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È la «rivoluzione verde» la strada per fronteggiare il crescente bisogno di cibo?

L’immaginario moderno, a partire dalla Glorious Revolution inglese del 1688, dalla Rivoluzione americana del 1776 e da quella francese del 1789, ha ormai introiettato l’idea che "rivoluzione è bello", e nemmeno i disastri del comunismo e del capitalismo messi insieme sono riusciti a modificare tale percezione, che non è più il risultato di un meccanismo razionale, ma di un mero riflesso condizionato.

Pertanto, nulla di più facile, per contrabbandare come buona e bella una determinata cosa, oltre che inevitabile (per cui sarebbe vana fatica, se non autentica follia, il volerla contrastare), che etichettarla come "rivoluzione": e il gioco è fatto. Si parla, così, più o meno a sproposito, di rivoluzione scientifica; di rivoluzione dei trasporti; di rivoluzione informatica; di rivoluzione femminista; di rivoluzione sessuale; di rivoluzione culturale; e perfino di rivoluzione dell’arte, del pensiero, dell’educazione, dell’uomo — sempre in senso elogiativo e celebrativo, ben s’intende. Come potrebbe una rivoluzione non essere per il meglio? Le rivoluzioni, si sa, sono figlie del progresso: si verificano quando l’orologio della storia si è fermato e qualcuno bisogna pure che riscuota i dormienti. Meno male che ci sono le rivoluzioni.

Fra le tante, tutte gloriose, tutte prodotte dall’avanzata del progresso, tutte buone ed auto-evidenti, spicca, nel secolo appena trascorso, la cosiddetta "rivoluzione verde": ossia quella nuova filosofia dello sviluppo, specialmente agricolo, che, negli anni che vanno dai Quaranta ai Settanta, ha consentito di aumentare notevolmente i raccolti e di rendere autosufficienti, dal punto di vista alimentare, vaste aree del pianeta, specialmente in Asia meridionale e in America latina (un po’ meno, per ammissione dei suoi stessi ammiratori, nell’Africa sub-sahariana). In buona sostanza, si è trattato di questo: fare larghissimo uso di varietà vegetali geneticamente selezionate (e, in anni a noi più vicini, geneticamente modificate), di fitofarmaci e di fertilizzanti, mirando ad un aumento quantitativo dei raccolti e senza andare troppo per il sottile quanto agli effetti collaterali a livello ecologico e ambientale; ma, soprattutto, senza fare domande indiscrete sul ruolo delle multinazionali alimentari, che vi hanno giocato la parte principale, e che, bene inteso, se ne sono assicurate, e continuano ad assicurarsene, i maggiori profitti.

Basti dire una cosa sola: che la cosiddetta "rivoluzione verde" ebbe inizio nel 1940, allorché la Fondazione Rockefeller — un ente notoriamente disinteressato e filantropico, come non c’è bambino al mondo che non sappia — fondò un Istituto avente lo scopo di aumentare la produttività delle proprie fattorie situate in territorio messicano. Il fatto che per tale operazione, ribattezzata furbescamente "rivoluzione verde", e pensata, fin dall’inizio, per implementare i profitti delle multinazionali e non certo per soccorrere le necessità alimentari e favorire l’autosufficienza economica delle nazioni del Terzo Mondo, sia stato creato anche un apposito santo patrono, lo scienziato americano Norman Ernest Borlaug, al quale è stato conferito, manco a farlo apposta, il premio Nobel per la Pace nel 1970, non dovrebbe far perdere di vista il punto essenziale della questione: che mai si sono viste le multinazionali dare qualcosa gratis a chicchessia, e, meno ancora, lavorare per rendere indipendenti dalla loro stretta le nazioni povere del pianeta. Tanto varrebbe farci credere che Dracula il Vampiro è un cittadino esemplare, iscritto a qualche associazione per la donazione del sangue: eppure, questo è esattamente ciò che si è voluto far credere e all’opinione pubblica mondiale. E si è arrivati vicinissimi al successo completo in una simile operazione di lavaggio del cervello.

In un classico studio ormai vecchio di trent’anni, ma più che mai attuale, con la sola eccezione delle problematiche relative agli O. G. M. – le quali, del resto, hanno confermato in pieno in pieno il suo taglio fortemente critico -, Pat Roy Mooney poneva, fra l’altro, la scomoda domanda: «A chi giova la rivoluzione verde?» e così rispondeva (in: P. R. Mooney, «I semi della discordia», traduzione italiana di C. Mattiello, G. Ghini e C. Benelli Milano, Cleslav, 1985, pp. 42-44; titoli originali: «Seeds of the Earth. A Private or Public Resource?», Canadian Council for International Co-operatiomn, 1979, e «The Law of the Seed. Another Decvelopment and Plant Genetic Resources», The Dag Hammarskjöld Center, 1983):

«Chi ha ricavato i maggiori profitti? Quando, venti anni fa [vale a dire nel 1959], la Fondazione Ford istituì un programma intensivo di assistenza all’agricoltura, l’obiettivo era costituito dagli agricoltori di medio livello. La teoria allora prevalente era che soltanto questi agricoltori avrebbero potuto affrontare i rischi insiti nell’operazione e solo loro avrebbero potuto dimostrare di possedere la creatività necessaria per rispondere alla nuova tecnologia. Perelman riferisce come questa teoria sia stata applicata in Pakistan. "Secondo la stima della Banca mondiale, in Pakistan per ogni trattore acquistato vengono eliminate da 7,5 a 11,8 unità lavorative a tempo pieno… Dopo l’acquisto di un trattore, le dimensioni medie delle fattorie aumentano del 240% in tre anni, soprattutto attraverso l’espulsione dei fittavoli."

Il tasso d’occupazione per acro coltivato è crollato del 40%. Le stime relative all’Indonesia arrivano alla conclusione che soltanto il 25% degli agricoltori ha tratto in qualche modo beneficio dalla "rivoluzione".

Di ritorno in Messico, dove tutto è cominciato, il personale della Fondazione Rockefeller ha candidamente ammesso che il loro lavoro non ha offerto molto aiuto ai poveri. E infatti, il risultati di questo tipo di sviluppo agricolo è stato una crescente urbanizzazione. I poveri sono stati espulsi dai propri campi e spinti nelle città, dove sono stati costretti a comprare costosi cereali prodotti nei medesimi campi, dove, un tempo loro stessi raccoglievano legumi economici.

Nel gir di venti anni i diversi sistemi agricoli del Terzo mondo e le relative strutture sociali sono stati sradicati, distrutti e sostituiti con il nuovo modello occidentale. Sia le colture che le economie asiatica, africana e latinoamericana sono state lanciate nell’economia di mercato occidentale con il pretesto di dar da mangiare agli affamati.

Il Terzo mondo è stato trasportato in un sistema alimentare che non ha funzionato bene nemmeno nel Primo mondo e che è sul punto di distruggere ogni alternativa per le nazioni povere.»

L’erosione genetica si sta diffondendo nel mondo con la rapidità di un incendio in una prateria. Mentre la "rivoluzione verde" brucia quello che resta della nostra eredità di cereali, una tempesta di ibridi F1 sta spazzando via il germoplasma essenziale alla nostra frutta e alle nostre verdure. Le zone temperate sono già state devastate. I broccoletti di Bruxelles, originari della Cornovagia, sono scomparsi per sempre, e con essi i geni per la resistenza ad almeno un’importante malattia; gli olandesi hanno perso la cipolla "Zeeuwee Bruine" (quasi tutte le cipolle dell’Europa occidentale provengono attualmente dal tipo "Rijnsburger") e in tutti i casi, con la scomparsa di geni insostituibili e di valore inestimabile, sono andate perdute le varietà stesse. Così non rimangono atro che ibridi spiccatamente commerciali e fortemente uniformi.»

Anche nel caso delle verdure, la diversità del Terzo mondo è minacciata. In Egitto, dove le cipolle vengono coltivate almeno dal 5.200 a. C. l’unica varietà invernale rimasta è la "Giza 6 Improved". In Turchia, l’introduzione della bietola del tipo "Detroit Gobe" dalla Germania ha distrutto di colpo la diversità genetica della specie e in Cina, un paese che rappresenta per molte specie importanti del genere "Brassica" l’ultimo caposaldo, l’immissione di ibridi F1 ha portato sull’orlo ella estinzione molte varietà tradizionali.

Tuttavia c’è di peggio. Non sapremo mai che cosa abbiamo già perso. E anche la maggior parte di quello che stiamo perdendo attualmente resterà sconosciuta. In molte regioni del Sud non viene nemmeno registrata la sostituzione delle verdure tropicali tradizionali con quelle provenienti dalle zone temperate.

Le patate olandesi sostituiscono la manioca latinoamericana in India e il frumento del Messico conquista aree una volta occupate dal miglio. L’abbattimento delle foreste per ricavarne carburante o per alimentare l’industria del legname spazza via immensi tesori botanici, forse i più importati di tutti.

Ormai, il 10% delle specie vegetali di tutto il mondo viene considerato "in pericolo". Ogni tipo di pianta che scompare può trascinare con sé da 10 a 30 specie animali, da esse direttamente o indirettamente dipendenti.

Il biologo Thomas Lovejoy calcola che, se l’erosione continua alla velocità attuale, per la fine del secolo il mondo avrà perduto un sesto di tutte le sue specie viventi. Tutta la popolazione mondiale, dalla Svezia a Singapore, dipende da 30 piante. Non occorre essere amanti della natura per preoccuparsi della scomparsa delle specie vegetali.»

Riassumendo.

La cosiddetta "rivoluzione verde" ha prodotto una perdita sempre più drammatica della biodiversità, con una riduzione fino al 90% della varietà delle sementi; una dipendenza sempre più marcata dai combustibili fossili quali fonti energetiche, con tutte le conseguenze ecologiche, economiche, politiche, che ben conosciamo; l’avvelenamento chimico dei terreni, delle falde acquifere e degli stessi prodotti alimentari (anche di quelli animali), mediante l’uso indiscriminato dei fertilizzanti chimici, dei diserbanti e degli antiparassitari; una sempre più accentuata dipendenza dei Paesi del Sud della Terra dalle multinazionali, dipendenza che è tanto più evidente, laddove la "rivoluzione verde" ha riportato, secondo i suoi celebratori, i più spettacolari successi, ad esempio nell’area del subcontinente indiano.

Il fatto che milioni di agricoltori indiani siano diventati praticamente degli schiavi della Monsanto, alla cui dittatura non possono ribellarsi, anche perché gli Organismi geneticamente modificati sono sterili e, quindi, essi dipendono da essa per le sementi necessarie ad ogni nuovo raccolto, tutto questo non è un segreto, anche perché sono state eseguite numerose inchieste giornalistiche, se non altro per il numero crescente di agricoltori che si sono suicidati, essendosi resi conto di avere infilato la testa nel cappio di un inesorabile meccanismo usuraio, al quale non è possibile sottrarsi, una volta fatto il primo passo. E, nondimeno, c’è ancora chi parla della "rivoluzione verde" come di uno dei grandi successi umanitari e scientifici del XX secolo; come di un modello vincente, da imitare e da estendere ancor più, specie in vista della ulteriore crescita della popolazione mondiale, alla quale bisogna pur fare fronte sul piano della produzione alimentare.

Eppure, se fosse vero che la"rivoluzione verde" è stata un successo, non si capisce bene perché, a guadagnarci, siano state quasi solo le società multinazionali che l’hanno pensata, che l’hanno voluta, che l’hanno gestita in tutti i suoi passaggi. Certo: essa, nell’immediato, ha dato dei rilevanti risultati quantitativi: ma quei risultati si sono tradotti in una reale conquista di autonomia da parte delle popolazioni e degli Stati interessati? È difficile crederlo. È difficile, perché essa è stata orchestrata, e tuttora viene tenuta in pugno, da un potere finanziario che a tutto è interessato, tranne che al raggiungimento dell’autonomia e dell’autosufficienza da parte dei soggetti che l’hanno adottata; al contrario, esse sono interessate a prolungare indefinitamente e in ogni modo, senza arretrare davanti a nulla, quella dipendenza e quella debolezza strutturale. In altre forme, ovviamente: ma pur sempre dipendenza e pur sempre debolezza strutturale.

Che un contadino messicano, o nigeriano, o pakistano, sia dipendente dai crediti erogati da qualche istituto bancario, o che sia dipendente da una multinazionale che possiede il monopolio nella vendita degli Organismi geneticamente modificati, dai quali ormai dipende per sopravvivere, non fa molta differenza. Senza contare i costi aggiuntivi dovuti all’inquinamento, al rincaro dei combustibili fossili, alle malattie provocate dall’abuso dei fitofarmaci; e senza contare, come già detto, l’immane disastro, che tutti saremo chiamati a pagare – ricchi e poveri – della distruzione inesorabile della biodiversità a livello planetario.

È vero: la popolazione mondiale sta continuando ad aumentare a livello esponenziale. Qualcosa bisogna fare. Ma la strada tracciata dalla "rivoluzione verde", è quella giusta?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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