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Se vogliamo scongiurare il crollo, dobbiamo superare la cultura del rifiuto

Che la civiltà moderna sia arrivata sull’orlo del baratro e che appaia sul punto di precipitarvi in qualsiasi momento, è percezione ormai largamente diffusa e non rappresenta più il credo di questa o quella ideologia, travalica gli schemi tradizionali della destra e della sinistra, o della fede e dell’incredulità: è diventata coscienza diffusa, tarlo segreto o angoscia palese di milioni e milioni di persone, compresa la stessa élite intellettuale che, pure, per statuto professionale e per inveterata propensione al servilismo, tende a minimizzare, fin dove possibile, le tensioni e le contraddizioni dell’esistente, per auspicare improbabili riprese e illusori assestamenti.

Nondimeno, se le diagnosi circa il gran corpo malato della nostra civiltà tendono a convergere, le analisi differiscono notevolmente, e, con esse, le possibili terapie: in un certo senso, la situazione odierna ricorda da vicino quella che si verificò al tramonto dell’Impero Romano d’Occidente, e le discussioni attuali ricordano parecchio il dibattito storiografico successivo, fra quanti attribuivano la caduta del mondo antico a cause interne — economiche, sociali, culturali, religiose — e quanti l’attribuivano soprattutto a cause esterne — le migrazioni dei popoli, con le conseguenti invasioni barbariche; senza trascurare la posizione di quanti ritenevano che i due ordini di cause si fossero sovrapposti e avessero operato contemporaneamente, dall’interno e dall’esterno. Né sono mancati, infine, coloro i quali hanno negato che vi sia stata una "caduta", o comunque una "fine" della civiltà antica, e che preferiscono parlare di "trasformazione" e di "trapasso" verso la civiltà medievale, ciò che si sarebbe attuato sostanzialmente per "linee interne", dall’una all’altra.

Tornando al presente, noi apparteniamo alla categoria di coloro i quali sono propensi a vedere nella crisi drammatica della nostra civiltà, la quale mostra i segni sempre più evidenti dell’agonia, in primo luogo una crisi interna: e, in senso più specifico, una crisi di odio e di rifiuto nei confronti di noi stessi, della nostra tradizione, del nostro passato, della nostra identità. Questa cultura del rifiuto di noi stessi ci ha mortalmente indeboliti, caricati di complessi, nevrosi e sensi di colpa: ha intaccato la nostra fibra vitale. Di tale debolezza approfittano i nostri nemici esterni ed interni: tutti coloro i quali, per una ragione o per l’altra, odiano ciò che noi rappresentiamo, ma, nello stesso tempo, invidiano il nostro benessere, vero o falso che sia, e ambiscono a sostituirci quali commensali, prima che la tavola venga sparecchiata da un impoverimento irreversibile delle risorse planetarie a disposizione dell’umanità — cosa che fatalmente dovrà verificarsi, se la corsa al modello sviluppista proseguirà con i distruttivi ritmi attuali.

Il problema è che ciò che siamo non ci piace per delle motivazioni contrastanti e perfino opposte: per alcuni di noi, perché ancora troppo legato al passato; per altri, perché proiettato unilateralmente verso un progresso senz’anima, esclusivamente economico e tecno-scientifico. Una società, una cultura, una civiltà, per conservare la propria coesione, non possono accontentarsi né di fare la guardia ai valori passati, né di rincorrere sempre nuovi livelli di benessere e progresso materiale: sarebbero, entrambi, degli orientamenti suicidi. La vita è progresso, ma progresso nel solco della tradizione: in altre parole, si deve procedere ricordando, e non a casaccio, non dove portano le nuove scoperte scientifiche e le nuove applicazioni tecnologiche, ma là dove è giusto andare, alla luce dei valori, delle decisioni, dei bisogni reali (e non di quelli artificiali, creati cinicamente dal mercato e dal diabolico consumismo). In altre parole: per tornare ad amarci, a credere in noi stessi, dobbiamo riprendere in mano la libertà delle nostre scelte, individuali e collettive.

Uno dei pochi filosofi contemporanei che hanno impostato in maniera chiara, rigorosa, intellettualmente onesta, la questione del rapporto fra diritti e doveri, senza curarsi affatto del politically correct, è l’inglese Roger Scruton (classe 1944, vivente), le cui opere non sono forse conosciute, lette e discusse in Europa – al di fuori della Gran Bretagna – quanto meriterebbero.

Afferma Scruton nel libro «L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica» (titolo originale: «The West and the Rest: Globalization and the Terrorist Threat», ISI Books, 2002; traduzione dall’inglese di Raul Caruso, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 57-58: 59-60; 67):

«La visione illuministica della nostra condizione, trascritta nelle leggi e nelle istituzioni che garantiscono i diritti del cittadino, è uno dei sogni più nobili del’umanità. Ma i diritti devono necessariamente essere bilanciati dai doveri, e il richiamo al dovere è efficace solamente nel contesto di una fedeltà comune. Quando la fedeltà si consuma, il senso del dovere si consuma con essa. Allo steso tempo il consumarsi del dovere non è accompagnato da alcuna diminuzione nella richiesta di diritti. Al contrario, nel momento in cui le persone cominciano a tralasciare i propri doveri, queste partono dal presupposto, abbastanza ragionevole, che altri si stiano comportando allo stesso modo. Il risultato è un’onnipresente amplificazione della domanda di diritti. Il processo politico diviene una lotta per la rivendicazione delle risorse comuni per quanto esse fruttano, e la giurisdizione è tratta come un’impresa commerciale, con la controversia legale come mezzo per guadagnare un vantaggio competitivo su un concittadino.

Allo stesso tempo l’uomo non può vivere solo di diritti. Il mio diritto è il tuo dovere, e in una cultura di diritti io sono inevitabilmente consapevole che sto abusando dell’obbedienza di altri e della loro inclinazione a non trasgredire la legge. Se perseguo ciecamente i miei diritti a spese altrui, so che questo è possibile solamente in virtù di una comune fedeltà e di un’appartenenza condivisa. La presunzione di una comune fedeltà è sentita come un peso morale e come un bisogno religioso, o quasi. Incapaci di affermare le vecchie forme di appartenenza, le persone invece le ripudiano, con la speranza che un più nuovo e più accettabile tipo di appartenenza sorga dalla cenere del diniego. […]

Resta una parte della società che si è affidata completamente ai "valori familiari". E alla divisione dei ruoli che permette alle famiglie di durare nel tempo. Ma questa parte di società non ha voce in capitolo nell’opinione pubblica. Il messaggio dei media, dell’accademia e dell’élite che forma l’opinione pubblica è femminista, antipatriarcale e in contrasto con i tradizionali divieti di carattere sessuale, come quelli che riguardano l’aborto, l’omosessualità e il sesso al di fuori del matrimonio. Cosa ancora più importante, la cultura dell’élite è stata sottoposta a una specie d’"inversione morale", per utilizzare un’espressione di Michael Polanyi. La licenza si converte in proibizione, come l’appoggio di alternative apre la strada a una guerra contro la precedente ortodossia. La famiglia, lungi dal godere dello status di alternativa legittima alle varie posizioni "trasgressive" lodate dall’élite, è stata messa al bando come forma di oppressione.

Una vecchia struttura di appartenenza sociale si è dimostrata indifendibile; e rifiutandola, godiamo per un po’ di una nuova forma di appartenenza, come compagni in armi contro il passato. L’appartenenza, quando è proposta in questo modo, – nuova, purificante, una scommessa per purificare e liberare il mondo — è un richiamo nascosto all’esperienza religiosa, piuttosto che politica, della società. Il femminismo rivendica, come il marxismo, di essere un movimento politico; ma nei fatti un movimento contro la politica, così come è stato il marxismo. Esso cerca di rimpiazzare o di correggere l’appartenenza centrale di appartenenza sociale; ha quindi le ambizioni di una fede monoteistica, e offre una risposta femminista a ogni questione morale e sociale, un’interpretazione femminista del mondo umano, una teoria femminista dell’universo e anche una lettura femminista della Dea. Esso scaccia dalle sue fila gli eretici, e con uno zelo che è l’altra faccia di quel calore accogliente con il quale dà il benvenuto al sottomesso e all’ortodosso. Ed esso si oppone con ostinazione al vecchio ordine, così come il protestantesimo si oppose alla Chiesa cattolica romana durante il Rinascimento. […Quando la fede religiosa scompare, quando gli adulti non iniziano più i giovani alla cultura nazionale, quando le fedeltà non si trasmettono più tra le generazioni o non sono più definite in termini territoriali, allora inevitabilmente la società degli stranieri, tenuta insieme dalla cittadinanza, è minacciata. I giovani si trovano di fronte a un vuoto morale.[…]

Questa è la situazione in cui ci troviamo. Siamo figli dell’Illuminismo , partecipiamo al declino di quella forma di appartenenza dalla quale l’Illuminismo dipende, e siamo preda delle superstizioni che nascono sulla scia delle nostre ortodossie morenti. Allo stesso tempo godiamo di un potere tecnologico senza precedenti, che comporta un costante incremento dei contatti e del commercio in tutto il globo. Si mettono in contatto persone che non hanno nessuna possibilità concreta di accordarsi, e lo spettacolo della libertà e della ricchezza occidentali, che si accompagna al declino dell’Occidente ed allo sgretolarsi delle fedeltà occidentali, provoca necessariamente, in chi invidia il primo e disprezza i secondi, un cocente desiderio di punire.»

Nondimeno, lo ripetiamo, i nemici esterni non potrebbero pensare seriamente di riuscire a "punirci", se noi stessi, per odio nei nostri confronti, non ci fossimo già messi, da soli, nell’atteggiamento del colpevole in attesa del meritato castigo: dovremmo, pertanto, analizzare l’origine dei nostri sensi di colpa, per trovare la via d’uscita da questo tarlo inesorabile, che ci indebolisce e ci prostra.

Il grande malato, non possiamo nascondercelo, è l’Europa; siamo noi Europei che soffriamo della sindrome dell’odio di sé. Quest’odio è nato, crediamo, a partire dall’Illuminismo, il quale, a sua volta, ha attinto largamente dalle premesse ideologiche della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo. L’Illuminismo è nato nel segno dell’odio e del disprezzo della tradizione: la quale, per l’Europa, coincide, in primo luogo, con la religione cristiana (e con la cultura greca, ma mediata da secoli di filosofia cristiana); di conseguenza, è nato con il segreto progetto — o neanche tanto segreto — di sradicare la tradizione cristiana dall’anima europea, per poter ricostruire la nuova civiltà a partire da una tabula rasa. Errore funesto: nessuna civiltà potrebbe sopportare un simile trapianto di anima: il minimo che ci si deve aspettare, è una disastrosa crisi di rigetto. Noi siamo i protagonisti di questa crisi di rigetto, e lo siamo da due secoli e mezzo: né ci stiamo avvicinando ad un assestamento sui nuovi valori, illuministi e post-cristiani, ma siamo sempre più squilibrati e annaspanti nel vuoto, perché i nuovi valori — che erano, a ben guardare, semplicemente delle schegge di virtù cristiane impazzite, secondo la limpida immagine di Chesterton — non hanno attecchito, essendo intrinsecamente negativi. Illuminismo, industrialismo, liberalismo, utilitarismo, nazionalismo, capitalismo, scientismo, marxismo, fascismo, nazismo, terzomondismo, femminismo, esistenzialismo, nichilismo: sono tutti movimenti e orientamenti che si configurano essenzialmente in senso negativo, contro qualcuno o qualcosa; o in senso banalmente edonistico; o in senso pseudo-religioso, come surrogati della tradizione cristiana. Sono tutte ideologie che hanno illuso e tradito l’uomo, perché sono partite da un gravissimo errore filosofico: il fraintendimento del suo statuto ontologico. Tutte, in misura maggiore o minore, hanno proclamato l’autosufficienza dell’uomo e la sua capacità di realizzare il Paradiso in terra con le sue sole forze, ovviamente eliminando gli ostacoli: il nemico di classe (la borghesia), il nemico di genere (il maschio), il nemico di civiltà (l’Occidente), e così via; e tutte, dopo averlo illuso, lo hanno lasciato più solo e avvilito di prima.

Dunque: per rifondare una speranza, dobbiamo, in primo luogo, riscoprire le nostre radici: le radici cristiane dell’Europa. L’Europa non è l’Occidente; l’Europa è l’Europa. Gli Stati Uniti sono una degenerazione, un tumore dell’Europa: sono la discarica dei suoi materiali di scarto. Per dotarsi di una tradizione, che non possedevano, gli intellettuali statunitensi si sono inventati il mito della "giovinezza" americana; la cosa strana è che quelli europei abbiamo presa per buona una simile mistificazione — segno che la malattia del disamore di sé e del senso di colpa era già all’opera. Gli Stati Uniti non sono la giovinezza dell’Europa, ma la sua estrema vecchiaia, la sua decrepitezza: la somma dei suoi errori più grossolani, un concentrato del peggio che ha prodotto la modernità: l’avidità smisurata, l’usura, la violenza brutale (cominciando dal genocidio degl’Indiani e dalla schiavitù dei neri), il culto della quantità, della ricchezza materiale, dell’individualismo feroce, della incultura e della inconsapevolezza erette a virtù. Ebbene, noi Europei dobbiamo ricominciare da qui: ossia riprenderci la nostra identità, la nostra storia, la nostra fierezza. Per tornare a volerci bene.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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