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È finito il tempo dello Stato-nazione?

Il tempo dello Stato-nazione è finito irrevocabilmente? Ed è un bene o un male? Se è un bene, con che cosa lo si vuole sostituire? Se è un male, esiste una via per ricostruirlo?

Fra coloro i quali si sono posti il primo di questi interrogativi, vi è l’economista Serge Latouche, il massimo esponente, a livello europeo e mondiale, dei movimenti che fanno capo al concetto e alla pratica della cosiddetta "decrescita" (più o meno felice). Nato a Vannes, in Bretagna, classe 1940, presiede l’associazione "La ligne d’horizon" ed è stato professore di Scienze economiche all’Università di Parigi XI, nonché dell’Istituto per gli studi sullo sviluppo economico e sociale (I.E.D.E.S.), la cui sede è sempre a Parigi. La sua vasta produzione saggistica rappresenta un punto di riferimento sia (soprattutto) per la sinistra ecologista e ambientalista dei vari Paesi europei (in Italia, per il Movimento per la decrescita felice, fondato dal romano Maurizio Pallante, classe 1947), sia (anche, ma in misura assai minore) per taluni settori della "nuova destra" che contestano anch’essi – ma, ovviamente da un’altra prospettiva – l’occidentalizzazione del mondo e la globalizzazione, che sono al centro della critica di Latouche.

Ha scritto l’economista francese nel suo libro «Immaginare il nuovo» (con Antonio Torrenzano, Torino, Harmattan Italia, 2000, pp. 32-34):

«Realizzandosi, l’economia mondiale scalza le basi della "nazionalità economica". Per capire come le multinazionali distruggano il riferimento territoriale dello Stato-nazione, bisogna precisare il senso stesso di "nazionalità economica". La sovranità dell’economia, aspirazione chiave degli Stati-nazione, è una metafora senza contenuti rigorosi. Il concetto di nazionalità economica, invece, può essere costruito in modo coerente e trova la sua pertinenza nell’analisi storica; esso appare legato alla crescita e allo sviluppo. Più solido dell’idea d’indipendenza, tale concetto mantiene comunque un’origine metaforica, poiché nei due casi si cerca di trasporre sul piano economico attributi tipici del livello politico, in particolare, la sovranità, il cui contenuto centrale è proprio l’indipendenza. Da Jean Bodin, i giuristi francesi considerano che uno Stato, assoggettato da un altro, non possiede nemmeno dominio sovrano nel suo interno e non è dunque indipendente. La concezione di uno Stato-nazione "padrone in casa sua" costituisce uno degli attributi immaginari della nazionalità economica. Uno Stato o una nazione vassallo sul fronte economico sarebbe allora un’entità non più autonoma né internamente né esternamente. In effetti, non è così, a meno che vi sia una statalizzazione assoluta dell’economia o si instauri un sistema totalitario. Lo Stato-nazione non ha (e non può avere) la "summa potestas" dell’economia. Anche nel caso dei Pesi dell’est, la sovranità economica era ampiamente mitica. Nel terzo mondo, la volontà di conquistarla ha spesso condotto alla statalizzazione, con risultati derisori.

Il motivo è facile da comprendere.

L’assoggettamento degli agenti coinciderebbe sul piano economico, con la negazione della società civile. Non disponendo della sovranità interna, lo Stato non ha nemmeno quella esterna. Pur senza essere sottomesso al potere economico di un altro, il che sarebbe contraddittorio, lo Stato non domina sulle forze economiche private e, a fortiori, transnazionali o apolidi La nazionalità economica è una circostanza storica, non un’elaborazione giuridica suscettibile di permanere o di essere trasposta artificialmente.

L’"ardente obbligo", per gli agenti presenti sul territorio, di compiere il disegno dello Stato-nazione […] si è rivelato un pio voto, la nazione non si riduce all’economia pubblica. Le logiche dello Stato, del politico, del capitale, e del mercato di norma non coincidono. Il senso civico degli agenti economici, non trascurabile, può rigirare la logica del profitto, così come le incitazioni e i regolamenti governativi possono piegare il gioco economico a favore dell’interesse nazionale. Ciò nonostante, la fusione e l’armonia dei due interessi non sono naturali. Solo in un contesto storico peculiare e i due termini di nazione ed economia coesistono in modo sensato ed hanno pertinenza.

La nazione economica, che il caso ha generato in Occidente prima del 1970, non ha mai corrisposto, in realtà, ad uno Stato-nazione economico.»

Lo Stato-nazione che è "padrone in casa sua", evidentemente, non esiste più. Dall’alto, la sua sovranità è stata limitata da una serie di trattati internazionali miranti a immetterlo in un tessuto politico e giuridico molto più ampio, sia di carattere mondiale (le Nazioni Unite e gli organismi che ne sono altrettante emanazioni, come l’U.N.E.S.C.O., la F.A.O. e l’O.M.S.); dal basso, essa viene erosa dalla torrenziale immigrazione/invasione da parte di masse di milioni e milioni di "profughi" e di "richiedenti asilo", la maggior parte dei quali non sono profughi e non avrebbero i requisiti per richiedere l’asilo; ma, se anche li avessero, il peso stesso del loro numero renderebbero obsolete le vigenti normative in fatto di accoglienza di persone in fuga da gravi pericoli nel loro Paese di origine, perché è chiaro che esse (ad esempio la Convenzione di Dublino) sono stare pensate e sottoscritte in funzione di singoli casi e non d’intere popolazioni.

La sovranità dello Stato nazione si esplica fondamentalmente in tre ambiti: giuridico, monetario e politico.

Perché vi sia la sovranità giuridica, bisogna che lo Stato abbia competenza giurisdizionale esclusiva su tutti gli individui residenti sul suo territorio (ad eccezione di coloro i quali godono della immunità diplomatica o che sono protetti da appositi accordi con gli Stati di cui sono cittadini: ad esempio, nel nostro caso, il personale delle basi militari straniere). Il che significa che lo Stato deve disporre di un territorio, e che possa e voglia far rispettare le proprie leggi da tutti coloro che vivono su di esso, all’ombra della sua bandiera, sia che si tratti di cittadini, sia che si tratti di residenti stranieri. Non sono ammesse eccezioni: pertanto, se i confini del territorio, in un modo o nell’altro, vengono, in pratica, a cadere, anche una delle tre attribuzioni fondamentali della sovranità viene automaticamente compromessa.

Ora, i confini possono essere "sospesi" con dei trattati di libera circolazione (vedi gli Accordi di Schengen), valevoli per i cittadini appartenenti ad una comunità di Stati, ma non a chiunque, incondizionatamente: perché, se così fosse, il confine perderebbe la sua ragion d’essere e, con ciò, decadrebbe ipso facto anche la sovranità. Ora, l’attraversamento quotidiano delle frontiere terrestri e marittime dell’Unione europea, da parte di masse crescenti di cittadini non appartenenti ad essa, e l’abolizione del reato di "immigrazione clandestina", in pratica hanno tolto significato all’esistenza dei confini nazionali, ridotti a fungere da punti di transito, di accoglienza, di ristoro, di soccorso, e, teoricamente, di identificazione e di verifica dei requisiti per il riconoscimento al diritto d’asilo. In pratica, solo una parte delle moltissime persone che varcano i confini si sottopongono alla trafila legale, e anche molti di quelli che lo fanno si servono d’innumerevoli espedienti per vanificarla (dal rifiuto di declinare le generalità o di rilasciare le impronte digitali, alla declinazione di generalità false, ivi compresa la nazionalità di provenienza, cosa che può anche ripetersi per due, tre, quattro, cinque volte con il medesimo soggetto). A ciò si aggiunga che esistono molte maniere di prolungare artificialmente il proprio soggiorno, ad esempio impugnando la sentenza di mancato accoglimento della richiesta d’asilo e imbastendo una causa legale (cosa paradossale, a spese dello Stato di arrivo: che, se perderà la causa, avrà sostenuto delle spese inutili contro se stesso, e se la vincerà, non avrà modo di rivalersi delle spese sostenute). Come se non bastasse, i provvedimenti di respingimento e quelli di espulsione non sono quasi mai operativi e immediati, ma — altro paradosso — sono affidati, in un certo senso, alla "buona volontà" di colui che si vuole respingere o espellere: il che significa presumere da costui molta più collaborazione e senso della legalità di quanto sia ragionevole aspettarsi. Non vi sono pene per chi non ottempera al decreto: cosa che induce a tentare la sorte, ossia a ignorarlo, dandosi alla clandestinità: perché, anche nell’ipotesi peggiore, quella di essere scoperti e nuovamente identificati, non si rischia nulla. Ma a questo punto, ripetiamo: che senso hanno ancora i confini nazionali? Se tutti possono oltrepassarli, e addirittura chiedere l’aiuto, per farlo, delle Forze armate e di polizia dello Stato di destinazione, magari presentandosi con molti bambini e donne incinte su d’una imbarcazione galleggiante in modo precario e chiedendo soccorsi, via telefono, poco dopo aver lasciato i porti di partenza (come nel caso della Libia) e costringendo, in pratica, mediante uno scoperto ricatto morale, lo Stato di destinazione ad adoperarsi per fornire una specie di "servizio traghetti", con il danno delle fortissime spese da sostenere e con la beffa di una opinione pubblica, una parte delle forze politiche e della Chiesa, che alzano sempre più il tono dei rimproveri, parlando di "vergogna" per la lentezza dei soccorsi e di "stragi" per gli affondamenti dei natanti, come se qualcuno li avesse deliberatamente affondati o abbandonati al loro destino, e non fosse vero, semmai, l’esatto contrario?

La seconda attribuzione fondamentale della sovranità è quella monetaria. È indipendente uno Stato che emette la propria moneta; che la garantisce con i propri titoli e le proprie riserve auree; che la difende con appositi provvedimenti (di svalutazione o di rivalutazione); non lo è uno Stato che rinuncia ad essa. A partire da quel momento, tale Stato deve sottoporsi a tutte le richieste dell’organismo finanziario cui ha ceduto la propria quota di sovranità (per l’Italia, la Banca centrale europea) e non possiede alcuno strumento per difendere il proprio tesoro e i salari o i risparmi dei propri cittadini, perché tutto questo è passato sotto la competenza di una autorità esterna. Di tale autorità esterna, in teoria, i singoli Stati che hanno volontariamente ceduto la sovranità monetaria, fanno parte e hanno perciò il diritto di far sentire la propria voce: ma la realtà dei fatti ci mostra quanto ciò effettivamente accada, e in quale misura; o se non si tratti, piuttosto, di una partita ineguale fra chi detiene tutte le leve del potere decisionale, e chi ne possiede una minima quota, in pratica del tutto ininfluente. Ora, quando uno Stato ha perso il controllo del proprio tesoro; quando deve dipendere da altri per le decisioni riguardanti la propria moneta e il proprio risparmio, sia pubblico che privato, è come se continuasse ad esistere solo di nome: di fatto, non esiste più, è stato cancellato dalla burocrazia finanziaria del super-organismo al quale ha deciso di aderire. Quel che è accaduto alla Grecia, in questi ultimi anni, dovrebbe essere un monito abbastanza eloquente per tutti. E si tenga presente che la Grecia non ha ancora finito di pagare le sue "colpe"; la Trojka sta continuando a punirla, nell’indifferenza generale, appioppandole la responsabilità di gestire gran parte della immigrazione selvaggia che l’amica Turchia, furbescamente, le sta scaricando addosso, giorno per giorno, sotto l’occhio compiacente (e compiaciuto) della signora Merkel.

La terza attribuzione della sovranità è la politica, sia interna che internazionale. È sovrano uno Stato che può decidere liberamente la propria politica interna ed estera. Si tenga però presente che la libertà di azione politica di uno Stato non dipende solo dalle eventuali pressioni politiche di altri Stati, ma, oggi specialmente, e in misura anche maggiore, dalle manovre speculative della grande finanza internazionale, per la quale i cittadini di tutto il mondo non sono che carne da macello, e i loro governi si riducono, sovente, a svolgere la funzione di utili paraventi per lasciar sussistere l’illusione che la volontà popolare sia ancora rispettata (si pensi al governo Monti come tipico esempio di quest’ultimo concetto). In un certo senso, in tempi di globalizzazione, nessuno Stato, nemmeno il più potente può sottrarsi ai pesantissimi condizionamenti politici dell’alta finanza internazionale, agenzie di rating incluse (che svolgono, né più, né meno, funzioni di terrorismo psicologico istituzionale e di saccheggio legalizzato); nessuno Stato può mirare all’autarchia di mussoliniana memoria. Il che equivale a dire che tutti gli Stati, tutti indistintamente, soggiacciono alla dittatura permanente di una oligarchia finanziaria internazionale che vive di parassitismo ai danni del lavoro, delle pensioni e del risparmio, sia pubblico che privato.

In queste condizioni, come si può parlare ancora di sovranità nazionale? Ma, se la sovranità nazionale non esiste più, allora nemmeno lo Stato nazionale esiste: esso viene mantenuto artificialmente in vita essenzialmente per due ragioni: per non allarmare i cittadini, che potrebbero tentare di opporsi a questa espropriazione di sovranità (la loro sovranità, dopotutto!) e perché, alla élite finanziaria mondiale, è più conveniente lasciarli sussistere, delegando ad essi i compiti più ingrati, come quello di rastrellare il risparmio per trasferirlo nei propri forzieri. Insomma: lo Stato-nazione è morto; tuttavia risulta utile non dirlo in giro e lasciare che il suo cadavere rimanga ritto in piedi, come uno spaventapasseri in mezzo al campo. Con che cosa, adesso, lo rimpiazzeremo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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