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13 Gennaio 2016Ci voleva un osservatore particolarmente sottile e originale per cogliere gli elementi di analogia fra una delle poesie più sottilmente tenere e ambigue di Giovanni Pascoli, «Digitale purpurea», e il film, apparso come una rivelazione nelle sale cinematografiche, «Picnic a Hanging Rock» (1975), del regista australiano Peter Weir, non ancora famoso — lo sarebbe diventato con «Gli anni spezzati» (1981), «Il testimone» (1985), «L’attimo fuggente» (1989) e «The Truman Show» (1998) -, ma subito salutato come una grande promessa; film tratto, a sua volta, dall’omonimo romanzo della sua conterranea Johan Lindsay.
Esattamente settant’anni separano la pubblicazione delle due opere letterarie: la poesia apparve, nei «Nuovi poemetti», nel 1897; il romanzo della Lindsay, nel 1967, ma è ambientato nell’anno 1900, in un collegio femminile nell’entroterra di Melbourne, così come «Digitale purpurea» è ambientata in un collegio di suore isolato «in mezzo alla montagna»: in entrambi, dunque, campeggiano le giovanissime ragazze vestite di bianco, su uno sfondo verdeggiante di orti e di giardini e sotto un immenso cielo blu cobalto; solo, nel film, a un certo punto, la scena di sposta alle pendici di una montagna sacra agli aborigeni, la "Roccia Pendente", un enorme monolite coloro ocra rossiccia, che sembra protendersi in alto come un punto di domanda in attesa d’una rivelazione.
Busti, crinoline, guanti e cappellini; una splendida atmosfera alla Belle époque, solo attenuata, anzi, in certo qual modo resa più pungente, dalla rigida severità collegiale; e poi lo sbocciare timido dell’adolescenza, l’età dei sogni, del romanticismo, con l’attesa di una lettera, la ricorrenza della festa di San Valetino (nel romanzo), il ritorno alle camerate con il viso più rosso ed emozionato, dopo aver ricevuto una lieta visita , che spinge le ragazze a recitare con voce più squillante le funzioni domenicali (nella poesia).
In questa serie di quadri alla Renoir, en plen aire, con le note del pianoforte che si spargono da una finestra aperta e una fanciulla che si attarda sulla panchina a leggere "in un libro buono", incombe, però, un qualcosa di immane, di indicibile e, forse, di spaventoso, ma anche di ineffabilmente seducente: il fantasma dell’Eros, di cui ciascuna ha sentito parlare e, forse, letto qualcosa, ma che nessuna, ancora, ha realmente provato. Ed ecco che l’inesplicabile avviene, e irrompe come un vento di tempesta in quelle ore tranquille e in quei passatempi sereni. Nella poesia di Pascoli, l’oscura proibizione di avvicinarsi al fiore bellissimo, ma velenoso, che adombra la proibizione di cedere alle lusinghe dell’amore e del sesso, viene però infranta da una collegiale più audace o più dissoluta, la bruna Rachele, che adesso lo racconta, a tanti anni di distanza, alla bionda e ingenua Maria; nel romanzo della Lindsay (e nel film di Weir), tre ragazze ed una giovane insegnante scompaiono inesplicabilmente in cima alla Roccia Pendente, durante una piccola gita scolastica: una sola verrà ritrovata, incapace di ricordare, ma solo qualche giorno dopo; delle altre non si saprà mai più nulla, nonostante le assidue e minuziose ricerche subito avviate dalla polizia e della popolazione: come se le scomparse fossero state letteralmente risucchiate in un’altra dimensione, forse per una loro scelta, della quale non si sono più pentite…
Nell’un caso e nell’altro, è stato consumato un rito di passaggio: è stato varcato un confine invisibile, ma potente: qualcosa è accaduto, che ha radicalmente modificato la situazione iniziale. Ora le fanciulle scomparse, che, all’inizio della salita sulla roccia, si erano tolte le scarpe, appartengono a un altro mondo; e Rachele, dopo aver ceduto alla seduzione di quel fiore, cioè dell’Eros, ha contratto una grave malattia (qui le interpretazioni dei critici divergono), eppure non sembra pentita: ha scoperto che Eros e Thanatos sono due facce di un’unica medaglia, e che la dolcezza di una esperienza può esse talmente grande, da far "morire" colui che la vive. Sia il poeta italiano che la scrittrice australiana giocano molto sul non detto, oerfino troppo; alludono, suggeriscono, paiono portare in giro il lettore bendato, per farlo girare su se stesso, e poi lasciarlo a vagare a tastoni, senza più punti di riferimento. Dove siamo? Che cosa è successo? Perché le cose non sono più le stesse di prima, anche se, apparentemente, nulla si direbbe essere cambiato? Quale potenza misteriosa è entrata nel’anima di quelle fanciulle, e quale segreto si annida al fondo della loro esperienza, che nessuna lingua riuscirà a dire e nessun orecchio potrebbe udire?
Carlo Laurenzi, nato a Livorno nel 1920 e deceduto a Roma nel 2003, saggista estroso e geniale, dalla vena sensibilissima, è l’osservatore che ha colto tempestivamente queste segrete e affascinanti analogie, nel libro «Qualcuno ci sogna» (Milano, Rusconi Editore, 1978, pp. 207-210):
«… Il romanzo di Miss Lindsay ha il merito sostanziale d’essere stato tradotto in film da Peter Weir, australiano anche lui, anche lui praticamente ignoto; ma il suo film sembra splendere di una perfezione stilistica non lontana dall’assolutezza, come se Weir tendesse a comporre qualcosa di definitivi al pari di Mallarmé: il libro che abolisce i libri, il film che abolisce ogni film.
Mi auguro che Carlo L. Ragghianti veda "Picnic at Hanging Rock" e mi comunichi in una delle sue lettere dalla grafia minuta se il film di Peter Weir debba collocarsi ai vertici dell’arte della visione. Io, digiuno di critica specifica, temo di ricavare un’emozione appunto libresca e quindi abbagliata da questo racconto non-racconto, spoglio di qualsiasi naturalismo, dove imperano lucidamente il bianco, il verde, l’azzurro e su tutto una tinta bionda che partecipa dell’oro, del miele, del croco e del sole allo zenit. Gli avvenimenti non contano in se stessi, ma paiono preludere a un monito e racchiudere un senso segreto. Debbo ammettere inoltre che probabilmente non mi soffermerei su Peter Weir se la suggestione di "Picnic at Hanging Rock" non fosse riconducibile al più torbido e tenero poemetto di Giovanni Pascoli, "Digitale purpurea". Vedremo come i due "racconti" si rispecchino nei contenuti; in primo luogo cercherò di fissare le apparizioni rispettive, inanimate e tuttavia demoniache, emblemi di perdizione e lusinga. Nel film di Weir l’emblema è proprio "Hanging Rock" ovvero la Roccia Pendente: torrione di basalto che domina, su campi riarsi, l’orizzonte turchino. Per l’intero film la serenità compatta del cielo incornicia, con sgomento, la struttura fra dolomitica e (per così dire) antropomorfica dello sperone di pietra: la macchina da presa lo fissa tanto a lungo che la protuberanza della vetta finisce per simulare una fronte umana, e due cavità vuote orbite, e una ferita orizzontale e boscosa la bocca di un gigante. Un gigante; o sarebbe più comprensibile parlare dei colossi che s’innalzano nell’isola di Pasqua, policromi e inesplicati. Ma nulla deve spiegarsi a proposito di Roccia Pendente, nulla chiede di venire compreso. Se l’obiettivo si avvicina , scorgiamo arbusti, cespugli, imboccature di antri; la Roccia ha i suoi misteri, un lungo stormire di fronte per un vento inaudibile, un al di là. Iguane si annidano nei crepacci con occhi gialli e rotondi; corvi roteano nel blu, frusciano serpenti nell’erba.
In Pascoli, la visione ammaliatrice e insostenibile è una pianta: "una spiga di fiori, anzi di dita spruzzo late di sangue, dita umane. La descrizione "naturalistica", in quel naturalista poeta che fu Giovanni Pascoli, si ferma qui; però, per accenni successivi, apprendiamo che la pianta, la digitale purpurea, fruisce di una sua vita della quale spande "l’alito ignoto intorno a sé": che sorge solitaria al sommo di "molli terrapieni erbosi"; che infine (ecco i versi celebri) "il fiore ha come un miele / che inebria l’aria; un suo vapor che bagna / l’anima di un oblio dolce e crudele". La digitale purpurea assume in Pascoli il significato di un maleficio e di una lusinga, non dimentichiamo che si tratta di una pianta velenosa e bellissima. In me le indicazioni pascoliane sono completate, inestricabilmente compenetrate, con la memoria di una digitale purpurea vista quand’ero bambino assai prima che leggessi i "Poemetti": la pianta cresceva da un suolo arido sul ciglio del mare, mi parve altissima, le corolle della spiga brillavano di un’intensità violacea; ricordo lo stupore di quella presenza improvvisa e il profumo snervante. Quando nel poeta lessi "fiore di morte" finalmente detti un nome al mio fiore.
Le somiglianze fra i due racconti, dicevo, sono palesi. I "Primi poemetti" risalgono al 1897; Weir ambienta il suo film nell’anno 1900, in una regione australiana. Tanto in "Picnic at Hanging Rock" quanto in "Digitale purpurea" si parla di collegi femminili quasi fuori del mondo; il collegio pascoliano "in mezzo alla montagna cerulea", quello australiano nella brughiera, non lungi dalla roccia stregata. In Weir come in Pascoli le fanciulle vestite di bianco sbocciano con lo stesso "languido fermento" all’amore che sta per rivelarsi: sono chiassose nelle "sonanti camerate", o schive, "semplici di sguardi". Affetti di una delicatezza morbosa, ma pudicamente, affaticano i cuori. Una ragazza in Weir ha un nome biblico, Sara; un’altra, nel poemetto di Pascoli, si chiama Rachele. La natura selvaggia e incantata dei luoghi accresce passioni inesprimibili, finché il segno del male ambiguamente trionfa. Tre alunne dell’Appleyard College, le quali partecipano insieme con altre compagne al picnic, svaniscono oltre la soglia di una caverna della roccia; due di esse — Marion e Miranda, la più bionda, la più bella e carezzevole — non torneranno più, non si saprà più nulla di loro, mai. La terza, Irma, troverà scampo; ma da chi, da che cosa?
Quanto alla Rachele del Pascoli, il fiore solitario, contemplato come in sogno, l’ha vinta e perduta: il poeta è al tempo stesso ellittico (di un riserbo che direi verginale) ed effuso nell’alludere alla perdizione di Rachele, simile alla disobbedienza di Eva nel Paradiso Terrestre; una dolcezza nascosta arricchisce il peccato senza redimerlo. Supposi una volta che il peccato di Rachele adombrasse l’ammissione, forse la contrizione di una colpa del poeta medesimo, colpa le cui risonanze ci eludono ma sono infinite; nondimeno, dopo aver assistito al film di Weir, ho parlato a molti del poemetto "Digitale purpurea", e l’ipotesi che ormai nessuno legga Pascoli mi si fa più fondata.»
La Rachele pascoliana, dunque, è entrata anche lei in un "altrove" dal quale non si può ritornare; il confine che ha varcato, irrevocabilmente, non è soltanto quello della verginità, ma anche quello dello "stupore", dell’"incanto" fanciullesco: annusando e cogliendo il bellissimo fiore velenoso, ella ha lasciato per sempre alle sue spalle la puerizia, e si è inoltrata nell’età adulta; mentre Maria, che adesso la ascolta e la guarda con immenso stupore e quasi tremante per il turbamento, non l’ha mai fatto, ed è come se fosse rimasta bambina. Anche Miranda, la più bella e delicata delle fanciulle scomparse ad Hanging Rock, simile a una pittura di Botticelli, si volge e sembra che mandi un saluto a quelle che restano, al suo mondo di prima, per poi inoltrarsi, leggera ma risoluta, lungo le pendici rocciose. Una battaglia silenziosa, ma struggente, si combatte fra la natura e la cultura, fra il mondo della "civiltà" e quello degli istinti, fra il Super-io e l’Inconscio; e, in entrambi i casi, a vincere sono la natura, l’istinto e l’inconscio: a caro prezzo, però. Non è una vittoria indolore; l’anima ne resta come lacerata; tanto è vero che una delle tre fanciulle scomparse, Irma, verrà ritrovata, senza scarpe e con i piedi puliti, ma assolutamente incapace di ricordare quel che è accaduto: vi sono cose che la mente non è capace di registrare, né la voce di esprimere, tanto eccedono le nostre facoltà di accoglierle, di comprenderle, di inserirle nel quadro complessivo, ordinato e coerente della nostra coscienza.
Sia Rachele che le ragazze scomparse sulla Hanging Rock, dunque, hanno varcato la loro personale Linea d’Ombra («The Shadow Line», per dirla col titolo del romanzo di Joseph Conrad): hanno fatto una di quelle esperienze dalle quali non si torna più indietro e, nello stesso tempo, non si rimane più quelli di prima: si diventa altri; si muore alla precedente condizione e si rinasce ad una nuova, completamente diversa. Appunto, come avviene nei riti di passaggio. La Linea d’Ombra, perciò, fa paura, essendo chiaro il suo carattere d’irreversibilità, e oltre che d’incomunicabilità. Non ci saranno parole per dire una simile esperienza; e, del resto, non ci sarebbero neppure ascoltatori in grado di comprenderle. Perché attraversare la Linea d’Ombra significa fare un’esperienza decisiva, ma assolutamente personale e irripetibile. Irma, a quanto pare, non era pronta: e le è rimasta una immensa nostalgia, al punto che non tollera più di venire interrogata su quell’argomento. Forse ripensa alle compagne perdute, o si duole di non essere rimasta insieme a loro? Quel che sapeva, ora non lo sa più: ha avuto paura — ma di che cosa? -, ed è tornata indietro, turbata, sui suoi passi…
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