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Il significato mistico della caverna nella tradizione d’Occidente e d’Oriente

La caverna possiede un simbolismo notevole tanto nella sfera delle leggende, delle fiabe e, in genere, del folklore, quanto in quella del sacro, del misticismo e della religione.

La civiltà classica è piena di storie e di racconti e relativi alle caverne: da Platone a Virgilio, dal mito di Orfeo che tenta di sottrarre all’Ade la sua sposa Euridice, ad Eracle che vi discende per catturare Cerbero, il cane infernale, nel corso delle sue dodici fatiche; senza contare il fatto che molti oracoli dell’antica Grecia erano posti sulla soglia o all’interno di grotte (si pensi all’antro della Sibilla cumana), oltre che in prossimità di boschi sacri.

In una grotta, poi, è stato sepolto Cristo e da lì, prima della Resurrezione, Egli sarebbe disceso al Limbo, sempre situato nel mondo sotterraneo, per liberare le anime dei giusti: poi, la pietra rovesciata all’ingresso fu l’annuncio che Egli aveva sconfitto la morte. La caverna, così, nella tradizione cristiana, diventa il simbolo della morte e della rinascita, dopo essere stata lo sfondo della divina natività; anche se a parlare di una "grotta" dei pastori è l’apocrifo Protovangelo di Giacomo e non i Vangeli canonici (Luca suggerisce soltanto, capitolo 2, versetto 7, essersi trattato di una stalla, poiché afferma che Maria pose il Bambino, appena nato, in una "mangiatoia", dal momento che all’albergo non c’era posto per loro).

Anche la tradizione medievale conosce una straordinaria fioritura di racconti e leggende relativi alle caverne: i trolls della Scandinavia, ad esempio, custodiscono i tesori nelle viscere delle montagne; Carlo Magno giace addormentato d’un sonno millenario nelle profondità di una caverna; e una serie di tradizioni affermano che Dante si ispirò ai regni dell’Oltretomba dopo aver visitato alcune grotte carsiche, durante il suo soggiorno presso Pagano della Torre o il conte di Gorizia (cfr. il nostro saggio: «Dante e la Venezia Giulia», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/05/2006 e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 10/08/2015). Spesso la caverna è associata alla presenza del drago, in genere nella funzione di custode di un tesoro d’incomparabile ricchezza: chi è intenzionato a penetrarvi deve, perciò, affrontarlo; oppure, agendo con l’astuzia e con l’aiuto della magia, deve riuscire ad addormentarlo, come già aveva fatto Giasone allorché aveva rubato il Vello d’Oro della Colchide.

Dopo il Rinascimento (in cui si moltiplicano, nelle arti figurative, e specialmente nei dipinti di Giorgione, Giovanni Bellini, Leonardo, i paesaggi rocciosi e disseminati di grotte), vi è un ultimo sprazzo d’interesse "tradizionale" per le caverne, cioè mitico e simbolico e non puramente utilitaristico: si pensi ad opere come il celebre «Mundus subterraneus» dello scienziato gesuita Athanasius Kircher, oppure alle fantastiche incisioni, di sapore quasi "gotico", delle Grotte di Postumia, contenute nell’opera di Johann Valvasor (cfr. il nostro articolo: «Orripilanti doccioni e mostri diabolici nella speleologa fantastica di Johann Valvasor», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 02/04/2012, e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 13/12/2015).

Poi, la caverna perde i suoi connotati mistici e misteriosi e diviene semplicemente la via d’accesso ai minerali d’interesse economico, che la Terra può mettere a disposizione dell’uomo. Essa non svolge più alcuna funzione nell’immaginario simbolico e viene, per così dire, abbandonata e quasi dimenticata; salvo trovarsi al centro di un clamoroso evento mistico, le apparizioni mariane di Lourdes, nel 1858, a Bernadette Soubirous. Intanto, dal XIX secolo, il mondo delle grotte incomincia ad essere frugato sistematicamente da due nuove categorie di studiosi, gli archeologi e i paleontologi, rispettivamente alla ricerca di antiche vestigia umane e di forme di vita animali e vegetali ormai scomparse in lontane ère geologiche. Nasce una nuova disciplina, la speleologia, metà scienza e metà pratica avventurosa e sportiva; si incomincia la ricognizione dei fiumi dal corso sotterraneo, o parzialmente sotterraneo, come il Timavo (che nasce dal Monte Nevoso e sfocia nell’Adriatico, a San Giovanni di Duino), che già avevano riempito di stupore gli antichi; e ci si cala nei budelli e nei meandri sempre più profondi delle Alpi, dei Pirenei e dei Carpazi, quasi inseguendo il barlume di una rivelazione che si cela ostinatamente agli sguardi.

Ma ormai la psicanalisi batte alle porte e dilaga inarrestabilmente sull’Europa della Belle époque e, poi, sulle macerie delle due guerre mondiali: e così come essa non esita a identificare la passione per l’alpinismo come un richiamo imperioso del Super-io (e per una inconsapevole allusione all’organo maschile), quella per le cavità sotterranee viene immediatamente associata — come già aveva fatto Dostoevskij, a dir la verità prima di Freud – al richiamo nei confronti dell’Inconscio (e, manco a dirlo, verso l’utero materno). Contemporaneamente, i moderni esoteristi riscoprono il fascino delle caverne ed elaborano la teoria della Terra Cava, che trova ancora i suoi accesi fautori in pieno XX secolo, arrivando a divenire quasi verità scientifica presso alcuni circoli proto-nazisti, come la Thule Gesellschaft, nonché presso qualche strampalato studioso di qua e di là dell’Atlantico, contagiato dagli echi della fantasia di Jules Verne e del suo celeberrimo «Viaggio al centro della Terra».

Nella cultura indiana la caverna è stata connotata, più che in quella europea, in senso mistico e religioso; ma non, come in area cristiana, quale rappresentazione allegorica della morte e della rinascita (come lo è, nell’ebraismo, il racconto di Giona inghiottito nel ventre della balena: cfr. il nostro articolo: «La fuga di Giona, parabola dell’uomo contemporaneo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 18/10/2007, poi su «Il Corriere delle Regioni» il 13/12/2015); bensì come simbolo del grembo accogliente, che prepara e dà alla luce il fenomeno della nascita. In India, pertanto, la grotta allude al venire al mondo, anche in senso iniziatico, e non già alla sepoltura: essa è un simbolo di nascita, piuttosto che di ri-nascita; anche se la differenza tra i due significati diviene sfumata, allorché si riconosce, nell’individuo "rigenerato" dall’adesione al nuovo credo, e passato attraverso una serie di atti rituali, non più la persona che egli era prima, ma una persona del tutto nuova, con un’anima nuova, come se la sua vita incominciasse solo in quel momento.

Scrive Jean Varenne nel «Dictionnaire des Religions» diretto da Paul Poupard (Paris, Presses Universitaire de France, 1984; traduzione italiana «Dizionario delle religioni»Casale Monferrato, Piemme Edizioni, 2000, e Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2007, vol. 1, pp. 353-54):

«Il simbolismo della caverna occupa un posto centrale nell’induismo. L’India ignora del tutto la caverna-tomba: si capisce facilmente come in una religione in cui la cremazione dei cadaveri è la regola, l’immaginario non potesse scorgere nessun legame tra la grotta e la morte. Al contrario la somiglianza con l’utero è ben percepita: la caverna nasconde il germe di vita. Nelle religioni dell’India (induismo, buddhismo, giainismo) l’iniziazione non comporta nessun rito (e a ragione!) di "discesa nella tomba", nessuna "sepoltura" ma è vista come una "nuova nascita" e quindi un’"uscita" dall’utero.

Così, nei "Veda", un mito cosmogonico racconta che il Dio Creatore deve aprire la porta di una caverna dove le vacche del sole sono tenute prigioniere dal suo Avversario. Si tratta di una variante del mito fondamentale che mostra Indra nell’atto di eliminare il demone Vritra per permettere lo scorrere delle acque primordiali che portano in sé il germe di ogni cosa. Nell’uno e nell’altro caso il campione deve abbattere la forza malefica e "avara" che impedisce la nascita dell’universo. Una terza variante precisa che le acque sono contenute in una roccia cava, una caverna quindi, e che in esse galleggia il germe d’oro (o "embrione dorato", o "uovo di Brahma"). Il gesto creatore consiste nel fendere la massa rocciosa: la volta superiore diventa il firmamento che trattiene le acque dall’alto, mentre la volta inferiore rigetta le acque dal basso. Tra le due l’universo si organizza attorno al Sole raggiante. Da qui, nell’induismo, l’immagine della caverna come luogo segreto: in mezzo alle tenebre la luce di vita si rivela a colui che riesce a forzare il passaggio.

È questo il simbolismo fondamentale di ogni santuario indù: il Santo dei santi è sempre una camera buia di dimensioni molto ridotte con una porta stretta come sola apertura. L’oscurità di questa grotta artificiale nasconde ai non-iniziati l’oggetto dell’adorazione che può essere un "linga", una statua, un braciere, ecc. È qui, in questo luogo chiuso e misterioso, che risiede il Sacro. In linea di principio, solo il prete può entrare nel Santuario ma, in occasione delle cerimonie del culto ai fedeli è rivelato l’idolo che, attorniato di luce, sembra brillare come un sole nell’oscurità. E quando in occasione di grandi feste, l’immagine divina esce in processione, è come se il mito dell’origine si rinnovasse in tutto il suo splendore.

D’altra parte, secondo i principi di analogia della teologia brahminica, il microcosmo umano deve essere ad immagine del macrocosmo. Si insegna dunque che il principio di vita risiede nella "caverna del cuore"simile a un sole (o a un fuoco) "che brilla nelle tenebre". Questa entità, di fatto non è che un "germe" che non si rivela e non si sviluppa se non grazie all’iniziazione ricevuta alla fine dell’infanzia da ogni indù di buona casta. Nella tradizione ascetica è il maestro spirituale ("guru") che "apre la caverna del cuore" e permette alla luce intellettuale, situata nel segreto del cuore di manifestarsi pienamente (e perciò di aprire all’adepto le vie della salvezza). Infine, i testi di Yoga assicurano che l’esercizio della meditazione profonda ("dhyāna") permette di scendere fin nella caverna segreta di contemplare il sole che vi risplende; e poiché "si diventa ciò che si conosce" la visione di questo sole interiore (simbolo dell’"ātman") assicura la riunificazione della persona, condizione necessaria per la liberazione che dà salvezza ("moksha").

I testi tantrici si spingono oltre: il corpo percettibile ai sensi (detto "corpo materiale") ("shtūla-sharīra") si accompagna a un "corpo sottile" ("sūkshma-sharīra") la cui parte essenziale (tronco e testa) ha la forma di un triangolo con la punta in alto, quindi di una montagna. Alla base di questa si trova una grotta che nasconde un serpente femmina ed un braciere. Con esercizi appositi, presi dallo Yoga, il tantrico visualizza la caverna poi vi introduce il soffio ("prāna"). Il fuoco interiore allora divampa e risveglia il serpente ("Kundalinī") che non è altro che l’energia universale, la "Shakti". Questa si alza, sale diversi gradini (chiamati: chakras, "ruote") poi, in cima, si unisce con il principio spirituale maschio ("purusha" o "âtman"), realizzando così la riunificazione della persona. Più spesso questi due principi sono assimilati a Shiva e alla sua paredra Pārvatī (la "Montagna"), ci si ricorderà, a questo proposito, che è uno dei pellegrinaggi più famosi dell’induismo porta i fedeli fino ad una caverna dell’Himalaya dove si venera la "linga" di ghiaccio…»

È noto, poi, che molti santoni, mistici e penitenti induisti e buddisti, così come facevano gli eremiti cristiani nel Medioevo, sogliono ritirarsi dal mondo, per un periodo di raccoglimento, o anche in via definitiva, portandosi a vivere in grotte sui monti, specialmente nelle alte valli dell’Himalaya, in un isolamento pressoché assoluto. Sarà poi un caso che, nell’opera narrativa di E. M. Forster, il romanzo dell’incontro/scontro fra Europa e Asia, «Passaggio in India» (cfr. il nostro articolo: «Altro che "principio d’indeterminazione": la verità è che siamo abituati a raccontarcela», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni il 26/04/2015), faccia perno su di un oscuro evento sessuale accaduto fra i due protagonisti, il dottor Aziz e Miss Quested, all’interno delle celebri grotte di Malabar, sacre all’induismo, ma, per un occidentale, semplice richiamo di tipo turistico?

A quanto pare, per un occidentale moderno è difficile, se non impossibile, accostarsi alle grotte con la stessa reverenza iniziatica dei secoli passati. Eppure l’Europa è ancora disseminata di santuari costruiti sulla roccia e all’interno di cavità naturali. Ne ricordiamo, fra i mille, uno famosissimo, il Santuario di San Michele Arcangelo, a Monte Sant’Angelo, sul Gargano (in provincia di Foggia), visitato ogni anno da migliaia di pellegrini e di semplici curiosi; ed uno conosciuto quasi solo in ambito locale, quello di San Giovanni d’Antro, presso Pulfero, nella valle del Natisone (in provincia di Udine, ma a pochi km. dal confine sloveno), non meno suggestivo e tanto più raccolto, perché seminascosto in una località solitaria, sui primi contrafforti delle Prealpi Giulie. Forse è giunto il tempo che l’uomo di oggi torni ad accostarsi al mistero delle grotte, proprio in quanto mistero: se lo farà con lo spirito giusto, potrebbe trovarvi qualcosa di sé, che aveva smarrito e quasi dimenticato…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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