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Quando il tradimento del primo amore getta un’ombra definitiva sulla vita intera

Vi sono nature che possiedono, per così dire, una struttura elastica: davanti ai colpi della vita, si piegano momentaneamente, ma subito dopo riacquistano la padronanza di sé, si rialzano, ricominciano a vivere, a sperare, ad amare; e ve ne sono altre — lunari, introverse, solitarie e sensibilissime — che sono, per loro intima costituzione, rigide: se qualcosa le urta, o l’abbattono, o vengono abbattute di schianto. Non si rialzano, non si riprendono; non sanno, né vogliono riannodare i fili interrotti della loro esistenza. In fondo, sono nature incapaci di adattarsi alla realtà della vita: che è continuo mutamento e che richiede, pertanto, una certa capacità di adattarsi — pur senza scendere, necessariamente, a compromessi avvilenti o disonesti. Il loro destino è già scritto nel loro sguardo: uno sguardo che sembra guardare sempre altrove, sempre un po’ più lontano, sempre un po’ discosto dagli oggetti che hanno davanti; e che rivela immediatamente una congenita, invincibile malinconia.

La loro salvezza, forse, sarebbe quella di incontrare delle nature forti e generose, sensibili quanto lo sono loro, ma più aperte e dinamiche, più ottimiste ed elastiche, che sappiano vedere e apprezzare in loro le qualità che gli altri considerano, invece, altrettanti difetti; e che, con la loro calda energia vitale, con la loro presenza affettuosa e rassicurante, riescano a trasmettere loro un po’ di fiducia in se stesse, e a infondere in loro un più profondo amore per la vita. Tuttavia, inutile nasconderselo, si tratta di incontri veramente rari, che hanno quasi del miracoloso. La regola è ben diversa: e cioè che le nature umane cercano, sostanzialmente, ciascuna il proprio simile, oppure colui che è diverso nel modo di porsi, ma pur sempre simile nella sostanza. È difficilissimo che gli opposti si attraggano veramente; e, se non sono opposti, ma simili, allora la somma di due fragilità, di due insicurezze, di due paure di vivere, non è destinata a produrre una unione felice. Per giunta, le nature lunari, rigide e ipersensibili, cercano il proprio completamento nelle nature forti, gioiose e volitive; ma queste ultime non trovano in esse nulla di attraente, le disdegnano o, al massimo, ne accettano il riverente omaggio, ma non certo una vera e propria offerta d’amore.

Pavese, in tutta la sua vita, ha amato veramente una sola donna; con lei avrebbe trovato, forse, il coraggio di vivere e su di lei aveva riversato tutta la sua capacità di affetto, di calore umano, di fiducia in se stesso e nell’altro; la crudele delusione, vissuta come un vero e proprio tradimento, che segnò il loro rapporto si ripercosse tragicamente su tutta la sua vita di uomo e di scrittore, e ve n’è traccia nella lunga galleria di personaggi femminili infelici, crudeli, sfrontati, cinici e spregevoli che caratterizzano i suoi romanzi e i suoi racconti: tutti perseguitati da una sorta di destino perverso, legato — appunto – alla loro natura di donne

Il suo nome, che il maggiore biografo di Pavese preferisce tacere, per pudore, era Tina Pizzardo: ci viene descritta come non bella (ma le fotografie lo smentiscono), fisicamente forte e sportiva, energica e decisa come un uomo; era insegnante di matematica e, dunque, lontana dalla sensibilità artistica di Pavese. Per di più, era iscritta al Partito comunista clandestino e si servì dell’indirizzo di lui per intrattenere la sua corrispondenza con il precedente fidanzato, Altiero Spinelli, cosa che a un certo punto mise nei guai il povero Pavese, perché la polizia risalì a lui, che venne condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro come antifascista, benché in realtà non sapesse affatto quel che era scritto nelle lettere che arrivavano e partivano da casa sua.

Al ritorno dal confino incontrò Tina, che gli annunciò le sue nozze imminenti con un altro uomo, le quali ebbero luogo alcuni mesi dopo dopo. Per qualche tempo lo scrittore tempestò la donna con pressanti richieste di divorziare per tornare con lui, ma lei gli rispose rinfacciandogli velatamente la sua (supposta) impotenza; lui reagì male e non si videro mai più. Da quel momento, però, una piaga insanabile si aprì nell’anima di Pavese, che nessuna donna riuscì mai a colmare e che contribuì a rafforzarlo nel suo male oscuro, nel suo segreto odio di se stesso e della vita, nelle sue insopprimibili tendenze suicide. Tina rimase sempre la donna vagheggiata e rimpianta; e tutta la carica di astio, disprezzo e feroce misoginia che accompagnò, da allora, i personaggi femminili usciti dalla penna di lui, non fu che lo sfogo amaro e disperato di un cuore tradito e deluso, di una speranza infranta, cui egli non seppe mai intimamente rassegnarsi.

Riportiamo alcuni passaggi della biografia di Pavese scritta dal suo amico Davide Lajolo, «Il "vizio assurdo"» (Milano, Il Saggiatore, 1960; Mondadori, 1972, pp. 91 sgg.):

«Negli ultimi anni d’università, al centro della vita privata di Pavese è l’incontro che varrà a turbarne tutta l’esistenza. Entra allora nella sua esistenza l’unica donna, che egli abbia veramente amata. […]:" la donna dalla voce rauca".[…]

Per Pavese questa donna è diversa dalle altre proprio perché il fascino le deriva dalla forza, dagli atteggiamenti mascolini, dal fisico aspro, dal carattere deciso e sicuro. Il timido Pavese si sente accompagnato e protetto, spronato e difeso. Sente di aver bisogno di questo. Il suo carattere debole, i dubbi costanti che lo tormentano trovano soluzione e forza in lei. Con lei sente di poter sperare, di vivere e di pensare senza paure ed incubi per l’avvenire. […]

Per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli stia accanto, scopriamo n Pavese umano, semplice e felice, che non ritroveremo più in nessun altro momento della vita. La sua timidezza, si fa tenerezza; lo sbigottimento davanti alla donna, che lo ha trattenuto in uno stato d’inferiorità dall’adolescenza alla giovinezza, si trasforma, attraverso la donna dalla voce rauca, in confidenza; Pavese è ora aperto al colloquio umano. La sua tragedia, ch’egli chiama privata, comincerà appena sarà costretto a rendersi conto che questa donna lo abbandona e lo respinge senza pietà. Sarà la tragedia che inciderà maggiormente sul fisico, sul morale, ed anche sulla sua sorte di scrittore. Da allora si cristallizzerà in lui lo squilibrio tra velleità e capacità, che si trascinerà, sempre più drammaticamente, fino al disperato gesto suicida. […]

La donna dalla voce rauca rimane dentro di lui, anche dopo il tradimento. Se riuscirà ancora a confidarsi con altre donne, è perché s’illuderà di avere ritrovata quella donna e di confidarsi con lei. Quando l’illusione si rompe, ogni incanto finisce, ed egli torna a soffrire da solo le sue angosce e i suoi deliri. È lei che ritorna nel sogni, nel ricordo, nelle allucinazioni. Lo perseguita, lo insegue, è ancora lei a tenergli il cuore, lei sola può riuscire – per qualche attimo – a calmarlo.[…]

Dolore, delusione, tradimenti, hanno ormai ferito l’uomo e il poeta. Ma se c’è qualcosa in ci può sperare, solo quella donna può ridestarlo. Se egli può ancora vivere, se vive ancora, è perché lei è ancora la vita:"Pure vive fino all’ultimo istante". E lei sola è ancora la famiglia, anche quando la solitudine si accende nella nostalgia di un figlio. […]

Si dà per scontata la misoginia di Pavese. Si dice che al centro del suo mondo era soltanto se stesso. Ma non è stato sempre così. La sofferenza per quella donna, si è ripercossa in tutte le altre donne. Il campagnolo disarmato è stato colpito nel punto più debole. Ed è questo colpo a lasciargli il segno più demoralizzante nel fisico, quello di un uomo che non può produrre, d’una pianta che non dà frutto, di un terreno sterile, di una vigna rosa dalla filossera. Se la donna non è la sola causa del suicidio, essa è l’ispiratrice più immediata e più costante dei suoi pensieri suicidi.»

Si può dire, pertanto, che questa donna — e, come lei, ce ne sono molte: la stessa tendenza femminista della cultura contemporanea ne favorisce la proliferazione — ha svolto un ruolo altamente distruttivo nella vita di Cesare Pavese; gli ha inferto una ferita dalla quale egli non si è mai più ripreso. Lo ha usato, finché la cosa le ha fatto comodo; poi lo ha scaricato senza tanti complimenti; da ultimo, gli ha vibrato il colpo basso (nel vero senso della parola) di respingere le sue avances, rimproverandogli il fatto — vero o no, il punto è un altro – di essere impotente, cioè umiliandolo nella sua virilità. Come angelo della distruzione, non c’è male davvero.

Naturalmente, quando qualcuno soffre per amore, i casi sono due: o si è illuso, o è stato illuso. Se si è illuso, allora ha fatto ogni cosa da solo; se è stato illuso, esiste una responsabilità morale di colui, o colei, che ha generato l’illusione, e provocato la successiva delusione. A quel che ci è dato capire, la vicenda di Pavese rientra nella seconda tipologia: se la donna non avesse tirato le cose in lungo, perché lui le faceva comodo come pedina del suo gioco, il disinganno sarebbe arrivato prima e, probabilmente, sarebbe stato meno crudele. La crudeltà verso l’altro, a sua volta, può essere di due specie: volontaria o involontaria. Se è volontaria, non ha scusanti; se non lo è, la cosa attenua, in parte (mai, però, del tutto), la responsabilità morale. Di nuovo, si direbbe che la donna amata da Pavese rientri nella categoria meno simpatica: quella di coloro che agiscono in maniera crudele verso l’altro, sapendo benissimo quel che stanno facendo. Semplicemente, se ne infischiano delle conseguenze: se l’altro soffrirà, la cosa non li riguarda. Che se la sbrighino un po’ da soli: dopotutto, non possono fare gli eterni bambini.

Nella psicologia di questa donna, d’altra parte, convergono due ideologie che contribuiscono a spiegare la disinvoltura del suo comportamento: il femminismo e il comunismo. Secondo l’ottica femminista, fra il genere maschile e quello femminile è in atto, da sempre, una lotta sorda e senza esclusione di colpi. Da molto tempo i maschi si sono assicurati un ruolo dominante nella società, e le femmine si trovano ad essere sfruttate, in tutti i sensi. In fondo, è la variante di genere della lotta di classe insegnata da Marx: il maschio sfruttatore sta alla borghesia come la femmina sfruttata sta al proletariato. Ma verrà il giorno della riscossa: la donna riconquisterà le funzioni e la dignità che l’uomo le ha strappato, usurpandole: allora ci sarà la resa dei conti. Per le femministe moderate, la donna, vittoriosa, si comporterà in maniera più generosa del maschio, e si accontenterà di aver conquistato la perfetta parità di genere: sessuale, sociale, giuridica; per quelle più estremiste, la donna si prenderà la sacrosanta rivincita e si farà giustizia, da se stessa, per tutto il male ricevuto: allora sarà bene che il maschio incominci a tremare, perché sarà giunto il dies irae. Non sappiamo se la donna amata da Pavese fosse una femminista dichiarata e militante, ma certo lo era come forma mentis e come atteggiamento di vita complessivo, cioè lo era nella sostanza.

Il fatto di essere una militante comunista rendeva il suo femminismo ancora più duro e spigoloso. I comunisti rientrano nell’antropologia fondamentalista: per loro non esistono sfumature, né mezze misure. Le cose sono molto semplici: per loro, da una parte sta il Male, dall’altra il Bene; tutti quelli che stanno di qua sono buoni, e tutti quelli che stanno di là, sono malvagi. Non sono ammesse eccezioni individuali: dimmi in quale classe militi e ti dirò chi sei e come meriti d’essere trattato. La giustizia proletaria sarà inesorabile: nessuno è innocente, se non sta dalla parte giusta; e qualsiasi tipo di clemenza sarebbe una debolezza, cioè una colpa. Il marxismo è una forma esasperata di manicheismo: ennesima conferma della intuizione di Chesterton, che le ideologie moderne altro non sono che schegge impazzite di antiche virtù cristiane. La forma mentis del vero comunista è un misto di sospettosità cronica, invidia travestita da senso della giustizia, e furore egualitario di matrice giacobina: Vyšinskij è l’esatta duplicazione di Torquemada, ma senza il correttivo del perdono evangelico. Incorrere nella scomunica comunista equivale alla dannazione definitiva, senza appello. Inoltre, il vero comunista non dubita mai di sé, né, a maggior ragione, della sua causa: non lo potrebbe, perché la sua causa è il Bene, e il Bene è auto-evidente. Chi non sta dalla sua parte o è un nemico, o un traditore: tertium non datur.

Questi due tratti sono caratteristici del modo di agire della donna amata da Cesare Pavese: lo stesso cinismo, la stessa durezza, la stessa totale incapacità di mettersi nei panni dell’altro, di tentare di comprenderlo, di provare compassione per lui. L’avergli rinfacciato la sua scarsa virilità è stata la ciliegina sulla torta: una specie di firma in calce al documento. Ciascuno di noi ha il suo stile; lo stile di una persona emerge con particolare evidenza quando si tratta di chiudere un rapporto con qualcuno che ci ama e che anche noi, forse, abbiamo amato, o verso il quale, comunque, abbiamo provato qualcosa. Saper chiudere con generosità, con benevolenza, con senso della misura, è proprio delle anime nobili; infierire crudelmente su qualcuno che sta già soffrendo, è proprio delle anime volgari. Povero Pavese, in che mani era finito: difficile dire se fu più sfortunato Leopardi, che mai ebbe il conforto d’un amore di donna, o lui, che venne illuso e poi respinto come un paria…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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