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28 Novembre 2015
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28 Novembre 2015Non vi è alcun dubbio: il concetto estetico della femminilità è cambiato radicalmente, nel corso delle ultime due generazioni; è cambiato così tanto che a stento si potrebbe credere che tale mutamento sia stato spontaneo e naturale, se non fosse che l’intero quadro di riferimento culturale è cambiato insieme ad esso, e che quanto, meno di cinquant’anni fa, sarebbe stato giudicato brutto, stupido, scandaloso, oggi è divenuto la quintessenza del bello, dell’intelligente e del normale, nel senso di "politicamente corretto".
Basta guardare le attrici che piacevano ai nostri nonni e quelle che piacciono ora; basta guardare le cantanti, le modelle, le signore del gossip, e ci si accorgerà che vi è stata una rivoluzione dell’immagine femminile. Ma non è solo l’immagine ideale della donna ad essere mutata radicalmente; è cambiato il corpo della donna, il suo corpo reale, che si è trasformato sia nella struttura morfologica, sia nell’insieme delle cure estetiche che lo definiscono per quello che è. Morfologicamente, si è mascolinizzato. Ciò non significa che sia diventato, sempre e comunque, meno attraente; ma certo è diventato meno femminile, se per femminile si intende la struttura che lo caratterizzava fino a un paio di generazioni fa. È divenuto più alto, più snello, più slanciato, più atletico, più muscoloso; più simile a quello dei ragazzi, più androgino; le spalle si sono allargate, i fianchi si sono ristretti, gambe e braccia si son fatte più muscolose; il cosiddetto punto-vita — elemento di forza dell’estetica femminile precedente, alla Sofia Loren, per intenderci — sembra essersi volatilizzato: il "vitino di vespa" non abita più qui (cfr. il nostro precedente articolo: «La scomparsa del punto vita è il segno visibile di una distruzione della femminilità?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 14/03/2011).Quanto al seno, la parte del corpo femminile che, da sempre, viene considerata come quella più spiccatamente sessuale, quella più erotica e attraente, sia da parte degli uomini che delle donne medesime, si è, nel complesso, notevolmente ridotto, risultato, forse, delle diminuite maternità; e, nello stesso tempo, è divenuto spesso più sodo e più eretto. Non dover allattare, o farlo solo per un breve periodo, ha giovato al suo aspetto estetico, anche se a discapito delle dimensioni. In compenso, il ventre si è alquanto appiattito, i glutei si sono rassodati, le cosce si sono allungate, i polpacci si sono gonfiati; sovente anche i polsi e le caviglie appaiono più massicci. Se a tutto questo si aggiunge un abbigliamento sportivo o sbarazzino, anche in età avanzata, magari con i pantaloni strettissimi a fasciare la metà inferiore del corpo; un taglio di capelli molto più corto e deciso; uno sguardo più franco e diretto, ma anche più cameratesco, meno ammiccante, meno apertamente seduttivo, allora quel che emerge è un tipo femminile assolutamente nuovo, per il quale bisogna inventare una nuova categoria estetica: quella della femminilità "moderna", che non è, forse, e necessariamente, la negazione della femminilità, però presenta degli aspetti apertamente androgini, e ama scherzare con l’ambiguità (ad esempio, mediante la moda dell’abbigliamento unisex, quando non addirittura optando per una moda di taglio senz’altro maschile).
C’è di chi ha parlato, a proposito di questo nuovo modello di bellezza femminile, di "fascino boreale", contrapposto a quello "mediterraneo": intendendo il prevalere di un modello ispirato alle donne dell’Europa settentrionale (e del Nord America); un modello che alle curve corporee, più o meno prosperose, più o meno allusive della fecondità, sostituisce lo sviluppo verticale, la struttura ossea longilinea, la piccolezza del seno, insomma la riduzione dei tratti specificamente femminili e il potenziamento di quelli androgini. In realtà, come è stato notato, i due modelli — ovviamente in Europa — si sono alternati più volte, nel corso della storia; la fase attuale si può datare a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, e corrisponde, anche nel comportamento sociale, ad uno stile di vita femminile più libero ed emancipato, più sganciato dal modello tradizionale materno e casalingo (tanto è vero che, a partire da quell’epoca, comincia a mostrarsi apertamente non solo il tipo della donna libera e spregiudicata, ma anche quello della lesbica, come si vede, in letteratura, con il primo romanzo al femminile che parla senza perifrasi di questo tabù: «Il pozzo della solitudine» («The Well of Loneliness») di Radcliffe-Hall, pubblicato nel 1928.
In Italia, Paese considerato come tipicamente mediterraneo (anche se si tratta di un luogo comune molto inesatto: perché l’Italia Settentrionale non è affatto "mediterranea", né per geografia e clima, né per storia e cultura; è, in tutto e per tutto, una regione "continentale"), la "svolta", nell’immaginario del pubblico, si colloca negli anni del boom economico, ed è chiaramente in relazione con l’influsso culturale anglosassone (chi vince le guerre, vince anche la battaglia per l’immaginario collettivo e per il way of life): al modello della donna mediterranea, come la cantante Mina (chi non ricorda la battuta di Alberto Sordi a «Studio Uno», 1966: «Mi piaci, Mina, perché sei tanta»?), si sovrappone e, alla lunga, prevale quello "boreale", rappresentato da soubrette straniere, come le gemelle Kessler o Minnie Minoprio, molto slanciate e dalle gambe chilometriche, indi da donne italiane, come Patty Pravo, contraddistinte da un fascino decisamente androgino.
Così la scrittrice Gabriella Magrini (in «Belle oggi e domani», Milano, Sonzogno, 1979, pp. 6-7):
«Assistiamo, attraverso le cronache e le testimonianze artistiche di questa lunga e discussa epoca, all’affermarsi di un tipo di bellezza europeo occidentale nel quale prevalgono elementi nordici: statura alta, corporatura snella, lungi capelli biondi, pelle chiara e rosata. Non più la proporzione classica di forma e di misure, tipica dell’età anche tardo-romana, ma una silhouette ondulata nella quale a poco a poco il seno si attenua fino a quasi scomparire mentre prevale, come elemento di femminilità, il ventre. La bellezza medioevale, delimitata da ben precisi confini di rango, fu longilinea e man mano più raffinata; varrebbe la pena di conoscere più a fondo l’evolversi e il mutare del modello estetico in questi lunghi secoli, dalla bellezza barbara delle regioni burgunde alla squisita immagine di Eleonora d’Aquitania che vestiva sé e le dame della sua corte d’amore in taffetà per dare luce al colorito. Medievale è la bellezza germanica della regina Ute, che si fasciava il viso con veli violetti, medievale è la bionda bellezza provenzale di Laura de Sade. Ma già sta per riprender vita, al di qua delle Alpi, quell’ideale classico che meglio s’incarna nella struttura corporea delle donne italiane (il cui sangue era stato abbondantemente europeizzato nei secoli delle invasioni barbariche) e con l’Umanesimo torna l’ovale puro e calmo della bellezza greca, i corpi fioriscono fino alla sontuosità rinascimentale.
Così, in un alternarsi di immagini, i modelli di bellezza femminile camminarono sulla strada della storia europea: l’opulenza delle carni barocche si assottigliò nelle fusiformi linee settecentesche: tutto era sottile, rotondo, affusolato, sotto il prevalere delle vesti e delle parrucche. Ma verso la fine del secolo, con la riscoperta archeologia delle civiltà antioche, le città si popolarono di tuniche greche, di capelli stretti con bande e fermagli, fino all’esplosione neoclassica dell’impero. Il ritorno alla classicità venne interpretato dalla moda con soluzioni spesso estreme e bizzarre, ma la silhouette femminile rimase fedele ai canoni classici: seno rilevato, portamento diritto, passo e movimenti sciolti sotto le vesti non costrittive.
Poi, il riflusso. Il fascino boreale riprese il sopravvento e con esso una interpretazione fragile, romantica, esangue della bellezza. D’allora l’immagine femminile europea variò il tema fragilità-opulenza senza sostanziali mutamenti fino alla grande rivoluzione che seguì la prima guerra mondiale: quando le donne tagliarono vesti e capelli per la prima volta si affermò quell’ideale europeo tendente all’androgino (seno minuto, arti lunghi, fianchi stretti) che doveva rinnovare completamente, ai nostri giorni, il concetto estetico della femminilità.»
Nel 1979, comunque, non esistevano ancora né il ricorso di massa alla chirurgia estetica, né tutta una serie di pratiche e cure cosmetiche, igieniche, salutistiche, sportive, che hanno contribuito a modellare ulteriormente il corpo della donna, a scolpirlo (fitness, aerobica, acquagym, pilates, zumba, body building), a depilarlo in ogni recesso, a tonificarlo, ad abbronzarlo, a decorarlo (piercing, tatuaggi), insomma ad artificializzarlo al massimo. Sicché, oggi, risulta ben difficile dire quanto un corpo femminile sia autentico e quanto sia "costruito", quanto in esso sia naturale e quanto sia il risultato di una serie d’interventi strategici aventi lo scopo dichiarato di "ricostruirlo", rimodellarlo, rifarlo, eliminando ogni possibile inestetismo (chi ricorda il naso aquilino dell’attrice Cher, prima dell’intervento chirurgico? o il seno modesto dell’attrice Brigitte Nielsen?) e scegliendo su catalogo le misure "giuste" per ogni singola parte del corpo.
Ma la donna, così rimodellata e ricostruita, si piace? Sta bene con se stessa? Si sente più felice di prima, più serena, più in pace con gli altri e con la vita? Si riconosce, in quanto donna, in questo nuovo canone estetico della femminilità? Oppure vi si adegua per la necessità, e quasi per il terrore, di dover seguire la moda, per non restare indietro, per non vedersi scavalcata, superata, e, in un certo senso, ridicolizzata dalle altre donne, più pronte ad adottare le nuove tendenze, a cavalcare le nuove scorrerie dell’immaginario collettivo? Non starà subendo un ricatto, il tipico ricatto del consumismo: o adeguarsi, o ritirarsi nel cono d’ombra delle cose passate, e, con ciò stesso, sparire? Perché, in una società impostata sulla rincorsa continua, affannosa, nevrotica del nuovo, del progresso" contrapposto alla tradizione, chi si ferma è perduto, sparisce, scompare: e non c’è nulla di più temuto, di più angoscioso, di più insopportabile, che trovarsi tagliati fuori, messi da parte, in quanto "fuori moda". Essere fuori moda è diventato l’equivalente, per le persone, che l’essere fuori mercato, per le cose: equivale a una specie di morte civile, all’uscita dal circuito della vita stessa, che, nella società di massa, si identifica con la visibilità. Ecco perché le persone hanno tanta paura di trovarsi superate dal progresso delle mode: perché non essere oggetto dell’attenzione altrui equivale a scomparire, a morire, a non esistere più. La società consumista vuole che ciascuno sia sempre al centro degli sguardi, dei pettegolezzi, dell’invidia o dell’ammirazione altrui, o di entrambe le cose insieme. Il suo obiettivo, infatti, è distruggere l’autostima delle persone, farle sentire perennemente fragili e dipendenti, e poi offrire loro (a pagamento, si capisce), quale surrogato della fiducia in sé, la moda stessa, con la relativa ostentazione di tutti gli espedienti per sentirsi alla pari con gli altri, se possibile un passo davanti agli altri, mai un passo indietro, perché restare indietro significa diventare patetici, e questa è la cosa più temuta di tutte da parte di chi non possiede alcuna sicurezza interiore.
Forse la cosa più intelligente che potrebbero fare le persone, oggi, a cominciare dalle donne, sarebbe quella di lavorare seriamente sulla propria autostima, ricostruire la fiducia in se stesse, il che si fa rifiutando il ricatto della moda e del "progresso" e imparando a non temere né la solitudine, né i giudizi negativi degli altri. Solo così si cresce, si diventa realmente persone, si impara a essere ciò che si deve, e non ciò che vorrebbero gli altri, o ciò che ha stabilito il modello omologante del diabolico consumismo. Però tutto questo richiede forza di volontà e saldezza di principî: in un certo senso, è come imparare a lottare per liberarsi da una dipendenza patologica, come quella dalle droghe o dall’alcool. Il bisogno disperato di ricevere l’approvazione altrui è la droga della quale le donne e gli uomini di carattere debole non sanno più fare ameno, e che li trascina in una spirale distruttiva di sempre maggiore dipendenza e sempre minore autostima, fino a ridurle a semplici consumatori, passivi e rassegnati, espropriati della propria umanità.
La donna, oggi, dovrebbe domandarsi se, dopo tutto, valga davvero la pena di rincorrere un modello etero-diretto che la riduce a un burattino, apparentemente diverso, ma sostanzialmente simile a quello da cui vorrebbe fuggire: il modello della donna-oggetto, che non vive per se stessa, ma per piacere al maschio, e non in quanto persona, ma in quanto cosa: una somma di curve, di requisiti estetici, di manipolazioni salutistiche e sportive, di ritocchi chirurgici, di programmi dietetici spinti fino alle soglie dell’anoressia, insomma un corpo senz’anima, senza volontà propria, senza intelligenza, senza valori, senza alcun progetto di vita. Un corpo "morto", in ultima analisi, spento, cadaverico, buono per una società necrofila, che ha smarrito l’amore per la vita: così come la donna sembra avere smarrito, insieme alla gioia di vivere ed al giusto rapporto con se stessa, anche la scommessa con il futuro, e quindi la vocazione alla maternità…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels