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Il favoloso mondo del canonico Schmid, ovvero: cosa scrivere per i bimbi, e come?

Quali devono essere le caratteristiche specifiche di una letteratura rivolta all’infanzia; a quali valori si deve ispirare; verso quali fini deve indirizzare l’animo dei giovani lettori e delle giovani lettrici, i quali si accostano forse per la prima volta al magico mondo del libro?

Oggi che la letteratura per l’infanzia è, praticamente, in agonia e quella per l’adolescenza è addirittura estinta, sostituita da furbi romanzi commerciali che stuzzicano la (falsa) coscienza dei giovani, illudendoli d’essere divenuti precocemente adulti, ma senza doversi sobbarcare i sacrifici e i doveri a ciò connessi, sembra un’impresa difficile quella di risalire indietro nel tempo, a quando una letteratura per l’infanzia, in pratica, non esisteva affatto.

Eppure tale era la situazione in Europa agli inizi del XIX secolo: nessun intellettuale, neanche gli illuministi con la loro febbre di libertà e di emancipazione del pensiero, neanche il "pedagogista" Rousseau (che metteva all’ospizio dei trovatelli, uno dopo l’altro, tutti i suoi figli), così innamorato del "buon selvaggio" e di quella particolare specie di "buon selvaggio" che è, secondo lui, il bambino, avevano pensato che scrivere per i bambini e gli adolescenti è una vocazione letteraria specifica, distinta dal quella della letteratura "adulta" (a meno di considerare i bambini, puramente e semplicemente, come dei piccoli adulti in attesa di crescere), la quale s’intreccia e si integra con la pedagogia, perché non può essere abbandonata al caso o al capriccio, ma s’inscrive in un progetto educativo che deve avere una sua ampiezza di prospettiva, una sua coerenza interna, una sua logica ed un suo particolare stile comunicativo.

È stato merito del Romanticismo l’aver messo sul tappeto tale questione e avere richiamato l’attenzione del mondo della cultura, e specialmente delle lettere, sulle tematiche della narrativa per l’infanzia, facendone un nuovo genere letterario, distinto sia dalla favola e dalla fiaba tradizionali, sia dal romanzo di fantasia, d’avventura e d’invenzione, ma rivolto ad un pubblico di adulti. Il fatto che alcune celebri opere, inizialmente dirette a un pubblico adulto e poi entrate, a buon diritto, nel panorama della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza (dal «Robinson Crusoe» di Daniel Defoe a «Quindicimila leghe sotto i mari» di Jules Verne); che alcuni capolavori della letteratura mondiale siano stati riscritti e riadattati per un pubblico giovanile (come la versione in prosa dei drammi e delle commedie di Shakespeare dei fratelli Lamb); e che opere per l’infanzia siano rivolte anche, più o meno sotterraneamente, ad un pubblico adulto (dal «Pinocchio» di Carlo Collodi al «Tartarino di Tarascona» di Alphonse Daudet) non modifica questo fatto, né sposta di un millimetro i termini della questione; semmai, dimostra quanto ci sia voluto perché gli intellettuali si facessero persuasi di una verità tanto semplice: che non ci si può rivolgere ai bambini allo stesso modo in cui ci si rivolge agli adulti, nemmeno per iscritto.

Potremmo, semmai, osservare che la letteratura per l’infanzia nasce quando nasce l’idea moderna dell’infanzia, cioè di una età in cui l’essere umano non è, semplicemente, un adulto in attesa di diventare tale, ma qualche cosa di diverso, di autonomo e di specifico. E potremmo anche osservare che, prima della modernità, per la fantasia dei bambini erano sufficienti le fiabe e le favole, oltre ai racconti del nonno o della nonna: il che accadeva prima della alfabetizzazione sistematica promossa, non sempre e non solo per ragioni puramente filantropiche e disinteressate, da parte del potere politico. Ma tutto questo ci porterebbe troppo lontano, per cui ci riserviamo di tornarvi sopra in altro momento; qui, per adesso, ci è sufficiente fare mente locale su quando, al principio dell’800, una vera e propria letteratura per l’infanzia, in Europa, ancora non esisteva.

Ebbene: fu allora, nella Germania profonda, nella provincia bavarese — l’unità politica del mondo tedesco era ancora di là da venire — che si mise in luce una interessante figura di prete-scrittore, il cui interesse letterario, appunto, era rivolto al mondo dell’infanzia: il canonico Christoph von Schmidt (nato a Dinkelsubuhel nel 1768 e morto ad Augusta, per una epidemia di colera, nel 1854), che fu, per molti anni, il direttore di una scuola a Thannhauser, nella quale insegnava egli stesso ai bambini, e che scrisse una mola prodigiosa di libri per l’infanzia, a cominciare da una versione della Bibbia destinata ai piccoli lettori.

Egli voleva portare il messaggio cristiano, e diffondere i valori religiosi, in un contesto storico che, in Europa, e quindi anche nella sua Baviera, era ancora quello dell’Ancien régime, mentre la Rivoluzione francese già si accingeva ad abbatterlo e a creare, insieme alla Rivoluzione industriale, il nuovo sistema sociopolitico, economico e culturale della modernità, con la sua drammatica frattura rispetto al passato e con la sua negazione dei valori tradizionali. Christoph von Schmid aveva studiato teologia ed era stato ordinato prete nel 1791; fu poi parroco a Oberstadion, un paesino del Württemberg, indi canonico nella cattedrale di Augusta. La sua specifica vocazione fu quella di parlare ai bambini, attraverso i suoi libri, di quei valori che il vento massonico e anticristiano delle rivoluzioni — quelle liberali dapprima, indi quelle democratiche del 1848-49 – si proponeva di sradicare e spazzare via. Per lui, la cosa migliore era leggere i libri ai bambini, invece di lasciare che li leggessero da soli: e così faceva loro nella sua scuola, al termine delle lezioni, presentando la cosa come un premio per i più meritevoli. Eppure il successo di pubblico fu tale, che le sue opere entrarono di prepotenza nel mercato editoriale e vennero tradotte in più di venti lingue.

Così descrive la sua figura e la sua opera letteraria lo studioso Aldo Cibaldi nella sua «Storia della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza» (Brescia, La Scuola Editrice, 1967, 1985, pp. 336-37):

«Una lunga vita quella del canonico Schmid, ispettore scolastico del distretto di Tannhausen sul Mindel: visse dal 15 agosto 1768 al 3 settembre 1854. Era un uomo pratico di scuola e provveduto di un vivace spirito organizzativo. Scrisse moltissimo per fanciulli e per ragazzi; iniziò anzi la sua attività durante lo sboccio del romanticismo e la continuò nel fiore di tale età; sembra però le sia vissuto in disparte,senza ascoltarne le voci drammatiche e inquiete.

Il primo libro di successo dello Schmid è del 1816: "Uova di Pasqua" ("Ostereier"). Il titolo della raccolta è quello di uno dei racconti che vi figurano, imperniato sulla nascita della tradizione delle uova di Pasqua. Fin dal 1810 lo scrittore aveva però cominciato la lunga collana dei suoi "Racconti morali", alla quale seguirà il "Piccolo teatro per l’infanzia". Raccontini, apologhi, brevi e rapidi episodi nei quali si inquadra sempre un insegnamento preciso e determinato. Di solito si "ribadiscono certi elementari concetti della saggezza popolare: bontà premiata, ma più spesso cattiveria punita; norme igieniche e inviti alla cortesia; e soprattutto un incoraggiamento a quella saggia scaltrezza, a quel buon senso che, attraverso un opportuno contrasto di contrari, tutti i favolisti si sono preoccupati di dare, da Esopo agli scrittori biblici e a Fedro" (Antonio Lugli, "Storia della letteratura per l’infanzia", Firenze, Sansoni, 1961, p. 115).

A tutto ciò si deve aggiungere che lo Schmid pecca di eccesso di schematizzazione: egli divide legnosamente il bene dal male, la cortesia dalla villania, la bontà dalla cattiveria, l’imprudenza dalla prudenza, ecc. Ciò che tuttavia riesce particolarmente strano in un uomo dalla solida religiosità dello Schmid, è il continuo e irrazionale peso del destino che si avverte nei suoi racconti. A un certo punto, non si riesce a capire bene nemmeno il posto occupato nel suo pensiero dalla Provvidenza.

Questi fatti procurano al canonico bavarese, vicendevolmente, critiche e consensi. Dobbiamo però riconoscergli qualche felicità di parola e di racconto; e soprattutto il merito di aver dato un contributo alla nascita d’una specifica letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. Quando il nostro canonico iniziava il suo lavoro, per il fanciullo c’era poco o niente: si spiega così la risonanza a livello europeo delle sue opere. Quando non la si debba spiegare, come è il caso dell’Italia, con la fortuna di aver incontrato una traduttrice del gusto di Maria Pezzè-Pascolato: dovremmo dire della felice infedeltà delle sue traduzioni.»

Troppo facile la morale del canonico Schmid? Troppo incline a premiare i buoni e punire i malvagi, così, senza sfumature, separando il bene dal male in maniera un po’ legnosa? Forse. Ma siamo proprio sicuri che questo sia un difetto? Prendiamo il caso di uno dei suoi romanzi più famosi, più apprezzati e più tradotti all’estero: «Rosa di Tannenburg», scritto mentre l’Autore svolgeva il suo servizio di parroco a Oberstadion, e pubblicato nel 1823. La vicenda è ambientata nel profondo Medioevo feudale tedesco, nella regione della Svevia (e non della Svezia, come ha inteso un improvvido traduttore italiano, di cui non facciamo il nome, in una edizione abbastanza recente del romanzo!), in mezzo alle lotte incessanti fra signorotti rivali, castelli turriti, eserciti in marcia, bionde e gentili castellane, inseguimenti, colpi di scena, crudeltà ed eroismi.

Su questo sfondo corrusco e affascinante spicca la figura della protagonista, una nobile fanciulla cristianamente educata dai suoi bravi genitori, il cavaliere Edelbert e la pia Mathilde: Rosa di Tannenburg, che è il simbolo della bontà e della purezza e che si mantiene sempre fedele a se stessa e ai valori ricevuti, pur in mezzo ad esperienze assai dure e difficili. Rimasta orfana di madre ancora giovanissima, deve fuggire insieme al padre a causa dell’assalto al loro castello da parte di un cavaliere nemico, Kunerich: è un evento drammatico, che spezza bruscamente il filo della sua infanzia serena e spensierata. Il padre viene fatto prigioniero e la fanciulla si rifugia nei boschi, dove trova aiuto e ospitalità presso la famiglia di Kohler Burkhard, un vassallo di suo padre: la moglie e la figlia di costui si affezionano a Rosa come fosse una loro congiunta. Quindi, avendo saputo dove il padre si trova imprigionato, Rosa si presenta al castello e riesce a farsi assumere come semplice cameriera, con la segreta intenzione di aiutarlo a fuggire: sopporta fatiche e maltrattamenti pur di restare fedele alla missione che si è data. Durante una assenza di Kunerich, il figlio di costui cade nel pozzo e morirebbe miseramente, se Rosa, generosa come è nella sua natura, non si precipitasse a salvarlo, guadagnandosi l’eterna gratitudine della madre di lui; al punto che, pur avendo scoperto la sua vera identità, ella si guarda bene dal denunciarla. Quando Kunerich torna al castello e apprende del pericolo corso da suo figlio, e di come è stato salvato, si commuove profondamente, ed è allora che sua moglie gli rivela chi sia realmente Rosa: colpito dalla bontà della figlia del suo nemico, il castellano decide di riconciliarsi con lui, lo rimette in libertà e gli restituisce il suo castello, con tutti gli arredi che erano stati trafugati.

È, a suo modo, un romanzo di formazione: l’eroina passa attraverso numerose e difficili prove e diventa donna, imparando ad affrontare gli aspetti dolorosi della vita, confidando sempre in Dio e serbando il tesoro della fede in Lui. Una bella storia, e con un lieto fine: scritta molto bene, con uno stile semplice, ma nitido, avvincente, che cattura ed esalta la fantasia del lettore, e che risveglia in lui i migliori sentimenti che giacciono nel profondo dell’anima. Può darsi che i piccoli lettori di oggi la troverebbero troppo edificante, troppo zuccherosa: ma questo perché non è una storia adatta all’infanzia, oppure perché gli adulti, oggi, hanno disimparato a educare i bambini, e hanno trasmesso loro quel senso di perenne insoddisfazione, quella malizia sottile, quel triste disincanto del mondo, da cui sono afflitti essi per primi? Se i libri del canonico Schmid non sono più proposti ai bambini di oggi (ma lo erano, e con successo, fino a pochi anni fa!), è davvero perché i bambini di oggi vogliono masticare altre pietanze, oppure perché gli adulti, avendo smarrito un chiaro e coerente progetto educativo, credono di dover offrire alla lettura dei bambini e dei ragazzini le storie insulse e demenziali della Fata Carabina di un Daniel Pennac, credendo di venire incontro alla loro fantasia di bambini moderni (cioè viziati e nevrotici), mentre la fantasia dei bambini è atemporale, si nutre di qualsiasi cosa, purché sappia trovare la chiave del loro mondo segreto e incantato? Forse bisognerebbe ripensare la letteratura per l’infanzia alla luce di questa riflessione.

Siccome l’uomo contemporaneo è triste e disincantato, malato di spleen e attanagliato dall’angoscia e dal senso di colpa del consumista incallito, egli crede che i bambini soffrano della sua stessa malattia, e che bisogni proporre loro le cose che piacciono a lui, o che gli dispiacciono meno: sempre per l’incorreggibile vizio di non vedere nel bambino un essere a sé, ma un ometto non ancora cresciuto. E se invece i bambini fossero molto più "sani" di quel crediamo, se solo li lasciassimo un po’ più liberi d’essere ciò che effettivamente sono, cioè semplicemente dei bambini?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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