagli stregoni e mandate a tormentare, per gelosia o invidia, le persone viventi? Impossibile dire: ne sappiamo troppo poco; Gide non ha reso un buon servizio neanche a se stesso…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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