Il “diritto cosmopolitico” di Kant è alla radice del buonismo suicida pro-immigrazione
28 Dicembre 2015
1914: l’invasione russa della Prussia Orientale suona la campana a morto per l’Europa
29 Dicembre 2015
Il “diritto cosmopolitico” di Kant è alla radice del buonismo suicida pro-immigrazione
28 Dicembre 2015
1914: l’invasione russa della Prussia Orientale suona la campana a morto per l’Europa
29 Dicembre 2015
Mostra tutto

Per poter indicare il Bene, lo scrittore deve essere credibile

«Quelli che odiano la vita, costituiscono una minoranza limitata che però, come tutte le minoranze, si fa sentire più della maggioranza… [Un tempo] era normale che la comunità reagisse con orrore ai fatti che la ferivano, mentre ora sembra che la crudeltà sia diventata il nostro pane quotidiano. […] Bisogna proteggere l’innocenza, perché possa vivere in pace e nel bene.» Queste frasi non sono state dette o scritte da un religioso, da un teologo o da un mistico, ma dalla "regina" del genere poliziesco, che di delitti e di assassini se ne intendeva, anche se solo attraverso la finzione letteraria: la scrittrice (in inglese: crime novelist) Agatha Christie, nata a Torquay nel 1890 e morta a Wallingford nel 1976, dalla cui penna sono usciti piccoli capolavori del genere, come «Assassinio sull’Orient-Express» del 1934, «Dieci piccoli indiani» del 1939, e «Assassinio allo specchio» del 1962, dai quali sono state tratte delle famose versioni cinematografiche.

Una scrittrice di delitti che riflette sul delitto, sul Male con la "m" maiuscola, e su quale sia la missione dello scrittore, perfino dello scrittore di romanzi polizieschi, nei quali il delitto è un ingrediente necessario: non si può dire che il suo punto di vista non sia interessante, visto che è particolarmente qualificato. Ebbene, per Agatha Christie lo scopo dei romanzi polizieschi è di mostrare come il delitto venga smascherato, e il colpevole assicurato alla giustizia. Le vittime devono essere vendicate e l’innocenza deve essere protetta: questa è la sua posizione. Ella prova sconcerto e disgusto all’idea che il lettore possa parteggiare per l’assassino, e non capisce come si possano scrivere romanzi nei quali la violenza più cieca appare fine a se stessa, ossia nei quali essa serve soltanto a stimolare gli istinti morbosi, sadici e masochisti del pubblico.

La sua è l’opinione di una distinta signora inglese che scrive nell’arco di tempo a cavallo della Seconda guerra mondiale, ma la cui formazione umana, intellettuale e morale è avvenuta negli anni della Belle époque: un misto di razionalismo positivista e di rigorismo puritano. Non vede il lato oscuro delle cose; la psicanalisi non fa molta presa su di lei; e così l’introspezione, il flusso di coscienza, il monologo interiore e tutti i complessi problemi, di forma e di contenuto, che travagliano gli anni del modernismo, di Virginia Woolf e di James Joyce, di T. S. Eliot e di Ezra Pound: anni nei quali l’Europa smarrisce definitivamente se stessa e diventa esule in casa propria, sradicata, alienata, sempre più angosciata. È una signora che scrive in maniera quasi ottocentesca, in pieno XX secolo; una scrupolosa artigiana della penna che conosce i suoi limiti, ma che non ha rivali nel suo specifico campo dazione: serena, metodica, paziente, indistruttibile, procede per la sua strada, quasi ignara dell’Ombra. Le sue storie di delitti ignorano quasi del tutto il risvolto psicologico e sono costruite prevalentemente sulla dimensione esteriore, materiale, quantificabile e misurabile: quella che tutti possono vedere, come un orologio che venga metodicamente smontato e rimontato da un bravissimo orologiaio. Per lei non c’è mistero; o, se lo sfiora — il mistero del Male, ad esempio — se ne ritrae senza averlo compreso, anzi, senza aver mostrato di vederlo.

Le sue idee circa la delinquenza sono di una linearità addirittura manichea, tanto appaiono semplici e senza sfumature: l’assassino è un individuo violento, asociale, pericolosissimo, che turba l’ordine costituito e mette in pericolo l’innocenza; si può provarne pietà, ma non bisogna averne alcuna indulgenza. In breve, ella propone la pena di morte; o, in alternativa, che si dia al delinquente la possibilità di rendersi utile alla società, offrendosi come cavia umana per gli esperimenti scientifici (anche Axel Munthe la pensava così). Se sopravvivrà, avrà pagato il suo debito e potrà tornare a vivere in mezzo agli uomini, avendo compreso il valore della vita, dopo averlo calpestato.

Così ella scrive, nella sua voluminosa autobiografia («La mia vita»; titolo originale: «An Autobiography», Agatha Christie Limited, 1977; traduzione dall’inglese di Maria Giulia Castagnone, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1978, pp. 459-450):

«Quando cominciai a scrivere dei romanzi polizieschi non mi ponevo il problema di criticarli o di pensare seriamente al crimine. Per me un romanzo poliziesco era la storia di una caccia, e questa storia aveva una morale, che si esprimeva nella sconfitta del Male e nel trionfo del Bene. A quel tempo, eravamo durante la prima guerra mondiale,chi commetteva un delitto non era un eroe; il criminal era malvagio, l’eroe buono, tutto qui. Non si era ancora cominciato a sguazzare nella psicologia. Anch’io come tutti quelli che scrivevano libri o li leggevano parteggiavo per la vittima innocente CONTRO il criminale.

L’unica eccezione era costituita dal popolare Raffles [si riferisce a «Raffles, il ladro gentiluomo» dello scrittore Ernest William Hornung, 1866-1921], giocatore di cricket famoso per le sue spacconate e dal suo conigliesco socio Bunny. Ma neanche Raffles mi ha mai trovata molto consenziente, anche se le sue gesta alla Robin Hood avevano le loro radici nella tradizione e se in lui il Male si nascondeva sotto una vivacità monellesca. Nessuno si sarebbe mai sognato di pensare che un giorno i gialli sarebbero stati letti per il loro contenuto di violenza, e per il compiacimento sadico di una brutalità fine a se stessa. Allora era normale che la comunità reagisse con orrore ai fatti che la ferivano, mentre ora sembra che la crudeltà sia diventata il nostro pane quotidiano. La cosa non manca di stupirmi soprattutto se si pensa che la maggior pare della gente che si conosce, giovani e vecchi indifferentemente, è gentile e servizievole, aiuta volentieri le persone anziane e cerca di rendersi utile. Quelli che odiano la vita, costituiscono una minoranza limitata che però, come tutte le minoranze, si fa sentire più della maggioranza.

Chi scrive dei gialli, finisce per interessarsi allo studio della criminologia. A me interessano molto i libri scritti da chi è stato a contatto con dei criminali, soprattutto se si tratta di persone che, per dirla con un termine in uso ai vecchi tempi e ora sostituito da altri ben più importanti, hanno cercato di "riformarli". In realtà, sono in molti a dire, come Riccardo III di Shakespeare: "Male tu sarai il mio Bene". Hanno scelto il male, come il Satana di Milton, che aspirava alla grandezza, al potere, e voleva diventar come Dio. Non c’era amore in lui, né umiltà e io so, dall’osservazione quotidiana della mia vita, dove non c’è umiltà, c’è la ROVINA.

Uno degli aspetti positivi che si offrono allo scrittore di gialli è l’ampia scelta tra i vari generi: il thriller leggero, particolarmente piacevole da scrivere, il romanzo poliziesco più impegnato, dalla vicenda complessa, interessante sul piano tecnico e molto laborioso, che alla fine ci riempie di soddisfazione, e infine quello in cui il tema portante è la difesa appassionata dell’innocenza. Perché è QUESTA che conta e non la COLPA.

Personalmente, posso astenermi dal giudicare gli assassini ma penso che danneggino profondamente la comunità; non portano altro che odio e vi attingono tutto quello che possono. Sono pronta a credere che siano così per natura, che siano nati con una menomazione per cui dovremmo compatirli, ma non mi sento per questo di tollerare che restino impuniti. Sarebbe come permettere a un uomo di uscire da un villaggio colpito dalla peste per mescolarsi con i bambini sani del villaggio vicino. Bisogna proteggere l’innocenza, perché possa vivere in pace e nel bene.

Mi sgomenta il fatto che nessuno sembra preoccuparsi degli innocenti. Nessuno prova raccapriccio all’idea che una fragile vecchietta, in una tabaccheria, venga massacrata di botte da un giovane delinquente per cui si è girata a prendere le sigarette. Nessuno sembra chiedersi quale sarà stato il suo terrore e quale dolore avrà provato prima di piombare in una misericordiosa incoscienza., Tutti commiserano l’assassino, perché è giovane, e nessuno pensa al supplizio della VITTIMA.»

Difendere l’innocenza è un principio sacrosanto, e questa pagina di prosa ci richiama alla responsabilità dello scrittore: egli deve porsi al servizio dell’innocenza e del bene, perché gli uomini possano guardare alla vita con fiducia; cosa che risulterebbe difficile, se il delitto rimanesse impunito (si pensi al dramma interiore irrisolto di Giovanni Pascoli, dopo l’uccisione del padre, rimasta senza un colpevole). Quel che lascia perplessi, nel discorso della signora Christie, non è tanto la brutalità e la sciatteria della conclusione (pena di morte o auto-degradazione del colpevole a cavia vivente per gli esperimenti), quanto il fatto che ella non veda il legame necessario che esiste fra la sua letteratura e quella poliziesca moderna, dove la violenza è fine a se stessa e lo scrittore stringe con il suo pubblico un patto scellerato, basato sullo sfruttamento emotivo delle zone più basse e malsane dell’anima umana, dove ci si diletta di immaginare le atrocità che non si avrà mai il coraggio di compiere. In particolare, pare che ella non veda che la differenza fra lei e gli scrittori più recenti del genere, tanto più cinici, e nei quali non vi è il trionfo finale del bene, o, se pure vi è, viene neutralizzato da un malsano compiacimento nella rappresentazione sadica ed estremamente minuziosa del delitto, naturalmente a sfondo sessuale, non è veramente di sostanza, ma, più che altro, di forma: pensiamo ai romanzi polizieschi, oggi chiamati thriller, sempre — guarda caso – al femminile, di una Patricia Cornwell, di una Lynda La Plante o anche a quelli "rosa" di una Pat Booth, la quale, pur non avendo praticato il genere "giallo", ha mostrato sin troppa dimestichezza con le descrizioni orripilanti di delitti, su sfondi di degenerazione sessuale.

Per Agatha Christie, il Bene deve trionfare e il Male esser punito: ma questa non è la sostanza dei suoi romanzi, è solo un proclama di buone intenzioni. Di fatto, il compiacimento del delitto c’è anche nei suoi libri, con la sola differenza del mutato contesto sociologico e culturale: negli anni ’30 del XX secolo non era ancora di moda ammiccare sfacciatamente ai gusti macabri del pubblico, bisognava salvare le apparenze e rispettare la "sana" morale corrente; ma di sano, a ben guardare, non c’è molto nei personaggi di Agatha Christie, se non, appunto, le buone intenzioni. Hercule Poirot, il suo eroe positivo, è un uomo leccato, metodico, tenace, ma con qualcosa di ambiguo e sfuggente, perfino con una tinta d’inversione, o, quanto meno, l’apparenza di essa. Miss Marple, la sua versione femminile, è una vecchietta ficcanaso, che osserva tutto e s’impiccia di tutto, divorata da una curiosità patologica, anche se dissimulata dietro una robusta rispettabilità borghese. Poirot e Miss Marple sono entrambi proiezioni della loro autrice, che porta in se stessa — a quanto pare, senza averne una chiara consapevolezza — non solo la malattia del secolo, la letteratura, dato che la sua vera vita si svolge fra le pagine dei suoi libri piuttosto che nella dimensione reale (come per Emma Bovary), ma anche quella di sempre: l’attaccamento alle cose, al successo, al denaro (un esempio fra tutti: dopo aver divorziato ed essersi risposata, la Christie conservò il cognome del primo marito per ragioni squisitamente commerciali). Insomma, la "regina del giallo" è una figlia del suo tempo: e, come tale, una persona malata che si crede sana; e nel suo credersi sana in un mondo di pazzi sta il segno più sicuro del suo disagio e della sua lacerazione intima.

Eppure, Agatha Christie ha perfettamente ragione: il compito degli intellettuali non deve essere quello di aumentare il disorientamento e la confusione della società moderna, ma, al contrario, quello di indicare la via del bene, cosa che comprende la punizione della malvagità e la difesa della virtù. Il guaio è che, per riuscire credibile, lo scrittore non può vestire dei panni che non gli appartengono; per poter denunciare il Male ed esaltare il Bene, bisogna essere abbastanza forti da saper attraversare i regni infernali senza restarne contaminati. Nietzsche diceva che ciò è difficile: il prezzo che si paga per aver guardato troppo a lungo nell’abisso, è che l’abisso finisca per guardare dentro di noi. Lo scrittore di romanzi polizieschi vive aggirandosi nelle sentine dell’anima umana, dominate da passioni vergognose: ira, gelosia, superbia, invidia, odio, desiderio di vendetta, il tutto portato fino al delitto più efferato e, quasi sempre, freddamente voluto, calcolato e pianificato, ciò che lo rende particolarmente disumano. Per lo scrittore di "gialli" vale, insomma, la stessa considerazione che si può fare per quello del genere "horror": che appare poco credibile quando condanna il male (se pure lo fa), perché tutta la sua opera non è che una variazione sul tema. Non basta un finale ispirato a giustizia, nel quale il cattivo riceva la meritata punizione, per riscattare la negatività insita in questo genere letterario. Per poter ispirare ai lettori il senso del bene, pur narrando delitti che grondano sangue, bisogna che lo scrittore possieda delle qualità intellettuali e morali veramente eccezionali: e non è il caso della Christie, meno ancora delle altre su ricordate). Lo stesso vale per la letteratura gotica: neppure un Edgar Allan Poe ha evitato la contraddizione; solo un genio come Joseph Sheridan Le Fanu ne è stato capace: ed è un caso più unico che raro…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.