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D’Alembert, ovvero la crociata della Ragione contro il preteso oscurantismo religioso

Ecco cosa scriveva Jean-Baptiste D’Alembert nel «Discorso preliminare» all’«Enciclopedia» (in: D’Alembert, «Il discorso preliminare all’Enciclopedia», traduzione italiana di Marcella Renzoni, Firenze, la Nuova Italia, 1978, e Milano, Fabbri Editori, 1996, pp. 58-60):

«La scolastica, che costituiva tutta la cosiddetta scienza dei secoli d’ignoranza, continuava ancora ad essere di ostacolo al progresso della vera filosofia in questo primo secolo illuminato. Si era convinti da tempo immemorabile di possedere in tutta la sua purezza la dottrina di Aristotele, commentata dagli Arabi e alterata da mille aggiunte assurde o puerili, e non si pensava neppure ad accertarsi se questa filosofia barbarica fosse realmente quella del grande filosofo greco, tanto era il rispetto che si aveva per gli antichi. […]

Tanti pregiudizi, che una cieca ammirazione per l’antichità contribuiva a mantenere, sembravano ancora consolidarsi per l’abuso, che alcuni teologi osavano fare, della sottomissione dei popoli. Ai poeti era permesso di cantare nelle loro opere le divinità del paganesimo, perché si era giustamente convinti che i nomi di queste divinità non potevano essere altro che un giuoco da cui non si aveva nulla da temere. […] Ma si temevano, o almeno si facevano le viste di temere, i colpi che una ragione non illuminata poteva vibrare al Cristianesimo; ma com’era possibile non accorgersi che nulla v’era da temere da un attacco così debole? Le venerazione così giusta e così antica che i popoli testimoniavano al Cristianesimo, inviato agli uomini dal Cielo, era stata garantita per sempre dalle stesse promesse di Dio. D’altronde, per quanto assurda possa essere una religione (un rimprovero che solo l’empietà può muovere alla nostra), non sono mai i filosofi a distruggerla: anche quando insegnano la verità, essi si limitano a mostrarla senza costringere nessuno a conoscerla; un simile potere appartiene esclusivamente all’Essere onnipotente. Sono gli uomini ispirati che illuminano il popolo, e gli entusiasti quelli che lo smarriscono. Il freno che si è costretti a porre alla licenza di questi ultimi non deve assolutamente nuocere a quella libertà tanto necessaria alla vera filosofia, e da cui la stessa religione può trarre i maggiori vantaggi. Se il Cristianesimo offre alla filosofia i lumi che ad essa mancano, se solo alla grazia compete di sottomettere gli increduli, è alla filosofia che è riservato ridurli al silenzio; e se quei teologi volevano assicurare il trionfo della fede, le uniche armi che dovevano impiegare potevano essere solo quelle che si sarebbero volute usare contro di essa.

Ma alcuni di questi teologi avevano un interesse molto più concreto per opporsi al progresso della filosofia. A torto convinti che la fede dei popoli è tanto più salda quanto più si esercita su un maggior numero di oggetti diversi, non si limitavano a esigere la doverosa ubbidienza ai nostri misteri, ma cercavano di imporre come dogmi le loro opinioni particolari; anzi, proprio queste, assai più dei dogmi, erano ciò che essi volevano porre al sicuro. Con questo loro modo di procedere, se la nostra religione fosse stata opera degli uomini, essi le avrebbero inferto il più terribile dei colpi; perché c’era da temere che, una volta riconosciute false le loro opinioni, il volgo, incapace come è di discernimento, trattasse alla stessa stregua le verità con le quali avevano voluto confonderle.

Altri teologi, di fede più sicura, ma altrettanto pericolosi, si aggiunsero a questi primi per altri motivi. Quantunque la religione sia esclusivamente destinata a regolare i costumi e la fede, era loro convincimento che fra i suoi scopi dovesse anche esserci quello di illuminarci sul sistema del mondo, su quegli argomenti cioè che l’Onnipotente ha espressamente abbandonato alle nostre dispute. Essi non riflettevano sul fatto che i libri sacri e le opere dei padri – scritte al fine di indicare al popolo e ai filosofi, ciò che si doveva praticare o credere – non erano affatto tenuti a esprimersi sulle questioni indifferenti, con un linguaggio diverso da quello del popolo. Tuttavia il dispotismo teologico e il pregiudizio ebbero il sopravvento. Un tribunale, divenuto potente nell’Europa meridionale, nelle Indie e nel Nuovo Mondo (un tribunale però nel quale la fede non comanda di credere, che la carità non ordina di approvare, o meglio che la religione condanna, quantunque sia presieduto dai suoi stessi ministri, un tribunale che in Francia non si è ancora abituati a nominare senza raccapriccio) condannò un celebre astronomo perché aveva sostenuto che la terra si muove, dichiarandolo eretico; pressappoco come alcuni secoli prima il papa Zaccaria aveva condannato un vescovo perché non aveva la stessa opinione di Sant’Agostino sugli antipodi, divinandone l’esistenza seicento anni prima che Cristoforo Colombo li scoprisse. In tal modo l’abuso dell’autorità spirituale, costringeva la ragione al silenzio e poco mancò che non si proibisse al genere umano di pensare.

Mentre avversari ignoranti o male intenzionati facevano aperta guerra alla filosofia, questa si rifugiava, per così dire, nelle opere di alcuni grandi uomini che, senza avere la pericolosa ambizione di strappare la benda dagli occhi dei loro contemporanei, preparavano da lontano, nell’ombra e nel silenzio, la luce che, a poco a poco, e per gradi insensibili, doveva illuminare il mondo.

Alla testa di questi illustri uomini deve essere posto Francesco Bacone, l’immortale cancelliere di Inghilterra, le cui opere, così giustamente stimate, e tuttavia più stimate di quanto non siano conosciute, meritano, più che i nostri elogi, di essere lette…»

Chi sia riuscito a giungere alla fine di questa pagina di prosa, così fastidiosamente melensa e artificiosa nei suoi svolazzi rococò, e così insopportabilmente rozza e grossolana nei contenuti, sarà in grado di giudicare tutto il male che un’opera come la «Encyclopédie» ha provocato allo sviluppo della cultura europea, diffondendo, sotto le apparenze di una melliflua ragionevolezza e di una falsa e pacata ponderatezza, una concezione maniche e totalitaria del reale, una diffamazione sistematica della storia e della tradizione, una cieca e sperticata adorazione del razionalismo moderno, in quanto vi è di più presuntuosamente e cocciutamente arrogante in esso e in quanto è incapace di aprirsi ad una visione ampia e articolata del reale, ma tende a semplificare tutto, ad appiattire tutto, a rimpicciolire tutto, sulla misura dei propri pregiudizi scientisti e materialisti.

Se, per caso, qualcuno, che non l’avesse mai letta, poteva immaginarsi l’«Encyclopédie» come un’opera, sì, di propaganda ideologica militante, però, nello stesso tempo, ammirevole per la vastità della concezione, per la serietà dell’informazione, per la competenza dei suoi estensori, leggendo questo brano di D’Alembert si sarà reso conto quanto una simile idea sia infondata, e quanto la cultura odierna debba essere ancora dominata dalla stessa cappa di totalitarismo ideologico che guidò i signori philosophes, perché una tale, erronea credenza, sia tuttora possibile. La verità è che l’«Encyclopédie», concepita come una crociata contro i due grandi "mostri" di cui parla anche D’Alembert in queste righe, il dispotismo teologico e la superstizione, ha lo stesso grado di attendibilità scientifica che potrebbe avere un’opera similare, qualora fosse stata concepita dai seguaci di uno dei totalitarismi moderni, il comunismo o il nazismo, vale a dire nullo. Non c’è un solo pensiero, un solo ragionamento, un solo argomento, in essa, che non trasudi l’intolleranza becera di quanti dicono di battersi contro l’intolleranza; la presunzione teologica (in versione scientista) di quanti dicono di battersi contro la presunzione teologica; l’assoluto disprezzo e l’assoluta ignoranza nei confronti delle forze oscurantiste che quei signori vogliono combattere, attribuendo però il monopolio dell’ignoranza e del disprezzo ad esse soltanto.

D’Alembert è un prete alla rovescia, che innalza inni alla libertà di pensiero, mentre vorrebbe farla schiava di nuovi e tremendi idoli; che presenta se stesso e i suoi amici come i campioni della verità, nell’atto stesso di manipolare e mistificare l’intera storia del pensiero occidentale; che contrabbanda per verità sacrosanta, equanime e oggettiva, i suoi pregiudizi, le sue preclusioni, le sue idiosincrasie; che, dandosi un contegno da perfetto gentiluomo, schiuma e sbava di rabbia repressa davanti al sacro, come un indemoniato; che si serve spudoratamente di pezzi e bocconi di verità, per presentare una sua verità di comodo, per delineare un ritratto fantastico del sapere e dei vani sforzi compiuti nei secoli passati verso di esso, riducendo l’intero scenario della storia del pensiero ad una specie di congiura pretesca contro la Ragione e ad una serie d’inutili tentativi di scuotere il giogo di tale dittatura, che solo ora, per merito suoi e dei suoi amici, acquistano sufficiente forza e autorevolezza, perché ora, per la prima volta in duemila anni, la Ragione è diventata adulta e c’è, finalmente, chi sa servirsene in maniera appropriata, e non ingenua o fanciullesca.

La parte più sgradevole del discorso di D’Alembert è quella in cui, fingendo un ossequio formale verso la religione cristiana, che è ben lungi dal nutrire — e lo si sente lontano un chilometro -, e maneggiando la penna come un fioretto, si diverte a punzecchiare incessantemente il suo vero bersaglio — la religione in quanto tale, e quella cristiana in particolare — ma con argomenti così apparentemente ineccepibili, e perfino devoti, da prevenire e disarmare qualunque possibile obiezione. È penoso e vagamente nauseante sentirlo tessere le lodi della sublime verità della Rivelazione, mentre pasticcia i suoi pretestuosi ed involuti ragionamenti per arrivare a dire, fra le righe, che la religione è quanto di più assurdo e ridicolo esista al mondo, e la teologia è il sapere più inutile e cervellotico che si possa immaginare; e ancor più quando spinge la sua improntitudine fino a suggerire una specie di santa alleanza tra la Ragione e la "vera" fede, sottintendendo che da una tale alleanza la fede uscirà annientata e distrutta, ma a distruggerla saranno gli stessi credenti, una volta accortisi dell’immenso inganno in cui erano caduti. Fra l’altro, viene qui prefigurata una situazione che noi, cittadini del XX e degli inizi del XXI secolo, conosciamo assai bene: l’alleanza innaturale e grottesca fra i nemici dichiarati della religione cristiana — i signori intellettuali della sinistra progressista, neo-illuminista, neo-marxista, neo-psicanalista, neo-scientista, eccetera, eccetera, e i loro amici e parenti spirituali della "sinistra" cattolica, del pari progressisti e "illuminati": alleanza che ha il solo ed unico risultato di demolire dall’interno la visione cristiana del mondo e di ingannare gli ingenui, facendo credere che si tratta non di una distruzione, ma di una "riforma", portata avanti, concordemente e amichevolmente, tanto dall’interno della cultura cattolica, quanto dagli "amici" e ammiratori laici, che essa possiede all’esterno.

Si dirà che le contorsioni intellettuali di D’Alembert, quando tocca questo argomento – veramente degne di un rettile -, erano rese necessarie, e quindi giustificate, dalla concreta possibilità di rappresaglie da parte delle forze clericali. Ma ciò è falso, perché, quando venne redatta e stampata l’«Encyclopédie» (1751-80), l’Inquisizione – che D’Alembert, con teatrale sfoggio di pudore offeso, si rifiuta addirittura di nominare, come se le sue labbra fossero troppo nobili per pronunciare quel nome -, aveva perso da un pezzo la sua forza aggressiva, e questo non per merito degli illuministi, ma perché la Chiesa stessa, per una serie di ragioni storiche, e la cultura cattolica, stavano riformulando le loro posizioni nei confronti del mondo moderno, ed erano giunte alla conclusione che la pura e semplice repressione, oltre che impossibile, era sbagliata e controproducente. Checché ne dica D’Alembert, la Chiesa e la cultura cattolica, per esempio, si erano rese conto fin dall’nizio di aver commesso un grave errore condannando Galilei; di più: di essere cadute nella trappola delle provocazioni di Galilei, smaniosamente alla ricerca di un successo di scandalo, che gli permettesse di avvalorare una teoria scientifica per la quale non possedeva uno straccio di prova valida, e che costringesse tutti ad accettarla, peraltro contraddicendo le sue stesse convinzioni circa le procedure del metodo scientifico. È vero, semmai, il contrario: all’epoca della «Encyclopédie», la Chiesa era interamente sulla difensiva, stava perdendo le basi stesse della sua presenza nella società, sotto i colpi di maglio dell’assolutismo illuminato, del giuseppismo e del giurisdizionalismo; la Francia, ben prima del 1789, era ormai una nazione in gran parte scristianizzata; che i Gesuiti erano ovunque sotto attacco, le loro "reducciones" paraguaiane venivano chiuse dal marchese di Pombal (a beneficio dei cacciatori di schiavi e dei latifondisti del Brasile), il loro ordine veniva cacciato da un Paese dopo l’altro, fino alla soppressione totale; mentre la Massoneria, divenuta onnipresente e onnipotente, faceva e disfaceva la trama della politica, dell’amministrazione, della cultura, portando avanti il suo disegno di azzeramento della cultura cristiana e distruzione della religione cattolica…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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