
Poesia e fede nella «Annunciazione» della Verna, di Andrea della Robbia
20 Novembre 2015
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21 Novembre 2015Molto noto è il poemetto di Rutilio Namaziano, incompiuto o giuntoci incompleto, «De Reditu suo», che descrive il viaggio di ritorno da Roma alle sue terre transalpine di un senatore gallico di religione pagana, all’indomani del sacco di Alarico del 410 d. C. (cfr. il nostro articolo: «Il "De Reditu" di Rutilio Namaziano è lo specchio di una classe dirigente ormai allo sbando», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 19/12/2011). Si tratta di un’opera che, al di là dei suoi (indubbi, anche se un forse un po’ sopravvalutati) meriti letterari, offre materiali estremamente interessanti allo storico dell’ultima fase dell’Impero Romano di Occidente, perché illustra le condizioni in cui versavano le strade, le campagne e le città al principio del V secolo, dopo l’irruzione dei Visigoti lungo tutta la Penisola, da Nord a Sud e poi da Sud a Nord, essendo fallito il loro tentativo di passare in Sicilia e, da lì, nella Provincia d’Africa, e avendo essi deciso di cercare una sede in Gallia, possibilmente d’accordo con la corte di Onorio a Ravenna.
Assai meno noto, ma non meno significativo per farsi un’idea delle condizioni materiali in cui versavano le contrade italiane e galliche nella seconda metà del V secolo, e particolarmente le comunicazioni terrestri e fluviali, è un altro testo letterario scritto da un altro senatore di origine gallica (era nato a Lione verso il 430 e sarebbe morto a Clermont-Ferrand nel 486), che, da importante funzionario civile — fu anche Prefetto del Pretorio e Praefectus Urbi -, sarebbe stato poi eletto vescovo d’Alvernia per volontà dei suoi concittadini, e che la Chiesa cattolica avrebbe infine proclamato santo: Gaio Sidonio Apollinare. Per i suoi nobili natali e per le sue non comuni capacità diplomatiche, ebbe dimestichezza con alcune delle maggiori personalità del suo tempo; fra l’altro, sposò la nobile Papianilla, che era la figlia di Antemio, uno degli scialbi ed effimeri imperatori d’Occidente che si succedettero nel ventennio successivo all’assassinio di Valentiniano III, al sacco di Roma da parte di Genserico (455) e all’estinzione della dinastia di Teodosio. Prese anche le armi contro l’imperatore Maioriano e fu fatto prigioniero, ma, poco dopo, liberato. È un fatto che Sidonio si destreggiò con incredibile disinvoltura in mezzo alle guerre civili e alle invasioni barbariche, uscendone sempre illeso: segno di quanto potenti fossero le sue amicizie e di quanto grande il suo fiuto politico, in tempi così burrascosi ed incerti. Basti dire che quando i Visigoti assediarono la sua città, Clermont-Ferrand, egli, in qualità di vescovo, animò la resistenza dei suoi concittadini; e che quando essa cadde, fu per breve tempo imprigionato, indi rimesso in libertà dal re Eurico, e, addirittura, reintegrato nella sua cattedra episcopale.
Questo era il personaggio che nel 467 ricevette l’incarico di portare a Roma, presso l’imperatore Antemio, una petizione dei suoi concittadini (cioè, in pratica, dei grandi proprietari gallo-romani, quasi tutti di estrazione senatoria, che formavano ancora una consorteria potente e abbastanza coesa: Avito era stato uno di loro). Seguendo le usanze del tempo — ma non si può dire che oggi le cose siano cambiate di molto, specialmente a Roma — Sidonio, giunto nella capitale, cercò prima di tutto di stabilire un contatto con un referente politico qualificato, tramite il quale ottenere un biglietto di presentazione per l’imperatore: e lo trovò in uno dei due personaggi più influenti della capitale, Cecina Decio Basilio (l’altro era Gennadio Avieno), della nobile famiglia dei Flavi, ex console ed ex Prefetto del Pretorio per l’Italia. Costui gli consigliò, per farsi ricevere dall’imperatore, di comporre un panegirico in suo onore (cosa in cui Sidonio era versatissimo: ne aveva già scritti sia per il suocero Avito, sia per l’ex nemico Maioriano), cogliendo l’occasione del suo secondo consolato, che avrebbe avuto inizio il 1° gennaio del 468; dopo di che entrò in scena lui stesso, per raccomandare al sovrano l’importante esponente dell’aristocrazia gallica e consigliarlo di accogliere le richieste dei suoi irrequieti sudditi d’oltr’Alpe.
Non sappiamo bene quale esito ebbe la petizione, ma è certo che Sidonio fu nominato senatore, patricius e Praefectus urbi: una ricca messe personale per la carriera politica del futuro vescovo di Clermont-Ferrand. Sempre navigato uomo di mondo, egli ebbe anche la prudenza (o la sfrontatezza, secondo i punti di vista), alla fine del 468 o al principio del 469, di dimettersi dalla carica di Praefectusd Urbi, per non dover presiedere il pubblico processo che venne istruito contro un suo amico gallico, Arvando, Prefetto del Pretorio per le Gallie. Questi era stato condotto a Roma e trascinato in giudizio sulla base di una accusa gravissima da parte di alcuni personaggi transalpini (Tonanzio Ferreolo, Taumasto e Petronio): quella di aver complottato con Eurico, re dei Visigoti, per spartirsi la Gallia con i Burgundi, dopo averlo incitato a non riconoscere Antemio quale imperatore d’Occidente. Si trattava, quindi, di un caso di alto tradimento: e l’accusa fu in grado di produrre la lettera con cui il segretario di Arvando, sotto dettatura di questi, si rivolgeva ad Eurico; lettera che fu riconosciuta come autentica dal segretario medesimo. Il caso era piuttosto chiaro, e il Senato non poté che emettere una sentenza capitale contro il nuovo Catilina, le cui responsabilità apparivano provate al di là di ogni dubbio; ma la sua esecuzione venne bloccata dal pronto intervento dello stesso Sidonio, che riuscì a strappare ad Antemio la commutazione della pena nella confisca dei beni e nell’esilio.
Il componimento in cui Sidonio descrive il viaggio dalla Gallia a Roma (che fa parte dei «Carmina», pubblicati dall’autore verso il 470) non sarà un capolavoro poetico, tuttavia, oltre ad essere una delle ultime testimonianze della letteratura latina di età imperiale e della ormai avvenuta fusione tra la cultura classica e pagana e la cultura cristiana, è anche estremamente interessante per i dati che fornisce circa lo stato delle comunicazioni nella parte occidentale dell’Impero verso lo scorcio del V secolo. Stranamente, si direbbe che esse fossero migliori che non all’epoca di Rutilio, il cui viaggio si colloca circa mezzo secolo prima (nel 415): pare che le strade e la stessa navigazione fluviale lungo il Po e i suoi affluenti fossero in condizioni piuttosto buone, e che perfino la strada che scavalcava le Alpi, coperta di ghiaccio, fosse soggetta a regolare manutenzione, dato che Sidonio poté transitarvi in condizioni di perfetta sicurezza e che poi, sceso nella Pianura Padana, ebbe il tempo e la voglia di discendere il Po, ammirare i paesaggi, fare una deviazione fino a Ravenna e infine ritornare verso Roma, il tutto per il solo piacere di vistare luoghi che non conosceva ma che, evidentemente, erano raggiungibili con relativa facilità.
La spiegazione di questo apparente paradosso è che Rutilio intraprese il suo viaggio pochissimo tempo dopo la micidiale scorreria dei Visigoti lungo tutta la Penisola, effettuata nei due sensi, mentre Sidonio poté viaggiare attraverso l’Italia settentrionale in un periodo di relativa pace e sicurezza. Diciamo "relativa", perché Attila l’aveva percorsa e saccheggiata in lungo e in largo quindici anni prima, spingendosi da Aquileia fino a Milano e, poi, alle rive del Mincio (che anche Sidonio poté ammirare, e che forse trovò così affascinanti soprattutto per un riflesso condizionato di tipo letterario, ossia per una reminiscenza virgiliana); e perché ancora il 6 febbraio del 464, ossia solo tre anni prima del viaggio di Sidonio, un’orda di Alani, sotto la guida del loro re, Bergeor, era discesa dalle Alpi ed era stata fermata, all’ultimo momento, dal patricius Ricimero, in una battaglia d’annientamento presso Bergamo: i pochi scampati erano stati poi rastrellati e uccisi dagli abitanti dei villaggi ai piedi del passo della Presolana, fra la Val Borlezza e la val Seriana (cfr. il nostro saggio: «La fine dell’Impero romano d’Occidente», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/05/2007, e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 14/07/2015).
Scrive Luigi Piacente a proposito del viaggio dalla Gallia a Roma di Sidonio Apollinare, descritto nel carme 24 (in: «Il viaggio nella letteratura occidentale tra mito e simbolo», a cura di Antonio Gargano e Marisa Squillante, Napoli, Liguori, 2005, pp. 98-103 passim):
«Siamo nell’autunno del 467 e Sidonio è a Lione quando riceve da parte dell’amministrazione imperiale […] una lettera di convocazione a Roma, che con ogni probabilità già da tempo attendeva. Per questo motivo i preparativi per il viaggio non dovettero essere troppo lunghi, per cui nel giro di pochi giorni egli fu in grado di intraprendere il cammino, la cui descrizione, inviata ad Erenio subito dopo l’arrivo a Roma, ha inizio proprio all’uscita della città di Rodanusia, cioè Lione sul Rodano, patria dello scrittore. […]
Il tragitto si presenta certamente impegnativo ma, nonostante la stagione invernale, non si registra alcun problema, anche in una situazione critica quale poteva rivelarsi l’attraversamento delle Alpi, dove invece il cammino si dimostrò "citus et facilis", in quanto era agevolato da un sentiero scavato nella neve ("cavatis in callem nivibus") e quindi protetto da pareti di ghiaccio che impedivano al viaggiatore di avvicinarsi pericolosamente al precipizio. Donde si evince che l’accurata gestione del "cursus publicus" non trascurava neppure, evidentemente, i difficili percorsi ad alta quota.[…]
Superate senza difficoltà le Alpi, il percorso di Sidonio è terrestre fino a Pavia, da dove ha inizio la navigazione fluviale sul Po, che poi tocca, con brevi escursioni, il Lambro, l’Adda, l’Adige e il Mincio, tutti fiumi che nascono dai monti Liguri ed Euganei. Sidonio, il viaggiatore attento e curioso, imboccando controcorrente il corso di questi affluenti del Po, ne ammira le sponde rivestite di boschi e si diletta del cinguettio degli uccelli annidati tra le canne e i giunchi palustri nella parte più bassa delle rive. […]
Sidonio giunse poi a Ravenna seguendo il ramo di destra del Po, cioè quello più a sud: la città, residenza imperiale già dagli inizi del V secolo, lo colpì profondamente, ed è anzi molto probabile che anche per il desiderio di visitarla egli sia stato costretto ad arrivare sul versante adriatico per poi ritornare indietro sul Tirreno verso ovest. […]
Riprendiamo ora il nostro viaggio e ritroviamo Sidonio che, con la sete e la febbre che infierivano su un fisico ormai allo stremo, è davanti alla città di Roma, ma, prima di entrarvi, in atto di grande venerazione, si dirige alle tombe dei martiri Pietro e Paolo, situate nelle due basiliche, all’epoca ancora fuori della cinta muraria: qui si accorge che, evidentemente per intervento soprannaturale, il suo malessere era del tutto scomparso. Trova quindi alloggio in una stanza d’albergo, la stessa che ancora occupava mentre scriveva questa lettera ad Erenio, concedendosi un meritato riposo dopo le fatiche del viaggio. […]
Dunque a Roma, agli occhi del nobile gallo-romano si presenta uno scenario forse non del tutto imprevisto, ma certo inatteso nelle sue dimensioni: era infatti in pieno svolgimento una grande festa per il matrimonio di Alipia, figlia dell’imperatore Antemio, col potentissimo "praefectus Urbi" Ricimero, ovviamente un matrimonio ‘politico’ che, come sottolinea Sidonio, era stato combinato "in spem publicae securitatis" […]»
E la storia ci dice che quel matrimonio politico non fu affatto sufficiente ad appianare i contrasti crescenti fra genero e suocero, tanto che qualche anno dopo, nel 472, si giunse alla resa dei conti: e Roma conobbe il terzo sacco della sua storia recente, con la presa violenta da parte delle soldatesche di Ricimero e l’assassinio di Antemio, mentre le case ed i beni degli sfortunati cittadini dell’Urbe venivano manomessi da una masnada di predoni, in gran parte soldati romani solo di nome, ma in effetti di nazionalità germanica (cfr. i nostri precedenti lavori: «Il sogno imperiale di Antemio naufraga nel 472, con il terzo sacco di Roma», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/02/2014 e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 15/07/2015; e «La congiura di Ricimero contro Avito apre l’ultima fase dell’Impero Romano d’Occidente», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 17/07/2015).
Personaggio davvero strano, Sidonio Apollinare. Mentre il mondo romano gli sta crollando attorno, pezzo sopra pezzo, lui ne esce sempre con la pelle intatta, ed è capace di levare dai pasticci anche qualche amico inguaiatissimo, come Arvando. Mentre uomini come san Gerolamo vivono in maniera drammatica l’incontro delle due culture, pagana e cristiana, lui passa dall’una all’altra con perfetta naturalezza, e viene persino fatto vescovo, anche se nulla, della sua vita, ci dice che abbesse particolari qualità spirituali (ma organizzative e diplomatiche, sì: e forse era quanto si richiedeva allora a un vescovo). Infine, mentre la fine dell’Impero si avvicina a grandi passi (manca ormai meno d’un decennio all’atto conclusivo, la deposizione di Romolo Augusto), lui si attarda lungo gli affluenti del Po, come un turista che non ha alcuna fretta: quando deve farsi ricevere dal sovrano…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels