Al supermercato degli Angeli
6 Dicembre 2019
L’uomo senz’ombra è chi perde i legami col passato
7 Dicembre 2019
Al supermercato degli Angeli
6 Dicembre 2019
L’uomo senz’ombra è chi perde i legami col passato
7 Dicembre 2019
Mostra tutto

Come liberarsi dal puzzo della modernità

L’altro giorno, alla stazione di Padova, l’altoparlante ha dato uno strano annuncio: ha detto che il treno sul quale dovevamo salire era in ritardo perché una persona era stata investita sulla linea. Strano, perché di questi tempi siamo continuamene bombardati con il mantra della privacy: lo spalmano dappertutto, e specialmente chi lavora nella pubblica amministrazione deve strare bene attento a non esporre i "dati sensibili" di Tizio o di Caio, e fra questi, entro breve, ci sarà anche il numero di scarpe o la taglia del berretto. Di solito, in caso di ritardo, le Ferrovie dello Stato non dicono altro; ma stavolta hanno voluto dire di più, molto di più; quasi avessero voluto tutelarsi contro i malumori del pubblico: Vedete bene che noi non c’entriamo con questo ritardo; non è colpa nostra se qualcuno si fa investire dai treni. Preso nota della stranezza, siamo comunque saliti sul treno e rientrati a destinazione, così non ci abbiamo più pensato. Ma quella sera, purtroppo, una telefonata ci ha riportato a quanto era avvenuto: la persona investita era un giovane di nostra conoscenza, poco più che trentenne: era stato investito dal treno a San Fior, fra Conegliano e Sacile, e naturalmente era morto. La mattina dopo, col giornale, sono arrivati altri particolari: non si conoscevano affatto i motivi del suo gesto, ma sicuramente si era trattato di un suicidio. Era stato visto distendersi sui binari della ferrovia e così se l’era trovato davanti il capotreno; inutili le grida e lo sbracciarsi di alcune persone che avevano visto la scena e tentato di lanciare l’allarme; inutile la frenata convulsa del convoglio lanciato a piena velocità. Non conoscevamo bene quel giovane, ma una cosa sapevamo di lui: era una brava persona. Era un ragazzo gentile, dal cuore buono; quelli che lo conoscevano gli volevano bene. Naturalmente ci siamo domandati, d’istinto, se avesse manifestato qualche segno premonitore del gesto terribile che forse stava già meditando di compiere, e che avrebbe gettato nello sconforto i suoi genitori e le sue tre sorelle. A ben pensarci, forse sì: era sempre piuttosto triste. Si vedeva che un velo di malinconia era sceso su di lui e si frapponeva fra lui e il mondo.

Naturalmente, persone che giungono alla decisione estrema del suicidio, vuoi per uno sconforto improvviso e superiore alle loro forze, vuoi dopo una lunga e sofferta riflessione, ce ne sono sempre state e purtroppo, senza dubbio, sempre ce ne saranno. Ciò non toglie che abbiamo comunque il dovere d’interrogarci, quando avviene un caso del genere: specie se a togliersi volontariamente la vita, in silenzio e senza che gli amici e i parenti possano far nulla prima che sia troppo tardi, è un giovane uomo o una giovane donna. Non si può non pensare alla vita che essi avevano davanti, alla famiglia che avrebbero potuto creare, ai figli e ai nipoti che avrebbero potuto avere; al contribuito, materiale e morale, che avrebbero potuto dare alla società; al fatto che il mondo, dopo la loro brusca e definitiva partenza, è rimasto un po’ più vuoto, un po’ più solo e un po’ meno bello. Ci si chiede, allora, se quel gesto fosse davvero inevitabile, o se sarebbe stato possibile scongiurarlo. Non è solo e non è tanto questione di accorgersene in tempo: perché, se una persona ha deciso che non vale più la pena di vivere, allora non la si potrà fermare: prima o dopo riuscirà a fare quel che ha stabilito di fare. La vera domanda è se non sia possibile, da parte di ciascuno, dare un contributo più efficace affinché il mondo non perda del tutto il suo incanto, ma conservi almeno in parte la sua aura di mistero sacro e bellissimo. Questa è la vera domanda e questo è il vero esame di coscienza cui siamo chiamati, ogni volta che accade un fatto come quello che abbiamo sopra riferito: domandarci se siamo stati degni membri del consorzio umano e degni abitanti del mondo in cui tutti viviamo. Oggi si insiste e si pone molta enfasi, anche da parte del clero cattolico, sulle questioni legate all’ecologia e alla biodiversità; si ribadisce continuamente il concetto che la nostra impronta, sul pianeta che abitiamo, deve essere più leggera di quanto lo sia stata finora, perché altrimenti rischiamo di non aver più un pianeta abitabile da lasciare in eredità alle nuove generazioni. Questo tipo di discorsi non tiene conto del fatto che l’ecologia più importante è quella della mente e del cuore; e che se le nuove generazioni hanno bisogno, e anche diritto, di ricevere in eredità un mondo che sia ancora vivibile, e non tragicamente inquinato e sconvolto, esse hanno tuttavia un bisogno e un diritto ancor più grandi: ricevere un mondo che sia ancora circonfuso della sua aura sacra, nel quale vi sia ancora il senso del mistero e nel quale la bellezza sia ancora coltivata con amore, tenendo lontana il più possibile, per quanto sta in noi, la sua nemica mortale, la bruttezza. Ci si deve chiedere, in altri termini, se si è stati capaci di vivere nella luce, trasmettendo l’abito della pulizia morale e il gusto della verità, ma anche il senso del limite, alle giovani generazioni: cosa che non è possibile se non si pratica, appunto, una quotidiana ecologia interiore. È evidente che un genitore, o comunque un adulto, il quale vive nel disordine morale, pratica numerosi vizi, si circonda di cose brutte, ignora del tutto la dimensione spirituale e non pensa che alla ricchezza e ai beni materiali, nonché alle cose esteriori mediante le quali emergere e superare gli altri, suscitando invidia e attirando amici e partner sessuali unicamente interessati al suo portafogli, non potrà mai trasmettere ai suoi figli e ai giovani coi quali entra in contatto, anche solo indirettamente (i compagni di scuola dei suoi figli, per esempio) l’immagine di un mondo bello, luminoso e affascinante, né a livello morale, né a livello fisico.

La verità è che ci portiamo tutti addosso la puzza della modernità. Il tipo di vita che facciamo; i gusti che abbiano; le nostre preferenze in fatto di musica, di letteratura, di sport, di tempo libero; i film che amiamo vedere, le discoteche che amiamo frequentare; i centri commerciali nei quali adoriamo fare shopping; i social network nei quali mettiamo in piazza, in modo banale e narcisista, le nostre vite, fin nei risvolti più intimi e delicati: tutto, perfino i tatuaggi che facciamo sul nostro corpo, o la biancheria intima che ci piace tanto indossare (e mostrare: non solamente a letto), o che indossi il nostro partner o la nostra partner sessuale, o le pose che ci piace assumere per apparire sexy, intraprendenti e "cattivi" al punto giusto: tutto questo contribuisce a spogliarci della nostra umanità, a fare di noi degli zerbinotti da quattro soldi, degli esseri vuoti e superficiali, inadatti a qualsiasi cosa richieda un minimo di serietà, di costanza e di senso di responsabilità; delle creature tragicomiche, eternamente sospese fra l’euforia e la depressione, fra l’aggressività e il disprezzo di noi stessi, fra la ricerca esasperata del piacere e un oscuro, tenace, insopprimibile desiderio di morte. E finché restiamo prigionieri di questo modo di vivere, finché i nostri pensieri vanno a sbattere contro questi meschini confini, anziché volare in alto; fino a quando preferiremo essere creature del fango, che sguazzano nella melma e disdegnano la nobile dimora cui Dio ci ha destinati non faremo che contribuire, per la nostra parte, a diffondere intorno a noi un’atmosfera mediocre, meschina, squallida, dove conta solo l’apparire, dove non c’è spazio per la generosità, per lo slancio ideale, per la passione diretta verso qualcosa di grande e di bello, che vada oltre il nostro utile immediato e che anzi richieda il nostro duro lavoro, il nostro impegno, il nostro sacrificio, perché senza sacrificio e senza rinuncia non si costruisce nulla di bello e di grande e senza le lacrime non si può costruire alcunché che sia degno di rimanere e di indicare la strada a quelli che verranno dopo di noi. E se non ci si libera dal ricatto del Pensiero Unico e dagli automatismi del Politicamente Corretto; se non s’impara a ragionare un po’ con la propria testa, e a rifiutare le lezioncine precotte e preconfezionate, da utilizzare, secondo i bisogni, al momento giusto, senza chiedersi né chi, né perché le abbia redatte al posto nostro e ce le faccia imparare; se non si cerca di deporre i vestiti del bamboccio telecomandato e non ci si sforza di divenire adulti, in modo da fare scelte consapevoli e non semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente, come fanno tutti (così almeno si dice), allora tanto vale rinunciare per sempre ad essere persone e contentarsi di essere dei numeri nel gran mucchio, cavie per tutti gli esperimenti, merce da compravendita senza alcun valore specifico, ma buona solo per far salire l’indice auditel e per riempire le capaci casse del fisco da un lato, e delle multinazionali dall’altro.

E non basta ancora: il puzzo della modernità è molto, molto tenace: si appiccica addosso alle persone come il puzzo di fumo o quello di pesce o quello di aglio; e ce ne vuole del bello e del buono, prima che finalmente se ne vada. La modernità è tutto un modo di ragionare, di sentire, di porsi di fronte alla vita: è la mancanza di senso del limite e del mistero; è l’incredulità e lo scetticismo verso ciò che oltrepassa la logica immediata; è il disprezzo o l’indifferenza per i valori dello spirito, per la coerenza, la trasparenza, la pulizia morale, e viceversa l’ammirazione per il cinismo, per la durezza, per la mancanza di scrupoli, per tutto ciò che fa salire in alto, ma solo sul piano materiale, con la minor fatica possibile e sovente con quattro dita di pelo sullo stomaco; ed è anche l’idolatria del fatto, del risultato, del profitto, e il compatimento per tutto ciò che implica lavoro e costanza, ma senza risultati visibili e apprezzabili nel breve periodo. Ebbene; siamo persuasi che il malessere esistenziale che mina alla radice la voglia di vivere di tante persone, anche se raramente culmina nel suicidio, ha la sua prima origine in questo modo di vivere sbagliato, in questi falsi valori, in questo disordine morale, in questa babele intellettuale, dominata dal relativismo, dallo scetticismo e dal nichilismo, dove tutto sembra uguale a tutto e dove non pare che esista una qualche apprezzabile differenza fa l’azione etica e quella puramente egoistica, poiché entrambe rivendicano una loro legittimità ed entrambe, ma soprattutto la seconda, specie alla luce (diabolica) della psicanalisi, affermano di aver a cuore il benessere della persona umana, aiutandola a riconciliarsi con se stessa e a trovare il suo posto nel mondo.

Ma come si fa a levarsi di dosso quel puzzo, se esso è tutto intorno a noi, se vi siamo costantemente immersi, se è impossibile andare in qualsiasi luogo senza sentirne le fetide zaffate che ci alitano in viso? Bisogna non solo astenersi da tutte le cose che lo alimentano, fornendogli esca, e rinunciare a tutti quegli stili, quelle abitudini e quei comportamenti, ma praticare attivamente e quotidianamente la via opposta: la via della verità, della spiritualità e della bellezza. Proviamo a riflettere: è davvero tanto strano che alla nostra depressione, alla nostra stanchezza interiore, alla nostra diminuita voglia di vivere, contribuisca l’abitudine di ascoltare musica rock o metal, fare uso di droghe e frequentare persone di quel giro, coprirsi il corpo con tatuaggi brutti o demoniaci, indulgere in piaceri sessuali promiscui e compulsivi, brutali, senza un briciolo di sentimento, negare a se stessi ogni spiraglio di luce, di raccoglimento, ogni spazio di vera affettività e di vera amicizia, per ridurre le relazioni umane a qualcosa di meccanico e di puramente utilitaristico? Alcune di queste cose non dipendono da noi, o non interamente da noi: se abitiamo in una brutta città, in un brutto quartiere, in una brutta casa, in genere dobbiamo subire quella bruttezza e non possiamo farci nulla. Altre cose, però, senza dubbio, dipendono da noi: non ce l’ha ordinato il medico, come usa dire, di trascorrere ore e ore inchiodati davanti allo schermo del computer, magari per dedicarci a insulsi, volgari e truculenti giochi elettronici, o davanti al minuscolo schermo del telefonino per chattare e proiettare continuamente all’esterno quelle riflessioni, quei pensieri, quelle emozioni che invece faremmo assai meglio a tenere per noi stessi, perché non tutto ciò che proviamo è bene che sia esternato, anzi ci son cose che dobbiamo lasciare nel profondo, o condividerle con un amico fidato, faccia faccia, alla sua presenza fisica. E l’abitudine di pregare, di rivolgerci a Dio per lodarlo e ringraziarlo, di chiedere aiuto alla Madonna o al nostro Angelo Custode, allorché siamo in difficoltà: da quanto tempo l’abbiamo persa? E la frequenza alla santa Messa, ai Sacramenti: da quanto ne abbiamo fatto un optional, una faccenda di cui siamo noi a stabilire i tempi e i modi, sempre secondo la nostra pigrizia e il nostro misero opportunismo? Eppure, non ci permetteremmo di agire così verso un caro amico; meno ancora verso una persona importante, come il nostro datore di lavoro: ma con Dio ci prendiamo tutte le libertà. Tanto, pensiamo, e un clero senza più autorevolezza e senza più serietà ce lo ripete da mattina a sera, Dio è un Padre misericordioso. Certo che è misericordioso: ma ciò non vuol dire che dobbiamo regolarci con Lui come se fosse l’ultimo dei nostri sottoposti. Avere timor di Dio non significa semplicemente temerlo, bensì temere di dispiacergli: così come avremmo orrore di dispiacere a una persona alla quale teniamo moltissimo. Preferiremmo lasciarci torturare, piuttosto che offendere la persona amata, non è vero? Ebbene: non è forse Dio la Persona che merita più amore di qualsiasi altra? Non è a Lui che dobbiamo tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo? Ignorandolo, disprezzandolo, ci comportiamo come i vignaioli omicidi della parabola evangelica: in cambio del suo infinito Amore, un Amore così grande che Egli ha voluto farsi uomo e morire sulla croce per noi, tutto ciò che sappiamo fare è inseguire i nostri comodi e riservare a Lui l’ultimo dei nostri pensieri. Ciò non è solamente brutto, ma anche sciocco. È solo stando uniti a Lui che ci si leva del tutto il puzzo della modernità. Lui ce ne libera, perché ci restituisce la giusta prospettiva sul mondo e su noi stessi: che non è legata al tempo e alle sue brame, ma all’eternità e all’assoluto…

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.