L’ordine è di destra o di sinistra?
18 Novembre 2015
Shivapuri Baba: una vita eccezionale
19 Novembre 2015
L’ordine è di destra o di sinistra?
18 Novembre 2015
Shivapuri Baba: una vita eccezionale
19 Novembre 2015
Mostra tutto

Che cosa significa acquisire la cittadinanza?

Le discussioni sullo "ius soli" e, più in generale, sul fenomeno di migrazione/invasione che sta investendo l’Europa in questi ultimi tre decenni, e che, presumibilmente, continuerà e assumerà dimensioni ancora più ampie, invece di scatenare la battaglia dei favorevoli e contrari, così, sull’onda estemporanea delle emozioni, potrebbero e dovrebbero suggerire una riflessione pacata, razionale, realistica e non ideologica del problema, in tutta la sua complessità e delicatezza.

La domanda fondamentale, evidentemente, prima ancora di cominciare a vedere chi e quanti abbiano o non abbiano il diritto di fare richiesta di cittadinanza italiana, francese, tedesca, eccetera, dovrebbe essere, semplicemente, quella preliminare: che cosa significa, non solo e non tanto in senso giuridico e legale, ma in senso profondo e sostanziale, essere cittadino di un determinato Stato? E, in subordine: davvero si può diventare cittadini di uno Stato diverso dal proprio, situato in un altro continente, con una cultura e dei valori completamente diversi dai propri? E, se sì, a quali condizioni, con quali modalità, a fronte di quali impegni e doveri?

Alla radice di tali domande, e dello stesso fenomeno di migrazione/invasione, c’è una situazione di fatto, anteriore, per la verità, ai primi sbarchi e ai primi ingressi clandestini verificatisi lungo le coste italiane e lungo le frontiere terrestri, italiane e degli altri Paesi membri dell’Unione europea: la graduale, progressiva, inarrestabile disaffezione dei cittadini nei confronti della propria patria, della propria cultura, della propria tradizione, quando non, addirittura, il disprezzo, il rifiuto e l’odio, magari dissimulati, magari sottintesi, e tuttavia sempre presenti e operanti, se non altro al livello del subconscio. E il bello è che un tale esempio è stata l’intellighenzia europea a darlo.

Evidentemente, possedere la cittadinanza di un determinato Stato non può avere solo un significato tecnico ed esteriore: dovrebbe avere, in primissimo luogo, un significato spirituale, psicologico, affettivo, altrimenti è solo un pezzo di carta con i dati di identità, che non significa nulla né per chi lo possiede, né per gli altri membri di quella comunità. Essere cittadini "responsabili", dunque, non significa solo che si devono rispettare le leggi, le consuetudini e le tradizioni di quel Paese, magari per paura delle sanzioni che deriverebbero dal loro mancato rispetto; ma che si conoscono quelle tradizioni, si prova della simpatia per quelle consuetudini e ci si sente affettivamente legati, nonché impegnati da un patto di fedeltà e solidarietà, con quella gente, quei luoghi, quel modo di vivere, quei valori. Beninteso, con un margine di autonomia: essere cittadini spagnoli non vuol dire che si debba amare per forza anche la corrida; ma che se ne debba rispettare la tradizione, questo sì: per cui, anche disapprovandola, o desiderando di vederla abolita, si agirà sempre in maniera tale da non disprezzare e da non offendere coloro i quali, per una lunga consuetudine, sono attaccati a quella tradizione, distinguendo fra le loro persone, sempre e comunque rispettabili, e le loro convinzioni, con le quali si può anche essere in disaccordo. Come si può essere in disaccordo, talvolta, anche con i propri genitori o con i propri fratelli, pur amandoli.

Soprattutto, non si può pensare che la cittadinanza sia un legame di tipo opportunistico, basato esclusivamente sulla convenienza e sull’interesse. Si è cittadini di uno Stato perché si condivide con quella società, con quel popolo, con quel territorio, un progetto di vita che va oltre la stretta convenienza personale: questo, almeno, è quel che pensiamo noi. Non si dovrebbe accettare un lavoro all’estero, trasferendosi per molti anni in un Paese straniero, solo perché la sua offerta economica è migliore: per prendere una decisione così drastica, dovrebbero esserci delle ragioni molto, ma molto serie: questione di sopravvivenza. Uno Stato non è un albergo, non è un ristorante o un supermercato, dove si va o non si va a seconda dei prezzi: se così fosse, vorrebbe dire che quello Stato non ha dei cittadini, ma dei mercenari: gente pronta a voltargli le spalle qualora le cose dovessero andar male.

Questa è una cosa difficile da far capire, oggi, specialmente ai giovani, perché sembra che la libertà di scelta dell’individuo e la sua ricerca del massimo piacere (edonismo) e del massimo profitto (economicismo) giustifichino tutto, anche qualunque voltafaccia o tradimento. Non vi è più un senso di fedeltà quando si crea una famiglia, perché c’è sempre il sottinteso che il marito potrebbe lasciare la moglie, o il compagno potrebbe lasciare la compagna, alla prima occasione, non appena incontri una donna più giovane e bella; e viceversa la donna, nei confronti dell’uomo. Quanto ai figli, si farà come Dio vorrà, o meglio, come il giudice stabilirà, codice alla mano.

Se la famiglia, che è la cellula sociale fondamentale, vive un simile senso di precarietà, è logico che lo viva anche lo Staro, il quale, dopo tutto, costituisce una società naturale, ma artificiale: ha avuto una data di nascita e avrà anche, presto o tardi, una data di morte. Intanto, però, finché esso esiste, le relazioni umane passano attraverso di esso o si svolgono entro la sua cornice: impossibile ignorarlo, impensabile fare come se non ci fosse. Essere cittadini responsabili, pertanto, è come essere pari o madri responsabili, sia nei confronti l’uno dell’altra, sia, e soprattutto, nei confronti dei figli: i quali non hanno chiesto di essere messi al mondo, ma hanno il diritto che i genitori, dopo averli generati, si prendano cura di loro nel modo migliore che possono.

Ed eccoci arrivati al discorso sulla richiesta di cittadinanza da parte ds una persona proveniente da un altro Stato, da un altro continente, da un’alta civiltà (di una persona, non di decine di milioni di persone: differenza non certo trascurabile, e della quale si deve tenere il massimo conto, lasciando da parte i rigidi schemi ideologici, che vanno bene solo in teoria). Per come la vediamo noi, essere ammessi in uno Stato diverso dal proprio, non temporaneamente, ma definitivamente, ossia con tutti i diritti e i doveri a ciò annessi, non è una questione da considerare solo sotto il profilo tecnico, giuridico e utilitaristico: è una questione culturale, spirituale, affettiva. È come quando una famiglia decide l’adozione di un nuovo membro: di un figlio adottivo, per esempio, proveniente da una famiglia disastrata, o inesistente, che, in ogni modo, non può, non sa o non vuole prendersi adeguatamente cura di lui. Accogliere nella propria famiglia un estraneo non è cosa da poco. Se si decide per il sì, bisogna far capire a costui, specialmente se si tratta di un adulto, che non è soltanto un diritto, ma anche una responsabilità, e, prima di tutto, un onore. È un onore essere accolti in una famiglia, ed è un onore ottenere la cittadinanza di un determinato Stato, diverso dal proprio. Se non si ha ben chiaro questo concetto, nella mente e nel cuore, si parte già con il piede sbagliato e si creano le premesse per delusioni, amarezze, recriminazioni.

Inutile dire che da questo discorso dovrebbero restare esclusi in partenza tutti i clandestini, cioè tutti colori i quali si introducono abusivamente e illegalmente in un altro Paese. Sarebbe come se qualcuno entrasse di nascosto o di prepotenza in casa nostra, magari forzando le serrature, e si installasse in soffitta, o in cantina, per qualche tempo; poi, fattosi audace, di facesse avanti e chiedesse di poter passare nelle stanze buone e di venire accolto come un membro della famiglia. Onestamente, quanti di noi, in quella situazione, si fiderebbero di un tale intruso e lo "promuoverebbero" a inquilino permanente, nonché a membro effettivo del nucleo familiare? Per essere meritevoli di accoglienza, bisogna avere un comportamento leale, pacifico, rispettoso, e fare una richiesta che non si presenti né come un ricatto («Sto per affogare, salvatemi!»), né come una minaccia («O m fate entrare con le buone, oppure entro lo stesso, ma con le cattive). Altrettanto inutile dire che chi ottiene il permesso di soggiorno e, in un secondo tempo, la cittadinanza, deve meritarsela, non solo rispettando la legge (questo devono farlo tutti i cittadini di uno Stato), ma anche astenendosi da qualunque comportamento, discorso o azione che suoni come una minaccia: per esempio, se qualche immigrato — non solo in Francia, ma in qualsiasi altro Paese dell’Unione europea – esulta per degli attentati terroristici come quelli che hanno insanguinato Parigi il 13 novembre 2015, la risposta dovrebbe essere una sola, drastica, immediata: l’espulsione immediata con divieto assoluto di ritornare, anche solo temporaneamente; sempre che non vi siano gli estremi per una denuncia e un processo per istigazione alla violenza e all’odio, o per apologia di reato.

E adesso vediamo di fare qualche breve riflessione sull’altro versante del problema: non quello dello Stato che accoglie, ma quello della persona che chiede accoglienza. Della persona, ripetiamo, non delle masse infinite di persone: perché, in questo secondo caso, il problema non è semplicemente giuridico e morale, ma è anche squisitamente politico, e deve essere la politica a decidere la risposta, non la magistratura o le forze dell’ordine, che possono solo far rispettare le leggi esistenti. Emigrare, e scegliere di emigrare definitivamente, facendo domanda di acquisire la cittadinanza del Paese ospitante, non è uno scherzo: è un dramma. Crediamo che solo in casi estremi, disperati, ciò sia umanamente comprensibile e accettabile. Pertanto dovrebbe essere l’eccezione che conferma la regola, non la regola stessa. Non è immaginabile che intere popolazioni decidano di migrare e pretendano di essere accolte entro i confini di altri Stati: almeno finché esistono i confini e finché esistono gli Stati. Se e quando decideremo di abolire gli uni e gli altri, allora ne riparleremo.

Da che mondo è mondo, simili migrazioni sono state considerate invasioni: e sappiamo come Cesare rispose alla richiesta degli Elvezi di migrare dalle montagne del Giura fino al paese dei Santoni, situato all’altro capo della Gallia, passando attraverso la Provincia romana: rispose con la guerra. Quella, per lui, non era semplicemente una migrazione, ma un’invasione; eppure gli Elvezi avevano domandato rispettosamente il permesso di transito, e la loro meta finale non era affatto in territorio romano, ma molto al di là di esso. È facile immaginare come Cesare avrebbe reagito se la richiesta fosse stata quella di stabilirsi senz’altro in territorio romano. Quando i Romani, quattro secoli dopo, incominciarono ad accogliere lo stanziamento delle tribù germaniche al di qua del limes danubiano, fu l’inizio della fine per lo Stato imperiale.

Dicevamo: emigrare (non migrare, che è un atto collettivo), è un dramma: psicologico, morale, sociale. I nostri nonni e bisnonni lo hanno vissuto e ne sapevano qualcosa. Pure, essi non prendevano d’assalto le spiagge degli Stati Uniti, del Brasile e dell’Argentina, né oltrepassavano illegalmente i confini terrestri della Svizzera, della Francia, della Germania. Concordavano prima ancora di partire, sia la destinazione, sia il lavoro che avrebbero svolto: non si presentavano sprovvisti dei documenti, non rifiutavano di declinare le loro generalità, non si limavano la pelle dei polpastrelli per non dover rilasciare le impronte digitali (quando tale pratica entrò in uso). Inoltre, emigravano verso Paesi europei, preferibilmente latini e cattolici, dove esistevano le condizioni ideali per un loro inserimento e per una loro integrazione: come, difatti, avvenne. Pochissimi sceglievano Paesi africani o asiatici; e ben pochi si diressero anche verso le stesse colonie italiane (Libia, Dodecaneso, Eritrea, Somalia, e, per breve tempo, Etiopia), dove pure il nostro governo faceva del suo meglio per favorirne l’insediamento. Insomma, non partivano con il fermo proposito di non integrarsi, ma con quello opposto. È vero che in certi paesi del Brasile i loro discendenti hanno conservato a lungo il proprio dialetto, ma non perché difettasse la disponibilità ad integrarsi e ad imparare la lingua portoghese, ma semplicemente perché quei luoghi erano molto isolati e altri europei non ce n’erano, entro un raggio di parecchi chilometri.

Ad ogni modo, anche quando un emigrante è disposto ad integrarsi, o persino desideroso di farlo, ciò non significa che egli si dimentichi del proprio Paese natale: i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, i genitori e gli amici rimasti a casa, l’educazione ricevuta, tutto questo esercita un fortissimo influsso psicologico, ancora per molti anni: di solito, per tutta la vita. Almeno per la prima generazione. Tuttavia non è raro che ancora dopo la seconda e la terza generazione, la nostalgia permanga; e la nostalgia, nel caso di una provenienza culturale o religiosa molto diversa da quella del Paese ospitante, può tingersi anche di amarezza, di risentimento, di sorda ostilità. Gli attentatori di Londra e di Parigi erano ragazzi musulmani della terza generazione: l’essere nati in Europa non aveva per nulla smorzato i loro sentimenti di ostilità verso la civiltà europea, percepita come nemica e come responsabile delle misere condizioni dei loro Paesi d’origine. Questo pone un problema: quello della lealtà nei confronti del Paese ospitante. Non si dovrebbe cercare pane e lavoro in un altro Paese e poi tramare contro di esso, se ci si considera semplicemente degli emigranti e non dei guerrieri/conquistatori. Bisogna riflettere su questo.

La cultura illuminista e materialista dei diritti ha scardinato la morale tradizionale e non ci si deve meravigliare che abbia scardinato anche l’etica dei rapporti fra persone immigrate e le società ospitanti. La stragrande maggioranza degli abitanti dell’Europa non nutre sentimenti razzisti: se ciò sta incominciando ad accadere, crediamo che dipenda dalla folle gestione d’un simile fenomeno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.