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Bach, «il migliore organista che sia mai esistito»

Il musicista perfetto è il compositore che possiede anche una piena e indiscussa padronanza del suo strumento. Chi possiede solo l’arte del comporre musica, o solo quella dell’esecuzione strumentale, per quanto dotato, non raggiungerà mai le vette dell’arte assoluta. Ebbene, se ‘è stato un musicista che risponde in maniera impeccabile a questa figura di maestro ideale, senza dubbio è stata Johann Sebastian Bach. Ironia della sorte, i suoi contemporanei lo hanno apprezzato più come organista e clavicembalista che come compositore. Ciò è dovuto a varie circostanze, sia particolari che di ordine generale Tra le prime, il fatto che Bach non pubblicava le sue composizioni e le faceva eseguire nell’ambito della sue funzioni di direttore del coro o maestro di cappella delle varie corti e città in cui si spostava, e perciò esse ebbero una diffusione più che altro locale, anche se è certamente un mito romantico la tradizione di un Bach del tutto sconosciuto come compositore, perché lo studio dei documenti mostra che egli era invece ritenuto uno dei maggiori compositori della Germania. Fra le seconde, il fatto che visse nel tempo "sbagliato", cioè in pieno Settecento, mentre trionfava uno stile musicale rococò, lontanissimo dalla sua austera, virile sobrietà, accompagnata da un ardente desiderio di esplorare tutte le possibilità di un motivo, imbastendo innumerevoli variazioni sul tema, cosa che era in grado di fare anche direttamente alla tastiera, improvvisando e lasciando a bocca aperta quelli che lo ascoltavano. Ma soprattutto ci sono in Bach una serietà, una profondità, un senso delle proporzioni architettoniche talmente eccezionali da non avere l’eguale in tutta la storia della musica.

Egli rappresenta il vertice della musica polifonica e, in questo senso, è come se fosse arrivato con un secolo di ritardo: l’orecchio musicale del XVIII secolo era troppo frivolo, la cultura dell’età dei lumi era troppo scintillante e superficiale per apprezzare la massiccia, poderosa, inesauribile arte di Bach di costruire passaggi musicali, fughe, toccate, preludi, corali, praticamente ogni possibile forma d’espressione musicale tranne quella cameristica, che andava per la maggiore. In altre parole egli fu letteralmente il meraviglioso cigno in mezzo a uno stormo di anatre: gli altri stentavano a capire lui, lui non si curava di accondiscendere ai gusti facili del pubblico. Come arista e come uomo Bach fu sempre quello della schiena dritta: lineare, coerente, deciso, assolutamente incapace di venir meno alla sua ispirazione, le cui radici erano in buona sostanza religiose. In un’epoca atea e irreligiosa, gaudente e libertina, Bach si staglia con la sua figura gigantesca su un esercito di nani: l’anima piena di amore e timor di Dio, componeva le sue opere a ritmo febbrile, ma in tutta serenità, come colui che sta ben saldo nel porto della fede; nessuna agitazione romantica, né irrequietezza esistenziale: solo ordine, serenità interiore, tranquillo adempimento del dovere e una fortezza imperturbabile di fronte ai casi della vita. Vedovo, si risposa: ventenne la prima moglie, ventenne la seconda; ha venti figli in tutto, e la morte se ne porta via parecchi; non gli mancano le preoccupazioni materiali per il mantenimento della numerosa famiglia. E tuttavia sua casa è un meraviglioso laboratorio musicale ove ci si riunisce per fare musica tutti insieme, moglie e bambini, i più piccoli col canto: non è certo un caso che da quella famiglia siano usciti diversi geni musicali, i quali, se non soffrissero il confronto con la genialità del padre (ma a quel tempo non ne soffrirono affatto; anzi, tutto il contrario…) sarebbero ritenuti degni di occupare un posto non marginale nella storia della cultura musicale tedesca del XVIII secolo.

Citiamo una pagina della biografia del sommo musicista scritta da Charles Sanford Terry (1864-1936), che fu professore ordinario di Storia europea all’Università di Aberdeen in Scozia, nonché musicologo e grande studioso di Bach (da: C. S. Terry, G. S. Bach. La vita; titolo originale: Bach: a Biography, Oxford University Press, 1928; traduzione dall’inglese di Paolo Schweitzer, Milano, Fratelli Bocca Editori, 1938, pp. 150-152):

Con la fine del suo servizio a Weimar, Bach lasciò per sempre le funzioni di organista, e ciò proprio nel momento in cui la sua abilità di esecutore fu universalmente riconosciuta. La sua genialità di compositore in si era ancora rivelata, ma la vittoria sul Marchand sparse la sua fama in tutta la Germania. Giovanni Mattheson, amico di Haendel, che aveva sentito suonare ambedue, disse che se c’era qualcuno che potesse superare il primo, questi non poteva che essere "Bach in Lipsia". Giovanni Gioacchino Quantz, "musico da camera e compositore di Corte" di Federico il Grande, affermò che Bach poteva vantarsi di avere portato la tecnica dell’organo alla sua massima perfezione. Giorgio Andrea Sorge, organista di Corte a Lobenstein, lo chiamò "principe degli organisti", ed il Necrologio riporta in modo conciso il giudizio dei posteri: "Bach fu il migliore organista che sia mai esistito". Crebbero attorno a lui, come attorno a Haendel, delle leggende, apocrife a dire il vero, ma che dimostrano in quale conto egli sia stato tenuto dai contemporanei. Si racconta che amava visitare le chiese dei villaggi per suonarvi l’organo, e per godere la meraviglia ingenua dei presenti, o per udire esclamare l’organista: "Questo deve essere Bach o il diavolo in persona!".

Bach stesso aveva un concetto troppo alto della sua arte per farne oggetto di vanità personale e soleva mettere in ridicolo queste storielle, ma sentiva la propria superiorità e godeva del rispetto che gli si tributava. Tuttavia la sua modestia rimaneva inalterata: quando gli si domandava il segreto della sua maestria, rispondeva: "Non vi è nulla di straordinario in tutto ciò; battete le note giuste e l’organo farà il resto". Gli piaceva ascoltare degli altri organisti, e sussurrava allora al compagno occasionale come il soggetto avrebbe dovuto essere svolto, dandogli delle gomitate di soddisfazione se aveva indovinato l’andamento del tema. Durante tutta la vita la sua genialità più unica che rara trovò riconoscimento nei frequentissimi inviti a collaudare dei nuovi organi e ad esaminare i candidati organisti. Se lo strumento o soddisfaceva, terminate le funzioni ufficiali, gli piaceva sfoggiare il suo meraviglioso talento, per godimento proprio e dei suoi ascoltatori. In tali occasioni sceglieva un tema per le sue improvvisazioni, svolgendolo prima nella forma di un preludio con fuga, poi a solo, intrecciandolo coi motivi degli inni religiosi più noti, e terminando con una fuga per mettere in evidenza tutte le risorse dello strumento: generalmente, e come per stimolare la sua fantasia, cominciava col suonare un pezzo che già conosceva. Queste manifestazioni non mancavano mai di suscitare alta meraviglia ed il convincimento, anche nell’animo dei più raffinati conoscitori, quali il Reinken di Amburgo, di essere alla presenza di un genio che aveva raggiunto la massima perfezione. Ma il 2 dicembre 1717 egli aveva finito la sua carriera ufficiale di organista, e spese i rimanenti trentatre anni della sua vita in altre attività, nell’esplicazione delle quali i suoi contemporanei non sentirono la sublime grandezza della sua arte, compresa solo quando egli da molto tempo era ormai assunto all’Empireo degli Immortali.

Bach, dunque, non è solo uno dei massimi geni musicali della storia, se non pure il massimo; è anche uno dei pochi grandissimi uomini la cui biografia non riveli alcuna traccia di debolezze, di compromessi, di quei difetti umani così frequenti nelle persone più dotate della media, e in particolare la vanità. La cosa che più colpisce in lui è infatti la modestia: la modestia forte e tranquilla di chi sa di valere, indipendentemente da ciò che possono dire o non dire gli altri, senza che questa indifferenza diventi superbia, o amarezza, o cinismo. Bach è un buon borghese, un padre di famiglia, un uomo dai gusti semplici, musica a parte, ovviamente: un tedesco tutto d’un pezzo, patriarcale, all’antica, che in pieno 1700 conduce un’esistenza raccolta e laboriosa, quasi provinciale, pervasa dal senso del divino, pur senza avere nulla del mistico. Non esce mai dalla sua Germania; frequenta poco le grandi città; ha a che fare quasi solo con persone di media cultura e di media intelligenza, che qualche volta lo fanno arrabbiare. Per poter ascoltare l’amato Buxtehude, percorre a piedi decine di chilometri sulle strade polverose della Germania settentrionale e mette a repentaglio il posto di lavoro e lo stipendio, perché i suoi superiori disapprovano quelle assenze, anche se il solo scopo è quello di perfezionarsi nella sua arte; per conoscere e approfondire Vivaldi e altri musicisti italiani e tedeschi, fin da ragazzo copia la loro musica di notte, al lune di candela o alla luce della luna, affaticando oltremodo la vista, tanto che il fratello, scopertolo, gli nasconde gli spartiti: tutto nella sua vita è faticosa conquista, nulla gli viene regalato dalla sorte o da circostanze favorevoli Deve litigare per farsi pagare il dovuto; deve difendersi dall’aggressione fisica di un ex studente rancoroso; si fa un mese agli arresti perché il duca di Weimar non è disposto a lasciarlo andare via. A Lipsia, Thomaskantor — direttore artistico del coro della chiesa di San Tommaso – per oltre trent’anni, gli lesinano lo stipendio, lo esasperano con la loro pedanteria. Nulla però ci indica che egli abbia mai perso il buon umore; la sua serenità è a prova di qualsiasi tempesta: sgorga da dentro, perché la vita di Bach, salvo lo scrupoloso assolvimento dei suoi doveri di capofamiglia e di cittadino, è tutta interiore. In breve, così come, in ambito musicale, Bach rappresenta un caso di vera e propria coincidentia oppositorum, perché le sue composizioni hanno una sublime precisione matematica e al tempo stesso sono appassionate e piene sentimento come opere di poesia pura, ugualmente nella vita privata Bach è uno di quei rarissimi uomini che, per quanto immensamente dotati, non eccedono, non si vantano, non si intristiscono, non si fanno influenzare da niente e nessuno, ma seguono la strada della loro vocazione, concentrati e sereni, con passo fermo e tranquillo, senza mai deviare, neppure per un momento. Bach è come un fiume lento e maestoso, che scorre fra due argini uguali verso la pace del mare: la sua musica ha lo scintillio d’un maestoso ghiacciaio che s’incendia ai raggi del sole; ha la forza contenuta d’un vulcano in quiescenza la cui lavasi ribolle silenziosa nelle viscere della terra, mentre alla superficie mostra la calma e imperturbabile maestà del ghiaccio in un grandioso paesaggio alpino.

Lo hanno compreso, i suoi contemporanei? Certamente no. Hanno visto e riconosciuto la sua impareggiabile maestria strumentale, ma non la sua genialità compositiva. Di più: sono in molti a non comprenderlo neppure oggi. Quante volte ci è capitato di ascoltare giudizi di questo tipo: Sì, un grande musicista; però, dopotutto, la sua arte è più di tipo organizzativo che creativo; è una summa della cultura musicale del passato e non ha più molto da dire agli uomini moderni. Falsa la prima affermazione: un assimilatore più che un genio creatore, Bach? Ma è tutto il contrario: Bach crea la musica, ma la crea alla maniera della "ripresa" kierkegaardiana: egli procede ricordando, anziché disprezzare e dimenticare la tradizione. Il suo è un animo conservatore, nel senso più puro dell’espressione. In questo senso, e solo in questo senso, è parzialmente vera la seconda affermazione: che gli uomini d’oggi difficilmente capiscono Bach. Non lo capiscono perché sono moderni: e chi è moderno non ha più la capacità di capire l’assoluto. Bach non compone musica per questa o quella epoca, ma per l’eternità; non si rivolge a questo o quel pubblico, ma direttamente a Dio. Certo, è un figlio del suo tempo, e le sue abitudini di vita, come abbiamo visto, lo attestano; però, nello stesso tempo, è un genio musicale talmente grande, talmente immenso, che sfonda gli angusti limiti del tempo e si proietta in un tempo assoluto, fuori del tempo. L’arte della fuga, il suo testamento musicale, lo dimostra: è un’opera che ha qualcosa d’incommensurabile, come le onde di un mare mai solcato da alcuno, che vanno a lambire un continente del tutto sconosciuto; e tuttavia le sensazioni che essa produce nell’ascoltatore non sono stranianti, non generano inquietudine, né angoscia, come ci si potrebbe aspettare quando si è in presenza dell’alterità assoluta. Niente affatto: su di lui scendono gradualmente un calore, un senso di pace, come se quei mari e quella terra sconosciuti, un po’ alla volta, si facessero riconoscere; come se si alzasse gradualmente la nebbia, e si offrisse allo sguardo un paesaggio che in realtà era noto da sempre, perché aveva dimora nelle profondità della nostra anima. In ciò risiede il miracolo dell’universalità di Bach, che non ha nulla a che fare con l’universalismo illuminista. L’universalismo è la pretesa d’imporre una lingua comune a soggetti diversi; l’universalità è la capacità di far vedere l’unità dei diversi soggetti in una lingua comune originaria, parzialmente scordata e tuttavia sopravvissuta in qualche piega della memoria collettiva. Genio universale quant’altri mai, Bach riesce a ridestare il ricordo di quella lingua originaria in qualsiasi pubblico, di qualsiasi razza o cultura: non è un genio solo europeo, ma appartiene al mondo intero. È noto che la musica di Bach "piace" ai nascituri: il feto mostra reazioni positive quando la madre ascolta uno dei suoi pezzi; cosa che non si può certo dire della stragrande maggioranza della musica moderna, la quale suscita nel feto reazioni di paura e repulsione. Quale prova più eloquente della meravigliosa universalità di Bach e del suo rarissimo dono di riaccendere in noi la memoria e la nostalgia di un’armonia dimenticata, sepolta nelle profondità del nostro essere?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Ylanite Koppens from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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