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È arbitraria l’equivalenza dei moderni fra autocrazia medievale, arbitrio e dispotismo

Noi moderni abbiamo la tendenza a giudicare l’universo mondo secondo le nostre categorie politiche, intellettuali, morali; e a questa ingenua e presuntuosa tendenza non si sottraggono, spesso, neppure gli specialisti delle diverse discipline, a cominciare dalla storia, allorché si accingono a ricostruire le vicende umane del passato.

Ora, poiché in cima alla cultura politica moderna vi è il concetto di democrazia, anzi, la profonda convinzione che nessun sistema politico possa essere definito buono, e nemmeno decente, se non è ispirato ai criteri democratici, ne consegue una rozza e grossolana incomprensione di tutta la politica delle epoche pre-moderne, a cominciare da quella a noi più vicina, ossia l’età medievale. Il Medioevo è dominato dall’istituto monarchico, tanto nella sfera profana che in quella sacra (di competenza, quest’ultima, della Chiesa cattolica), e più precisamente dalla monarchia assoluta per diritto divino. Il cittadino moderno – e, non di rado, anche lo storico – tende a fare una indebita equivalenza fra assolutismo, autocrazia, arbitrio e dispotismo, come se dall’una di queste cose si passasse, necessariamente, alle altre, senza alcuna differenza sostanziale fra di loro. Ma si tratta di una operazione mentale assolutamente gratuita e infondata.

Per la cultura e per la mentalità medievali, il sovrano era assoluto, nel senso che era giuridicamente e politicamente "irresponsabile" dei suoi atti, ossia non poteva essere giudicato da alcuno e nessuno era al di sopra di lui, anzi, egli era al di sopra della legge. Tuttavia "al di sopra" non significava affatto essere anche "al di fuori": il monarca assoluto era, sì, al di sopra della legge, ma questa si esercitava all’interno di un codice non scritto che rispondeva, da un lato, al principio dell’autorità divina, dall’altro al diritto consuetudinario comune. Perciò il sovrano era assoluto, ma il suo potere non era arbitrario, e, tanto meno, dispotico: un sovrano assoluto è un autocrate, ma non un despota, perché il despota può agire anche in maniera arbitraria nei confronti dei suoi sudditi; il re assoluto, invece, no.

Né si deve immaginare che i limiti al potere arbitrario del re fossero di natura puramente religiosa e morale; al contrario: essi erano anche di natura giuridica e politica. I Parlamenti e gli altri corpi intermedi avevano appunto la facoltà di opporsi a delle decisioni e a delle iniziative reali che andassero, eventualmente, contro la legge di Dio o contro la legge naturale, identificata sovente con il diritto consuetudinario; e la loro resistenza era perfettamente legittima, cioè prevista dalle leggi e dalla prassi di governo. Il re, a quel punto, poteva anche insistere nel far valere la propria volontà, dal momento che tutti i corpi intermedi avevano pur sempre valore consultivo e non decisionale; ma assumendosi la responsabilità di violare quel codice non scritto che separava il suo potere assoluto, appunto, dal dispotismo: cosa che ne avrebbe fatto, automaticamente, non più un sovrano legittimo, o, quanto meno, non più un sovrano che esercitasse il proprio potere con mezzi legittimi. E assumersi quella responsabilità significava, appunto, uscire dalla sfera della "irresponsabilità", che era il principale privilegio connesso al suo potere autocratico.

Per esempio, il rifiuto di Thomas More di assecondare le azioni politiche illegittime del suo re, Enrico VIII, testimonia quanto fosse radicato un simile concetto nella mentalità medievale; e il fatto che, alla fine, Thomas More venne giustiziato e re Enrico, apparentemente, trionfò di ogni opposizione, va letto nel senso che il Medioevo era ormai finito e che, con l’avvento dello Stato moderno, basato sui principi di Machiavelli e sul brutale perseguimento del potere, con qualsiasi mezzo, legittimo o no, stava incominciando un’era nuova, che si poneva in discontinuità con tutta la tradizione precedente. Ben diversa era stata la situazione allorché i cavalieri di Enrico II, volendo esaudire un desiderio del loro sovrano, avevano assassinato Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury: Enrico dovette subire l’interdetto del suo regno e chiedere l’assoluzione alla Chiesa cattolica, perché l’azione di quegli uomini era andata sia contro la legge religiosa che contro quella naturale, e così era stato sentito anche dai suoi sudditi, oltre che da moltissimi uomini viventi al di fuori del regno inglese.

Parole piene di buon senso sono state scritte, a questo proposito, dallo storico americano Charles Howard McIllwain (nato nel 1871 e morto nel 1968) nel suo eccellente saggio «Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo» (titolo originale: «The Growth of Political Tought in the West», New York, MacMillan Company, 1932; traduzione a cura di Giovanni Ferrara, Venezia, Neri Pozza Editore, 1959, pp.443-445):

«… Applicando al Medioevo le nozioni moderne, ci accade di credere che quando un pubblicista del tredicesimo secolo, come Bracton, dichiarava che il Re è "sotto la legge", pensasse ad un sovrano costituzionale del tipo moderno. Per re costituzionale noi intendiamo un re il cui potere, se non addirittura la persona, è controllato da altri strumenti e organi dello stato, un re che può esser costretto a render conto dei suoi atti di governo attraverso la "responsabilità" sua o dei suoi incaricati, associati con lui nella loro attività. Un re irresponsabile noi lo consideriamo "assoluto": e tale è, e tale nel Medioevo si pensava che fosse. I re medievali erano effettivamente sia irresponsabili che assoluti, e assoluti perché irresponsabili. Ma il Medioevo faceva delle distinzioni che noi abbiamo smarrite o ignorate: il potere di un re era "assoluto" e praticamente irresponsabile, ma non era arbitrario. Il re medievale era "de jure" un autocrate, ma non un despota, e se egli abusava del suo legittimo potere poteva diventare un tiranno, qualcosa di diverso, cioè, sia da un autocrate che da un despota. "Ciò che il re ha voluto ha forza di legge" soltanto quando quella volontà è espressa in un modo particolar e per certi scopi. Secondo l’usuale espressione di queste limitazioni, il re è vincolato dalla legge di Dio e dalla legge di natura, e talvolta quest’ultima era considerata identica col "diritto comune" consuetudinario del paese. "La consuetudine è una sorta di altra NATURA", asseriva Egidio Romano nel tredicesimo secolo, e nel Medioevo generalmente si tendeva ad identificare il diritto di natura con l’antico costume — proprio come alcuni giuristi romani lo avevano secoli prima identificato con lo "jus gentium", come S. Germano nel sesto secolo lo aveva identificato con la "legge di ragione", o sir Edoardo Coke nel diciassettesimo con "la perfezione della ragione", personificata dall’antico diritto comune inglese, principio che lord Camden, alla fine del diciottesimo secolo, dichiarava "innestato" nella costituzione inglese. "La consuetudine è il diritto comune di coloro che la usano" affermava Piero Grégoire nel 1752; e ancora nel 1628 sir John Davis poteva dire: "Pertanto, come il DIRITTO di natura, che i dotti chiamano ‘jus commune’ e che è anche ‘ius non scriptum’, essendo scritto soltanto nel cuore degli uomini, è migliore di tutte le leggi scritte del mondo per far gli uomini onesti e felici in questa vita, se essi volessero osservarne le leggi, così il DIRITTO CONSUETUDINARIO inglese, che noi similmente chiamiamo ‘ius commune’, come quello che più si avvicina al diritto di natura, radice e pietra di paragone di tutte le leggi buone, e che è anche ‘jus non scriptum’, scritto soltanto nella memoria dell’uomo… eccelle di molto sulle nostre leggi scritte, e cioè i nostri Statuti ed atti del Parlamento".

Quando un re medievale ha giurati di considerare fuori della propria competenza il creare o ledere questo diritto, e quando effettivamente si comporta così nella sua amministrazione, noi, per il nostro moderno concetto di "sanzione", facilmente siamo indotti a credere che ciò significasse soltanto un auto-controllo imposto a se stesso dal re: ma gli uomini del Medioevo non la pensavano così.

Una delle migliori prove che queste limitazioni erano considerate — ed erano fino a un certo punto realmente — legali ed effettive, non puramente "morali", veramente coercitive e non semplicemente una "briglia" che il re imponeva a se stesso con l’astenersi volontariamente da atti che avrebbe potuti legalmente compiere, è il fatto che la sanzione di queste limitazioni non consisteva soltanto in una "ribellione legalizzata", ma spesso faceva parte fino a un certo punto dei poteri dei funzionari dello stato, ed era da essi effettivamente esercitata in casi in cui fossero convinti che il potere "assoluto" del re nell’amministrazione aveva superato i suoi limiti e ledeva il diritto consuetudinario del popolo. Ciò naturalmente appariva chiaramente soprattutto nel controllo sugli atti legislativi del re, esercitato in effetti da quei funzionari o organi, la cui partecipazione fosse una parte regolare e necessaria nelle formalità della promulgazione. A questo modo la monarchia era più o meno frenata "legando gli istrumenti attraverso i quali doveva agire" (Sir Roger Twysden). In Inghilterra, ad esempio, questo legame fu in ultima analisi introdotto col requisito richiesto per tutti gli statuti, di essere fatti dal re con la cooperazione dei Lords e dei Comuni. In Francia, abbiamo numerosi esempi del’efficacia pratica di questi freni, nel rifiuto del Parlamento di Parigi e di altri ‘Parlements" del reame di registrare le ordinanze del re. Si riteneva che senza registrazione nessuna ordinanza reale fosse vincolante…»

Per capire non soltanto il Medioevo, ma tutte le società diverse dalla nostra, sia nel tempo che nello spazio, dovremmo fare uno sforzo per liberarci dalla tendenza a giudicare tutto e tutti secondo le nostre categorie mentali, basate, a loro volta, sulla presunzione che la modernità sia un valore auto-evidente, superiore a qualsiasi altro; pregiudizio che ancora spinge l’opinione pubblica dei Paesi occidentali a prendere per moneta buona, ad esempio, la volontà dei propri governi, e segnatamente di quello statunitense, di esportare la democrazia ed il libero mercato in ogni parte del mondo, con le buone o con le cattive maniere, dando assolutamente per scontato che non vi sia, né vi possa essere, nulla di meglio, per tutti i popoli e le nazioni della terra, che entrare far parte di tale sistema politico-economico globale.

Dopo avere abbattuto, nel 1918, le ultime autocrazie esistenti in Europa e nell’area più vicina ad essa — l’autocrazia germanica, quella austro-ungarica e quella ottomana, mentre quella zarista era già stata abbattuta, l’anno prima, dall’interno — le nazioni democratiche, capeggiate, in tale moderna crociata, dagli Stati Uniti d’America, hanno sferrato una seconda offensiva contro i totalitarismi da esse germinati — fascismo, nazismo e comunismo -, offensiva che si è conclusa verso la fine del XX secolo, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia e con la guerra di aggressione ai danni della Serbia. A queste due prime crociate ne è seguita una terza, tuttora in corso, contro i regimi dittatoriali del mondo islamico, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, intrecciata inestricabilmente con la guerra al terrorismo internazionale, a sua volta misteriosamente legato, per mille fili e per mille fonti di finanziamento, con gli stessi servizi segreti occidentali e con molti governi apparentemente amici dell’Occidente e apparentemente "rispettabili", anche se non proprio democratici, come quelli del Kuwait, dell’Arabia Saudita, del Qatar e della stessa Turchia del presidente Erdogan, non si sa come candidata addirittura ad entrare nell’Unione europea (un capitolo a parte riguarda poi le connessioni di quella crociata con i servizi segreti israeliani e con gli interessi oggettivi dello Stato d’Israele).

Eppure, così come l’autocrazia medievale non era sinonimo di dispotismo, e meno ancora lo erano le moderne "autocrazie" crollate con la Prima guerra mondiale (ma forse sarebbe più esatto dire: assassinate, dal momento che, specialmente per l’Austria-Ungheria, vi fu un preciso disegno distruttivo da parte delle potenze occidentali, che sfruttarono il nazionalismo esasperato di ristrette élites politiche dei popoli della Duplice monarchia), i totalitarismi e gli estremismi sorti da esse, anche in altre parti del mondo – ed è nota la filiazione dei regimi nazionalisti arabi dal fascismo e dal nazismo — dovrebbe ammonire che non si possono abbattere dei sistemi politici e sociali esistenti da secoli, senza che i rispettivi popoli abbiano elaborato, da se stessi, delle forme di governo mature, capaci di sostituirli.

Il re medievale aveva dei freni all’esercizio indiscriminato del potere: la legge di Dio, personificata dai papi e dalla Chiesa, e la legge naturale, imperniata sul diritto consuetudinario. Ciò lo tratteneva dal degenerare nel potere arbitrario e dal trasformarsi in un despota. Chi o che cosa trattiene i moderni governi democratici dalla dismisura di un potere assoluto, pervaso dallo spirito di crociata?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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