
Attualità di T. S. Eliot: o rifondare un’Europa cristiana, o il nulla
17 Dicembre 2015
Essere, coscienza, felicità: la triplice natura dell’uomo
18 Dicembre 2015Può darsi che in molti non ci abbiano fatto caso; in effetti si tratta di piccole cose, talmente piccole che possono facilmente passare inosservate. O quasi. Ma sono tante: tante davvero, e quotidiane, incessanti.
Non crediamo si tratti "solo" di maleducazione, anche se è un fatto che, quella, è cresciuta e sta continuando a crescere in maniera esponenziale. È qualcosa di più e di diverso. Qualcosa di peggio, ahimè.
In breve, si tratta di questo: molte persone, soprattutto giovani, ma non loro soltanto, si muovono e si comportano come se avessero perso la giusta connessione con la realtà circostante. Vanno per la loro strada come se esistessero loro sole al mondo. Parlano fra di loro, se sono in gruppo; ascoltano la musica o smanettano con il telefonino, se sono da sole; sembrano non accorgersi del fatto che esistono anche gli altri. È come se non lo avessero realizzato.
Per esempio: non cedono il passo ad alcuno, davanti a una porta, a una scala, a un ascensore; non rallentano, alla guida dell’automobile, se vedono un pedone che tenta di attraversare la strada; non guardano affatto se sopraggiungono dei veicoli, quando si immettono, con la bicicletta o con il ciclomotore, da una strada laterale; non si spostano, se qualcuno viene verso di loro, in un luogo stretto, come un corridoio; mettono la musica a volume altissimo, anche di notte, d’estate, con tutte le finestre aperte a causa del caldo; sbuffano il fumo della sigaretta addosso al prossimo, per la strada; spazzano il marciapiede, gettando la polvere sui piedi dei passanti; stanno a guardare tranquilli, mentre il loro cagnolino, al guinzaglio, fa la pipì sulle ruote di un’automobile in sosta; non muovono un dito, né un muscolo facciale, se vedono un anziano in difficoltà, o una mamma che stenta a far sormontare il gradino del marciapiedi alla carrozzina che sta spingendo; non si sognano neppure di alzarsi e far sedere una persona rimasta in piedi sull’autobus, un nonno, una donna incinta; non si fanno da parte se incrociano un disabile.
È come se una grandissima quantità di persone mostrasse i sintomi tipici dell’autismo. Non prestano alcuna attenzione agli altri, né in bene, né in male: non li vedono neppure. Li hanno cancellati dal loro orizzonte visivo e dalla loro mappa mentale. E non perché siamo distratte: essere distratti vuol dire, semplicemente, essere presi da un altro pensiero. Le persone di cui parliamo non sono prese da "altri" pensieri: semplicemente, nei loro pensieri non entra alcun altro all’infuori di loro stesse. Hanno azzerato il mondo, perché il mondo non le interessa. Riversano tutta la loro socialità sui telefonini, o sui tablet, o sulle cuffie con le quali ascoltano la musica: cioè con un interlocutore lontano o, semplicemente, virtuale. I possibili interlocutori vicini non rientrano nel loro campo d’interessi, per cui ne fanno a meno. Ma, sia ben chiaro, non ne fanno a meno come chi rinuncia a qualcosa; ne fanno a meno come chi non si domanda neppure se esista qualcosa, fuori della porta di casa propria, oppure no. Se pure esiste, è qualcosa o qualcuno che non li riguarda.
Nello stesso tempo, queste persone appaiono disarmoniche nei movimenti, scoordinate, come se facessero fatica a trovare il modo di mettere una gamba avanti all’altra, a voltarsi nella direzione giusta se qualcuno le chiama; come se i gesti più normali, ma specialmente quelli che richiedono un minimo di prontezza e di elasticità, costituissero, per loro, una fatica immane, qualcosa di quasi impensabile. In breve, pare che si muovano sotto l’effetto degli stupefacenti: le loro reazioni sono lentissime, paurosamente ritardate; e ciò non perché non possiedano sufficienti energie fisiche, o per qualunque altro difetto fisiologico, ma proprio perché sono "sconnesse" dal mondo circostante, e pare che si muovano in una dimensione tutta loro.
La prova del fatto che non si tratta di "normale" distrazione, dovuta, magari, allo stress e ai ritmi frenetici della vita moderna (ma quando la finiremo di giustificare qualunque inciviltà e qualsiasi sconcezza con la scusa dello stress?) è presto data. Provate a rivolgere la parola a uno di codesti zombie, anche solo per tutelarvi fisicamente: a un ragazzo che, uscendo da un negozio senza nemmeno guardare, vi sta venendo addosso; provate a far notare al Tizio che vi attraversa la strada, o che vi urta passando, o che vi costringe a una brusca frenata, che si stava muovendo in maniera inadeguata, scorretta, poco educata: nove volte su dieci vi guarderà con aria assente, o con sincero stupore; forse farà l’ironico, o il saccente, o l’arrogante, si sentirà quasi sfidato e tirerà fuori i denti; e novantanove volte su cento mostrerà di non aver capito, né punto né poco, il senso della vostra osservazione. Non solo resterà della sua idea, se così si può dire, cioè nell’assoluta convinzione di non aver fatto proprio niente di strano o di sbagliato, ma penserà, e forse ve lo dirà in faccia, che siete voi ad avere le traveggole, a sollevare questioni inesistenti, insomma ad essere un po’ paranoici, o qualcosa del genere.
È, peraltro, lo stesso stupore, per non dire la stessa incredulità, che mostrano migliaia e migliaia di ragazzi abituati a presentarsi a scuola, o in chiesa, o sul posto di lavoro, vestiti in maniera sconveniente. Il loro sguardo vi fa avvertiti che non riescono nemmeno a comprendere il senso delle vostre osservazioni — che voi siate un insegnante, o un prete, o un capufficio — se, per caso, gliele fate. La ragazza, o magari la donna non più giovane, che si presenta con i pantaloni a vita talmente bassa, da mostrare, quando si siede, tutto il fondo schiena, e anche qualcosa di più, mutande o perizoma compresi, naturalmente, per non parlare dei tatuaggi più fitti e più complessi, ma sempre banali, che si possano immaginare; il giovanotto che si presenta con i pantaloni corti appena sotto il ginocchio, e che esibisce le sue gambe pelose nel bel mezzo di una sala di concorso, o di un esame di diploma di scuola superiore, o di una funzione religiosa, e che vi accoppia, magari, una canottiera colorata che mette in mostra petto, spalle e bicipiti, tatuati pure quelli: costoro appartengono a un nuovo tipo antropologico, caratterizzato dalla più totale indifferenza per il luogo e per il momento nel quale ci si presenta, e che riserva alla scuola, alla chiesa e all’ufficio lo stesso tipo di abbigliamento che adotta a casa sua, quando gira semivestito per il caldo, ciabattando rumorosamente ed esibendo, scoperta, la maggior superficie corporea possibile.
Inutile dire che, per questo tipo di "signore", le spalline del reggiseno che vengono fuori da sotto quelle della maglietta, o l’assenza totale del reggiseno e la relativa ostentazione delle proprie grazie muliebri, come se fosse in spiaggia o in discoteca, è, del pari, la cosa più naturale del mondo; come lo è, per questo tipo di "signori", andare in giro per la strada, nei locali e nei luoghi di lavoro, indossando le scarpe senza calzini, oppure direttamente gli zoccoli, sempre senza calzini, per poi tirare fuori i piedi nel bel mezzo di una riunione di lavoro, sotto il tavolo, con la massima nonchalance, e senza neanche darsi pensiero di eventuali, poco piacevoli odori regalati al prossimo. Il prossimo: e chi sarà mai? Del resto, questi barbari non si aspettano, dagli altri, un trattamento migliore di quello che essi riservano loro: sprofondati nel più assoluto narcisismo, che coincide con la più sgradevole trascuratezza e con la più villana sciatteria, credono che qualunque altra persona esista al mondo, sia esattamente come loro; né li sfiora il dubbio che potrebbe anche non essere così. Senza contare il fatto che quella di pensare non è fra le loro attività preferite, e neppure fra quelle in cui essi riescano meglio.
Potemmo fare decine, centinaia di altri esempi. La ragazza che si passa il lucida-labbra con la massima tranquillità e disinvoltura, sul primo banco della quinta liceo, non sta sfidando il professore, né rivendicando l’emancipazione femminile dal bieco giogo maschilista: sta facendo quel che gli pare assolutamente normale fare, e non è affatto imbarazzata, per il semplice fatto che neppure la sfiora l’idea di tenere un comportamento inadeguato o irriverente. Il giovanotto che entra in un negozio o in un bar e si rivolge senz’altro con il "tu" al proprietario cinquantenne, non vuole rimarcare la sua sicurezza psicologica, né provocare chicchessia: adopera il "tu" come farebbe con suo padre, senza voler mancare di rispetto a quell’uomo: il fatto che costui sia un estraneo, per lui, non significa nulla; così come non significa nulla la differenza di età. Pertanto, quest’ultimo farà bene a fare finta di niente e a non fargli notare la sua maleducazione: perché allora al giovanotto potrebbe anche saltare la mosca al naso, potrebbe diventare arrogante e aggressivo, potrebbe assumere un tono apertamente sfottente o provocatorio.
Non parliamo, poi, di insegnare un po’ di buona educazione ai bambini o ai ragazzini: molto spesso i pargoletti sono più che pronti a scattare, a reagire, come se non aspettassero altro, e perfino un signore anziano, che abbia avuto la cattiva idea di riprenderli, e sia pure per le ragioni più sacrosante di questo mondo, rischia una rispostaccia, se non peggio. Di nuovo: non si tratta principalmente di maleducazione, ma di qualcos’altro; si tratta di analfabetismo sociale. Sono bambini o ragazzini ai quali nessuno ha insegnato a stare al mondo; in compenso, la televisione e il computer li hanno riempiti di strane idee su come ci si muove nella vita d’ogni giorno.
I ragazzi, poi, molto spesso, non hanno alcuna consapevolezza delle situazioni nelle quali vengono a trovarsi: hanno smarrito il principio di realtà. Può succedere, pertanto, che rispondano male a uno sconosciuto, per banalissime questioni di precedenza stradale. Quello sconosciuto, però, una volta tanto, potrebbe anche non essere il solito cittadino rassegnato alla maleducazione imperante: potrebbe essere, ad esempio, un robusto cittadino straniero, che se ne infischia della immaturità del suo interlocutore e che, sfidato, reagisce con la massima violenza. Molti ragazzi sono così viziati e inconsapevoli da non avere alcuna percezione del pericolo: non comprendono fin dove si possono spingere, non capiscono quando è il momento di tacere o di battere in ritirata. Si sentono forti, indistruttibili, immortali: possono sfidare uno sconosciuto con la stessa incoscienza con cui sfidano la morte, guidando la moto o l’automobile nella maniera più spericolata. E, qualche volta, vanno a sbattere nell’incontro sbagliato, che può anche concludersi tragicamente: la vita non fa sconti a nessuno e non esiste una speciale benevolenza per gl’immaturi e i presuntuosi. Quando il castigo arriva, arriva, magari nel momento in cui non c’è nessuno a fare da intercapedine, ovvero da scudo: né la solita mamma, che accompagna il figlio diciottenne o ventenne, in macchina, fin sul portone della scuola, e, se potesse, entrerebbe anche nell’atrio con il Suv, perché non prenda — poverino! — nemmeno una goccia di pioggia; né il papà che va a lamentarsi dai professori perché il suo pargolo studia, studia tanto, e non si capisce come mai abbia rimediato un brutto voto: è strano, molto strano, un ragazzo così bravo e studioso, proprio non se lo sarebbero aspettato; quasi, quasi, è il professore che si deve giustificare d’avergli messo un quattro sul registro, o chiedere scusa perché il baldo giovanotto lo ha mandato a quel paese.
Insomma: un numero sempre più grande di persone sembra affetto da una sindrome di nuovo genere: l’oblio del principio di realtà. Il principio di realtà è quella cosa per cui si prende atto del fatto che il mondo è fatto in un certo modo, e che in esso vi sono certi oggetti, certi tempi, certi principi e certe regole da rispettare. Ignorare il principio di realtà non è da anarchici, ma da minorati mentali: perché anche l’anarchico, se è una persona in possesso delle proprie facoltà mentali, sa che non si può distruggere ciò di cui si nega l’esistenza, ma che, per combattere contro qualcosa, bisogna in primo luogo riconoscerla.
Se, poi, ci si domanda da dove abbia avuto origine lo smarrimento del principio di realtà, probabilmente si arriverà alla conclusione che molti sono i fattori che hanno cooperato a questo risultato, ma uno più di tutti gli altri: la sindrome di onnipotenza, esito estremo dell’ipertrofia dell’ego, tipica della civiltà moderna. Il bambino che si getta dalla finestra del grattacielo, per volare nell’aria come ha visto fare a Superman, l’eroe dei suoi cartoni animati preferiti, è simile al diciottenne che corre a cento all’ora, di notte, lungo una strada tutta curve, per imitare il campione automobilistico di cui ha visto le imprese in televisione. Ma anche la signora sessantenne, che ha deciso di avere un figlio con l’inseminazione artificiale; anche i due omosessuali che hanno affittato l’utero di una donna compiacente (e bisognosa) per avere un bambino da allevare, hanno smarrito il principio di realtà. Si gioca con l’impossibile per sentirsi potenti, giovani, vivi.
Nello stesso tempo, l’assuefazione ai media e al computer ha creato una sorta di distacco dalla realtà vera, un corto circuito del sano realismo su cui si basa l’esperienza concreta della vita: queste persone vivono attaccate allo smarthpone come l’alcolista vive attaccato alla bottiglia, né più né meno; è la loro droga, della quale non potrebbero fare a meno. La loro vita si è ritratta dalla dimensione del reale e si è concentrata lì, in quel piccolo oggetto costoso e sofisticatissimo, dalle innumerevoli prestazioni tecnologiche. È la loro ragione di vita: se potessero, lo succhierebbero come un ciuccio. Per carità, non disturbateli. Hanno cose ben più serie cui pensare; altro che storie…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels