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Luigi Russolo, pittore e compositore futurista, esploratore di sentieri mai tentati

Sarebbe ora che si tornasse a parlare di Luigi Russolo (nato a Portogruaro, in provincia di Venezia — oggi città metropolitana di Venezia – il 30 aprile 1885 e morto a Laveno-Mombello, sul Lago Maggiore, in provincia di Varese, il 4 febbraio 1947): uno fra i massimi esponenti del Futurismo, e una delle personalità più variegate, più affascinanti e strane (nel senso positivo della parola) della cultura italiana del primo Novecento. Fu compositore originalissimo e pittore fra i più dotati di quella stagione, ma anche filosofo e cultore di esoterismo: aspetti, questi ultimi due, fra i meno studiati e, quindi, fra i meno conosciuti della sua già misteriosa personalità di uomo, di artista e di pensatore.

Qualche anno fa, nel 2009, la sua città natale gli ha dedicato il teatro cittadino: bene, ma è ancora poco. È la cultura nazionale che dovrebbe svegliarsi e darsi da fare per riproporre al pubblico questa straordinaria figura di artista e musicista: una figura così complessa e intrigante, capace d’intuizioni così profonde e folgoranti, da oltrepassare, e di molto, il livello medio degli artisti e intellettuali del suo tempo, e anche di quello successivo. Benché sia sempre cosa poco simpatica, e, possibilmente, da evitare, quella di fare dei confronti, come non notare l’incredibile disparità di trattamento — per restare nel solo ambito figurativo — ricevuto, da parte della critica, dall’opera di Renato Guttuso e di Luigi Russolo? La prima, penosamente banale nel suo "realismo" di pretta matrice ideologica, è stata levata alle stelle dalla cultura dominante nel dopoguerra, forse proprio perché in linea con i "valori" di quella parte politica, di cui si proponeva di celebrare i fasti; la seconda, infinitamente più originale, più coraggiosa, più creativa, è stata relegata nei libri di storia dell’arte e quasi imbalsamata in una ricezione riduttiva, quasi provinciale, tendente a farne una specie di curiosità, per poi passare avanti, lasciandola fra la polvere dei vecchi armadi.

La personalità del Russolo è stata così multiforme e i suoi interessi culturali così diversificati, così imprevedibili, che non pretendiamo certo, in questa sede, di darne una sintesi adeguata; al contrario: vorremmo solo smuovere un po’ le acque stagnanti della cultura ufficiale, affinché venisse riproposta all’attenzione del grande pubblico un autore ingiustamente dimenticato, o, se non proprio dimenticato, archiviato e consegnato a una sorta di Limbo dei grandi "mancati", delle avanguardie abortite, dei progetti rimasti inconclusi; un autore che merita di essere riscoperto, studiato, meditato, non solo per quel che ha fatto, ma anche per ciò cui ha voluto alludere, pur senza riuscire a dirlo sino in fondo. Perché, è bene chiarirlo subito, le ambizioni intellettuali di Luigi Russolo erano immense, sconfinate: pochi altri artisti, come lui, hanno saputo pensare in grande, spingersi avanti, esplorare territori sconosciuti, pianeti insospettati, dimensioni mai neppure immaginate. Pochi, come lui, sono stati abbastanza audaci da spingersi così addentro nei mondi inesplorati: ed è logico che, a un certo punto, gli siano mancate le parole, i colori, le forme, i suoni, per dire quel che aveva visto, quel che aveva intuito, quel che aveva scoperto.

Forse è proprio a questa sua audacia, alla consapevolezza d’essere giunto là dove nessuno, o quasi nessuno, si era mai spinto prima, che si deve il carattere intermittente, e quasi zigzagante, della ricerca intellettuale e artistica di Luigi Russolo; il fatto che, giunto a un certo punto del suo cammino, sovente egli sia tornato bruscamente indietro, che abbia chiuso un’esperienza per incominciarne un’altra, che abbia considerato conclusa una ricerca e si sia affrettato a cominciarne una nuova. Prendiamo solo il caso della pittura, ambito nel quale – a nostro modesto avviso — egli è riuscito a dare il meglio di se stesso e a raggiungere i risultati più originali e convincenti (mentre nell’ambito musicale, con la sua musica avveniristica e anticipatrice di soluzioni estreme, basate sul rumore che si fa armonia, sulle sue curiose invenzioni e sulle sue quasi fantascientifiche macchine denominate "intonarumori") egli è stato, sì, originale, anzi, originalissimo, ma — sempre a nostro modesto giudizio — non altrettanto convincente.

All’inizio si resta stupiti, e quasi sconcertati, dalla eccezionale varietà di stili e di temi che caratterizzano i suoi quadri, così diversi l’uno dall’altro, da far pensare alla mano di personalità diverse, e non ad una stessa personalità d’artista: egli è, nella pittura, l’equivalente di Fernando Pessoa nella letteratura: non un artista, ma una legione, una pluralità di artisti, ciascuno col suo stile, col suo bagaglio culturale, col suo linguaggio, con la sua particolare prospettiva, con i suoi obiettivi. Eppure, quale intensità e padronanza di mezzi in ciascuna opera, in ciascuna fase, in ciascuno stile! Non sono le opere di un geniale dilettante: sono le opere di un maestro, in possesso sia dei mezzi, sia della visione complessiva, della poetica, dell’armonia e della coerenza intellettuale, in ciascuna fase ed in ciascuno stile. Ed è una cosa incredibile, esaltante: come se un cantante fosse, nello stesso tempo, basso, tenore, soprano; o come se un atleta fosse, contemporaneamente, velocista, lanciatore del disco, specialista del salto in alto. Qualcosa di sorprendente, d’inaudito.

Si aggiunga, a tutto questo, la sua assidua, continua, incessante ricerca intellettuale, filosofica, speculativa, esoterica, parapsicologica, della quale, a dire il vero, ancora oggi poco sappiamo, e, quel poco, lo conosciamo male e in maniera assai confusa. La sua vita nella casa sul lago, immerso negli studi e negli esperimenti più bizzarri, ha qualcosa di arcano, di fiabesco, e anche — perché negarlo? — di vagamente inquietante: sembra quasi uscita dalle pagine di un racconto di Tommaso Landolfi o da una delle incisioni di un altro grande pittore-veggente, originario di una terra non lontana dalla sua: Alberto Martini. Che tipo di esprimenti, esattamente, si facevano in quella casa? Si evocavano gli spiriti, si cercava un contatto con la realtà altra? Sappiamo che il Russolo era un cultore di Yoga; che praticava la meditazione; che scompariva per lunghi periodi in un mondo tutto suo, al punto che gli amici lo perdevano di vista e che i critici, a un certo punto, quasi si scordarono di lui. A lui, infatti, non interessavano le luci della ribalta, il plauso costante del pubblico; era un puro: era, a suo modo, un ricercatore della Verità; non di questa o quella verità parziale, come facevano tanti artisti e intellettuali suoi contemporanei, ma della Verità tutta intera. Tutta o niente, senza mezze misure: come è proprio degli spiriti grandi.

Ha scritto a questo proposito Diego Collovini nella sua monografia «Luigi Russolo, un’appendice al futurismo» (Venezia, Supernova Edizioni, 1997, pp. 62-63):

«Ritornò in Italia [da Parigi] nel ’41. In quegli anni s’era formata in lui la convinzione di avere dei poteri parapsicologici. Coltivò questa sua nuova passione attingendo anche alle sue esperienze giovanili, quando lo stesso simbolismo, l’esoterico, l’enigmatico, e il magico alimentarono buona parte della sua immaginazione. Nelle opere giovanili soffriva di una costrizione tra una raffigurazione del presente, inteso quale espressione della modernità, e un passato, identificato nei simboli, che rimandavano il lettore a mondi tetri, fatti d’apparizioni, d’irrealtà sovrumane e fantastiche. Approfondì le sue conoscenze e questo sapere, applicandosi attivamente in esprimenti e in attività parapsicologiche e paranormali, tanto da convincere molte persone della sua capacità di guaritore, anche a distanza. Si dedicò con l’intensità e con l’applicazione che contraddistinsero il suo impegno. Soggiornò a Tarragona in Spagna, dove certamente studiò gli usi e costumi – si suppone sotto l’aspetto parapsicologico e paranormale — di un popolo, quello spagnolo, ancora ricco di culture diverse e radicate nella cultura araba e zingaresca. Come appare caratteristica del suo carattere, si disinteressò del passato, anche dei suoi intonarumori [le sue "macchine" per produrre una musica futurista, ossia basata sul rumore e non sull’armonia]», lasciati in deposito in Francia negli scantinati di Palazzo Painlevé. Secondo alcuni testimoni quegli strani strumenti, di cui se n’era dimenticata la funzione e anche il valore storico, furono trasferiti in sedi sconosciute e pare che molti fossero andati distrutti durante i bombardamenti dell’ultima guerra.

Il passo dalla parapsicologia alla filosofia fu breve. Nel 1934, presso la sua nuova casa a Cerro di Lavegno sul Lago Maggiore, iniziò la scrittura di un saggio filosofico, molto probabilmente con lo scopo di dare consistenza teoretica alle sue idee sul paranormale. La vita nella nuova casa sul lago passò tra riflessioni filosofiche, esercizi yoga, letture e pubblicazioni di vario genere, dalla pittura, all’architettura, all’esoterico. Ma quella vita contribuì anche a isolarlo dal mondo. La conseguenza fu che buona parte del mondo artistico si dimenticò di lui.

S’è detto più volte che furono il carattere, l’indole, ma anche la varietà d’interessi e l’intensità stessa del suo applicarsi alle cose, a fargli compiere scelte drastiche a volte decisive. Un comportamento questo che denotava il rifiuto per scelte diverse o in contrapposizione a quelle che aveva precedentemente fatto. Ne fornisce testimonianza una risposta ad una lettera di Depero, nella quale il trentino chiedeva di fornire degli elementi sufficienti alla stesura di una sua biografia. Il futurista, da Tarragona, rispose: "Il lavoro e le ricerche che sto facendo adesso sono troppo diverse e lontane da una meta o da un risultato, perché se ne possa parlare. Ma è un destino della mia vita che io debba, spinto inesorabilmente dal mio demone interno, cambiare sempre i problemi da risolvere, le ricerche da fare, una volta raggiunta una soluzione e risolto il problema. E per questo mi riesce difficilissimo parlare della mia attività passata che non mi interessa più ormai, tutto preso da quella presente". Le meditazioni filosofiche, psicologiche ed estetiche sfociarono in due saggi, uno "Al di là della materia", edito nel 1938, per i tipi della casa editrice Fratelli Bocca di Milano, mentre un secondo, "Dialoghi tra l’io e l’anima", non risulta essere ancora pubblicato. »

Tutta da scoprire, dunque, o da riscoprire, la dimensione filosofica, esoterica e parapsicologica della vasta ricerca di Luigi Russolo: siamo ancora in attesa del moderno Ulisse che sappia, e voglia, navigare quelle acque misteriose e semi-sconosciute, ma estremamente affascinanti, e restituirci il senso del pensiero e delle acquisizioni di questo intellettuale sui generis, la cui ampiezza d’interessi non ha quasi paragoni nel panorama culturale odierno. L’intellettuale contemporaneo, infatti, figlio (o nipote) dei "lumi" d’illuministica memoria, e discendente dei philosophes venuti a rischiarare le tenebre della nostra ignoranza, sono, quasi sempre, degli specialisti; Luigi Russolo, figlio ideale del Rinascimento — pur nella sua estrema modernità di futurista – e cultore di una conoscenza totale, aperta a trecentosessanta gradi sul reale, non è stato uno specialista, ma un pioniere e un serio culture di specialità diverse, unificate nella prospettiva di un’unica, inesausta ricerca, che non ha mai smarrito il senso originario della propria unità d’intenti e del proprio obiettivo ultimo: pervenire a strappare l’ultimo velo che ci nasconde il vero volto del mondo, la sua dimensione sconosciuta e originaria, arcana, numinosa.

Luigi Russolo è stato l’esploratore coraggioso e solitario di quella dimensione, l’alpinista delle altezze mai tentate. C’è un comune denominatore che attraversa e unifica i diversi aspetti della sua ricerca: la pittura, la musica, la filosofia, la metapsichica: l’ansia di assoluto, la febbre dell’eterno, la vertigine del Tutto. Mentre tanti artisti e intellettuali, che si credevano audaci, si sono limitati a percorrere i sentieri più bassi e frequentati, Russolo, in perfetta solitudine, si è spinto su, verso le vette, dove non s’incontra più nessuno, se non la propria anima, e dove non si odono più voci terrene, se non le parole del silenzio.

C’è, nella sua vastissima produzione pittorica, un quadro che, apparentemente, sembra appartenere a una dimensione naturalistica e a uno stile figurativo assai tradizionale: «Sole nascosto», del 1946; dunque, una specie di testamento spirituale. Niente puntinismi e divisionismi; niente lampi e schegge di colore; niente vortici, niente geometrie psichedeliche; niente dinamismi esasperati, niente velocità, niente macchine, niente fumi, niente luci, niente riflessi: ma una campagna tranquilla, ferma, verde; un filare dei pioppi sullo sfondo, una collina dal profilo dolce, un cielo azzurro; e, in primo piano, tre giovani pioppi, alti e svettanti, dai tronchi sottili appena un po’ mossi, che paiono danzare lievemente; dietro di essi, seminascosto, velato, opaco, il gran disco del Sole. Nient’altro. Pennellate ampie e sicure, linee nitide e serene, colori puri e brillanti. E una intensa, struggente atmosfera di attesa, quasi di rivelazione imminente: di qualcosa che dovrà accadere. Forse, sarà "soltanto" il riemergere del Sole da dietro la chioma degli alberi, e il suo sfolgorare vittorioso, in alto, nel cielo senza nubi. Una cosa normalissima. Ma è appunto questo, il miracolo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Ylanite Koppens from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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