
Il pensiero di Giuseppe Toniolo sul rapporto tra fede, ragione e storia
2 Dicembre 2015
L’uomo medievale vive in un mondo di simboli che gli indicano la strada del Cielo
2 Dicembre 2015Il tratto fondamentale della civiltà moderna è il rifiuto del limite: tutto il resto — il materialismo, l’edonismo, lo scientismo, il relativismo, il superomismo, il nichilismo — tutto il resto, con logica assolutamente rigorosa, è una conseguenza di questo fatto.
Ebbene: il rifiuto del limite, che proietta l’uomo verso l’assoluto, è anche la sua maledizione: perché il limite umano non può essere superato; per cui, rifiutandolo, ciò che egli trova è solo la sconfitta, a cominciare dalla sconfitta della morte, e la più amara delusione, che degenera in uno stato di angoscia e disperazione permanente.
Che fare, dunque, se, da un lato, l’uomo non può fare a meno di tendere al di là di se stesso, ma, dall’altro, non può fare a meno di riconoscere il proprio limite, e, dunque, di riconoscersi vinto, sconfitto, mortale? È dunque, l’intera vita umana, l’intero corso della storia umana, una tragica farsa, una beffa ed un circolo vizioso, nel quale si esplicano quelle stesse forze che, trovando la porta sbarrata, si ritorcono contro se stesse, generando ancora più angoscia e sempre maggiore disperazione? È dunque l’uomo condannato alla pazzia?
No: non solo non è condannato alla delusione, alla disperazione, alla sconfitta e alla pazzia; al contrario, egli è chiamato alla piena e luminosa realizzazione di sé: ma non nel senso che a queste espressioni dà il "mondo" — usiamo l’espressione nel significato, decisamente negativo, che essa ha nel quarto Vangelo -, ma in un senso nuovo e diverso, che presuppone, da parte sua, una vera e propria rivoluzione copernicana interiore.
Eppure non si tratta affatto di un paradosso, e nemmeno di una sorta di auto-consolazione forzata: si tratta di un percorso di una linearità e di una consequenzialità assolute. L’uomo vorrebbe trascendere il proprio limite, ma non lo può: se si ostina nel tentativo, non potrà che evocare fantasmi paurosi, generare mostri, e divenire un mostro egli stesso. Se, viceversa, egli accetta il proprio limite — un limite che non è storico, ma ontologico; che non dipende da un determinato stadio di evoluzione scientifica, o tecnologica – o, comunque, materiale – ma è connaturato alla sua struttura biologica e psichica, allora, e solo allora, resosi conto della sua effettiva impotenza, della sua finitezza, della sua caducità, gli viene offerta l’occasione di gettare uno sguardo sull’orizzonte altro: quello in cui chi si umilia viene esaltato, e chi si annienta, trova il suo principio, il suo scopo, il suo fine: «l’Amor che muove il sole e l’altre stelle».
Non ci sono alternative: tertium non datur. All’uomo sono concesse solo due strade: essere quel che deve essere, nell’unione con Dio; essere niente, e quindi trasformarsi in un demone della disperazione, senza Dio e contro Dio. La sua libertà consiste in questo. Non è una libertà assoluta: se lo fosse, egli sarebbe Dio; è una libertà relativa e condizionata. Ma è da essa che dipende il suo destino; ed è, nonostante tutto, nelle sue mani. Se sceglie per Dio, tutto in lui trova il suo perfezionamento e il suo compimento: intelligenza, volontà, cultura, senso del bello, del giusto, del vero; se sceglie contro Dio, le sue stesse potenzialità gli si rivoltano contro, diventano esplosive, distruttive, laceranti: la sua intelligenza si trasforma in pazzia; la sua volontà, in delirio; il suo sapere, in ignoranza; il suo desiderio di bene, di verità, di giustizia, di bellezza, nel loro esatto contrario, travolgendolo in una spirale negativa senza fine, perché senza possibilità di redenzione. L’uomo, infatti, non può redimersi da solo: può fare molte cose, ma questa non la può fare. Non può redimersi, perché non sa perdonarsi. Non ci si lasci ingannare dalle apparenze: può sembrare che gli uomini, e specialmente gli uomini malvagi, si auto-assolvano con molta facilità, ma è solo apparenza; nel profondo, il senso di colpa li divora, li acceca, li rende folli, li trascina verso la nemesi. E questo perché il senso della giustizia è inscritto nell’anima umana, fin dal principio: la coscienza non è, come volevano gli illuministi e i sensisti, una tabula rasa; al contrario: la legge morale naturale è presente nella coscienza di ciascun essere umano, anteriormente all’educazione e all’influsso ambientale. Avere in se stessi la legge naturale, infatti, significa che la legge morale è secondo natura: pertanto, chi la infrange, chi la viola, chi la deride, va contro la natura e ne risente le conseguenze. È una cosa che si può fare, perché l’uomo possiede il libero arbitrio: ma c’è un prezzo da pagare. Non si va impunemente contro la natura: e la legge morale fondamentale è secondo natura; anche se, nelle sue manifestazioni storiche, essa riflette un determinato momento e un determinato ambiente.
Bernard Ronze è stato uno scrittore e un pensatore che ha particolarmente approfondito questi temi.
Accostarsi alla sua personalità e alla sua opera, significa andare incontro a parecchie sorprese. Chi abbia letto uno dei suoi libri, magari acquistato alla bancarella di qualche mercatino dell’usato, si rende conto, immediatamente, di essere in presenza di un autore che ha qualcosa da dire, e che sa dirlo con forza, con chiarezza, con estrema concisione; di un uomo che deve aver molto riflettuto prima di mettersi a scrivere, e che, palesemente, non era interessato a far parlare di sé, ma a suscitare interesse rispetto ai temi della vita spirituale. E già questa è una cosa insolita: in un establishment culturale ove quasi tutti, chi più, chi meno, sgomitano e si azzuffano per conquistare la luce dei riflettori, mettono il petto in fuori per attribuirsi meriti e benemerenze, vantano veri o supposti diritti di priorità (e quindi, se possibile, di proprietà) rispetto a questa o quella idea, questo o quel ragionamento, eccoci al cospetto di un saggista sobrio e discreto, che non cerca la notorietà, ma che vuole invitarci – quasi da amico, quasi in sordina – a pensare, o ripensare, i valori essenziali sui quali abbiamo impostato la nostra vita.
Ma c’è dell’altro. La cultura filosofica contemporanea, e specialmente quella francese (che si è irradiata nel resto d’Europa e del mondo, a partire dalla stagione illuminista dei philosophes, e fino alla stagione esistenzialista degli intellettuali del Quartiere Latino, con la sigaretta all’angolo della bocca e l’impermeabile dalla Humphrey Bogart), si qualifica, per definizione, come progressista, laicista, ateista, "rivoluzionaria" (di qualunque rivoluzione si tratti: perché, come disse qualcuno nel Maggio del ’68, la beauté est dans la rue, la bellezza è nella strada); mentre Bernard Ronze è stato, evidentemente, tutt’altro che un rivoluzionario e un "progressista". Nato il 2 giugno 1927 a Saint-Mandé, nel dipartimento della Valle della Marna, regione dell’Île de France (per i curiosi delle coincidenze, la stessa cittadina che avrebbe dato i natali, due anni dopo, nel 1929, all’attore Bruno Cremer, il futuro ispettore Maigret della Televisione francese), e percorse regolare carriera di funzionario statale, divenendo Ispettore generale delle Finanze, carica che ricoprì a varie riprese, fra il 1956 e il 1979, oltre a numerosi altri incarichi per conto della Pubblica amministrazione.
A lato di questa carriera così borghese, Bernard Ronze ha coltivato, per tutta la vita, la vocazione alla scrittura: non di romanzi, ma di una serie assai nutrita di saggi, tutti incentrati sui grandi problemi morali dell’uomo moderno, sul mistero della fede, sul senso dell’esistenza e della storia; e, nello stesso tempo, ha collaborato attivamente alla rivista «Études» (sottotitolo: «Studi di teologia, di filosofia e di storia»), una prestigiosa testata cattolica che usciva una sola volta l’anno (e che esiste ancora, ma è diventata mensile), la quale è stata fondata nel 1856 da un diplomatico russo residente a Parigi e convertitosi al cattolicesimo, Ivan Gagarin, il quale si fece prete, entrò nell’Ordine dei Gesuiti e si propose di riportare il suo Paese natale nell’ambito della Chiesa romana. Oggi, sia detto fra parentesi, la rivista è caduta molto in discredito e anche le sue vendite sono precipitate; i suoi fedeli lettori la stanno abbandonando, perché non capiscono più il suo attuale orientamento. Basti dire che, per un malinteso senso di solidarietà con la rivista, irreligiosa e blasfema, «Charlie Hebdo», dopo il sanguinoso attentato terroristico del 7 gennaio 2015, i gesuiti che la dirgono hanno deciso di ripubblicare, a loro volta, una serie di vignette anticattoliche "incriminate"; cosa che ha suscitato una viva indignazione e la pronta reazione di un altro gesuita, Jean-François Thomas, il quale ha deprecato la "libertà di blasfemia" e richiamato i suoi confratelli a recuperare "un po’ di buon senso".
Tornando a Bernard Ronze, ricordiamo i titoli dei suoi libri, poco conosciuti e pochissimo tradotti in Italia: «L’homme de quantité» (1977), «L’homme de foi» (1988), «L’homme de Dieu» (1979), «Faire la verité ou l’Evangile et le comportement» (1983), «Le Dernier repas ou l’avènement du réel» (1990), «La Mére du Christ ou la vraie Structure de la Révélation» (1996), «L’essence du Christianisme» (1996), «Le Christ, Réalité nouvelle» (1997).
Ha scritto Bernard Ronze nel secondo volume della sua trilogia antropologica «L’homme de foi» (Paris, Desclée de Brouwer, 1978; titolo italiano: «L’impossibile fa parte del reale», traduzione dal francese di Padre David Turoldo, Roma, Edizioni Paoline, 1981, pp. 46-47):
«L’idea di limite sta al centro dello spirito di fede e del suo trasferimento nel reale. Gli dà radici, forza e linguaggio. Radici. La fede ha per condizione un successo: nella ricerca dell’"essere", questo sogno vano, tenace e catturante dei filosofi; nella ricerca dell’anima. Come entrare in noi, quando tutto vi esce? Nella ricerca del perdono: se vi è una cosa di cui siamo incapaci, è proprio quella di perdonare a noi stessi. Essa scava nell’uomo un foro gigantesco, senza bordo né fondo: esistenza fuggente, anima fuggitiva, colpa vivente, ecco che cos’è, sotto il suo dominio, la nostra verità senza maschera né orpelli. Forza. Dalla natura alla libertà, dalla storia al destino, dalla ripetizione alla novità, tutti passaggi al limite. Più profondo il punto in cui noi cadiamo, più potente è la spinta che ci fa risalire. Infine, il linguaggio. Il limite ha una funzione misteriosa. Non si tratta di superarlo: perderebbe il suo carattere e ciò che ne deriva. Al contrario, è proprio per l’impotenza in cui ci affonda che ci apre a una realtà differente di cui è segno. Noi lo percepiamo, del resto, attraverso la parola e l’amore: quella ne è l’espressione continua, questo non vive che per essa. All’orgoglioso concetto dell’essere, alle fiere costruzioni di cui è il materiale, succede allora un’"ontologia" dell’umiltà: l’uomo di fede è prima di tutto un mendicante.
Per questo il rifiuto del limite si identifica con il rifiuto del sacro. Distinguere quest’ultimo dal profano significa distinguere ciò di cui l’uomo è definitivamente incapace da quello di cui è capace. Cerniera fra il mondo e il regno, il limite ci imprigiona nel mondo, se noi lo rifiutiamo; ci libera nel regno, se lo accettiamo. Traviamento, perversione nel primo caso; capovolgimento, conversione nel secondo. Da qui l’inversione permanente del Vangelo: a che cosa serve all’uomo guadagnare l’universo? Chi perde la sua vita per causa mia… Da qui le sue divisioni implacabili: padre contro figli, figlio contro padre. Niente di straordinario, se il mondo non tollera una fede che rovescia i suoi sogni, gli parla attraverso la morte e lo rimanda incessantemente alla sua colpa. Un mondo che non sa di essere caduto, non ha bisogno dell’anima, irride il perdono, ne ha poca esperienza. Un mondo immortale, che aspira all’illimitato, ha forzatamente in orrore la fede. È una curiosa idea quella di cercare, come le chiese oggi, di trovarle un aspetto meno turbante, meno sconcertante, quando per natura essa sconvolge, di darle una figura più umana, quando essa ha i tratti dello scandalo. La sua parola è sempre dura da intendere, il suo linguaggio sempre troppo forte: chi può ascoltarlo? Addolcirlo, difendersene, vuol dire adeguarsi al mondo e ai suoi pensieri. La fede non deve essere accettata: va dall’inaccettabile all’inaccettabile.»
Rifiutare il limite, significa rifiutare il sacro; rifiutare il sacro, significa rifiutare la condizione creaturale: vale a dire pretendere per sé la condizione del sacro. Di qui nasce l’idolatria delle cose, dei disegni umani e dell’uomo stesso: idolatria che sfocia in una diabolica contraffazione del sacro. L’abbiamo vista più volte, per esempio con l’hitlerismo e con lo stalinismo; oggi essa si esprime in forme più subdole e sottili, ma non meno totalitarie, né meno sacrileghe.
Dovrebbe far riflettere il plauso che certa cultura laicista e massonica riserva a quei cattolici e a quegli esponenti della Chiesa i quali, per un senso malinteso di rispetto della diversità, rinunciano alla propria cultura del sacro: qui il senso del limite è stravolto e trasformato in pretesto per distruggere il sacro in quanto tale e non per rispettare le "altre" concezioni di esso. I cristiani progressisti e modernisti, che si sforzano di togliere al Vangelo il pungiglione dello scandalo, forse perché desiderosi di piacere al "mondo", tradiscono se stessi e abdicano alla loro ragion d’essere: ricordare a tutti che, se viene meno l’umano senso del limite, la storia diventa un autentico Inferno…
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