
Perché l’Italia non seppe creare lo stato nazionale
13 Novembre 2015
Cassola in «Monte Mario» porta al limite estremo la sfida al politically correct della sinistra
13 Novembre 2015Quale è stata la vera causa della sconfitta degli Stati italiani nelle guerre d’invasione iniziate nel 1494, con la memorabile discesa del re di Francia, Carlo VIII, verso Napoli, e culminate, dopo oltre trent’anni di lotte pressoché incessanti, con il dramma del Sacco di Roma del 1527, e la definitiva sottomissione della Penisola alla monarchia asburgica di Carlo V?
È questo un interrogativo che non ha mai cessato di affascinare, di angustiare e tormentare, intere generazioni di storici, sia italiani che stranieri: quasi quanto quello relativo alle vere cause della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel V secolo dopo Cristo, sotto il duplice urto (affermava il buon vecchio Gibbon: ma con il torto di anteporre la tesi alla dimostrazione) dei barbari e del cristianesimo.
Gli Stati italiani sono stati facilmente sconfitti e assoggettati dalle monarchie nazionali di Francia e Spagna perché erano, a paragone di esse, troppo piccoli, e perché i loro eserciti, più "poveri", erano ancora basati sulla cavalleria, mentre già si stava affermando la supremazia della fanteria, sostenuta dalla nuova e costosissima arma, l’artiglieria? Forse. Però sta di fatto che nella battaglia di Fornovo sul Taro del 6 luglio 1495, che si può considerare come l’evento decisivo di quelle lotte trentennali — perché dal suo esito derivò l’inizio dell’assoggettamento della Penisola, mentre da un suo esito diverso le invasioni straniere, probabilmente, si sarebbero fermate — l’esercito degli Stati italiani, formato soprattutto da Milanesi e Veneziani, mostrò di non essere per nulla inferiore a quello della maggiore monarchia europea, tanto da assicurarsi la vittoria tattica. Se la vittoria andò sprecata e il successo strategico rimase a Carlo VIII, ciò accadde principalmente perché Francesco II Gonzaga, signore di Mantova e comandante delle truppe alleate (in gran parte mercenarie, cosa che Machiavelli avrebbe poi raccomandato di evitare), volle strafare: ideò una manovra inutilmente complicata e si lasciò sfuggire l’occasione di annientare il nemico.
Oppure gli Stati italiani sono stati sconfitti per la loro arretratezza tecnica? Ad esempio, e sempre restando nell’ambito militare, perché non avevano compreso l’importanza dell’artiglieria? È difficile sostenerlo: la loro superiorità navale parrebbe smentirlo. Le flotte veneziane e genovesi dominavano ancora il Mediterraneo, nella svolta fra XV e XVI secolo: i loro cannoni imponevano rispetto a tutti, cristiani e musulmani. Nell’ambito economico e finanziario, gli Stati italiani del Centro-nord — Milano, Venezia e Firenze — non erano secondi a nessuno, né per capacità imprenditoriale, né per perizia tecnica nel processo produttivo, né per la disponibilltà di mezzi degli istituti bancari. Il fiorino dominava l’economia-mondo del Rinascimento: era il dollaro del 1400 e del 1500. Se con l’impresa si conquistano i mercati, con le banche si può comprare tutto: dalla carica imperiale (come avverrà per l’elezione di Carlo V d’Asburgo) all’arruolamento e all’armamento di qualsiasi esercito, artiglieria compresa; pertanto, agli Stati italiani non mancavano i mezzi per competere.
Oppure l’elemento decisivo della sconfitta italiana è stata l’assenza di un vero spirito nazionale? Ne abbiamo già parlato in un recente articolo, al quale rimandiamo (cfr. «Perché l’Italia non seppe creare lo stato nazionale?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 11/10/2015). Senza dubbio l’assenza di un autentico sentimento nazionale, specialmente da parte dell’aristocrazia italiana, ebbe un grande peso; che andò ad aggiungersi alla piccolezza territoriale e alla modestia delle risorse demografiche, a paragone delle monarchie nazionali. Probabilmente, la causa fu una combinazione di questi fattori, nessuno dei quali sarebbe stato di per sé decisivo, ma la cui somma produsse un handicap incolmabile rispetto a Francesi e Spagnoli.
Fra gli storici europei che si sono occupati della questione, uno dei più interessanti da andarsi a rileggere è, secondo noi, lo svizzero-tedesco Eduard Fueter (nato a Basilea il 13 novembre 1876 e spentosi nella sua città natale il 20 novembre 1928), che fu professore all’Università di Zurigo, e il cui libro più noto, «Geschichte der neueren Historiographie» (ossia «Storia della storiografia moderna», tradotto in italiano dal grande europeista Altiero Spinelli), del 1911, non ha ancora perso, a più d’un secolo di distanza, gran parte della sua validità.
Fueter fu anche un ammiratore dell’Italia, della sua civiltà e della sua storia, anche moderna; seguì con simpatia le vicende del Risorgimento, né indulse ai soliti luoghi comuni sulle contraddizioni dell’Italia ; e "giustificò" la scelta compiuta da essa nel 1915, di prendere le armi contro i suoi ex alleati della Triplice Alleanza e a fianco delle potenze dell’Intesa, scelta che invece, per moltissimi storici stranieri, bollò perennemente d’infamia il nostro Paese. Egli si pose anche la domanda sul perché del crollo degli Stati italiani al principio del XVI secolo nella sua famosa «Geschichte des europäischen Staatensystems von 1492 bis 1559», pubblicata in Svizzera nel 1919, ma tradotta in Italia solo nel 1932, quattro anni dopo la morte dell’Autore, peraltro da un traduttore d’eccezione: il grande poeta gradese Biagio Marin, del quale ci siamo altra volta occupati (cfr. il nostro articolo: «Le dimensioni del sacro e del ricordo s’intrecciano al quotidiano nella poesia di Biagio Marin», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/06/2008).
Ci sembra opportuno riportare i passaggi salienti della sua analisi (da: E. Fueter, «Storia del sistema degli Stati europei dal 1492 al 1559» (traduzione dal tedesco di B. Marin, Firenze, La Nuova Italia, 1932, p. 5):
«Due considerazioni inducevano i governi delle grandi potenze ad aspirare all’egemonia sull’Italia: una riguardava la diversità dei mezzi esistenti tra gli Stati italiani e i grandi Stati consolidatisi nel corso del sec. XV; l’altra riguardava i vantaggi (anzitutto economici e perciò anche militari) che il dominio sull’Italia e l’esclusione della potenza rivale da questo, comportavano.
Per quanto riguarda il primo punto — la differenza dei mezzi – sarebbe assolutamente erroneo intendere questa differenza alla stregua della morale, sia pure solo nel senso che i grandi Stati aggressori fossero organismi statali politicamente più elevati o più razionalmente organizzati. In Italia vi era di certo, al principio dell’epoca, almeno uno Stato che nella sua organizzazione era rimasto dietro ai grandi Stati recentemente consolidati (Lo Stato pontificio, e poi anche Napoli). Ma Stati come Venezia, Milano e Firenze, non possono dirsi affatto arretrati rispetto alla Francia e alla Spagna, e anche chi volesse riconoscere un sintomo di superiorità politica nella relativa compattezza nazionale degli Stati francese e inglese, basterebbe gettasse uno sguardo nella grande potenza amburghese, per capire che anche questo criterio sarebbe inadeguato. Le cose sono invece molto più semplici. Soltanto l’estensione dava ai nuovi grandi Stati la preminenza sugli Stati medi italiani: quelli erano in grado, almeno per terra, di costituire eserciti maggiori. (Per mare la situazione era diversa; ciò preservò la Repubblica veneta dalla sorte degli altri Stati italiani.) Le grandi potenze che combattevano per il predominio in Italia, possedevano indubitabilmente una più efficace organizzazione politico-militare che altri paesi europei, i quali per quanto non minori in sé, pure erano impediti, dal deficiente armamento, a intervenire decisivamente nei grandi conflitti italiani. Ma di fronte agli Stati italiani non si può riconoscere loro alcuna superiorità; soltanto la superiorità geografica fu decisiva. […]
Il vantaggio economico dell’egemonia sull’Italia si può riassumere in tre punti: l’utile finanziario diretto proveniente dal dominio su grandi centri industriali o commerciali; il vantaggio economico che veniva al possessore dalla ricchezza, in alcune regioni d’Italia, di prodotti del suolo e innanzi tutto il grano (soprattutto non appena egli stesso soffrisse penuria di questi prodotti), e finalmente il guadagno, che trascendeva il mero campo economico e consisteva nell’avere a disposizione le forze navali delle due maggiori potenze marinare e cristiane del Mediterraneo.
Le diverse parti dell’Italia partecipavano in modo disuguale a questo contributo: il Mezzogiorno e una gran parte del centro contavano soltanto per il punto secondo, mentre l’Italia superiore e la Toscana avevano valore innanzi a tutto per il loro commercio, la loro industria e le loro flotte. Oltre a ciò, però, vi era tra tutte queste cose un’interdipendenza. Particolari condizioni politico militari avevano fatto sì che il potere su uno dei più importanti centri industriali del Nord (Milano) fosse anche l’unica via per impossessarsi di uno dei grandi Stati marinari (Genova) e, contemporaneamente, nella sicura disponibilità di tutta la produzione granaria nell’Italia meridionale. Perciò non era possibile alle grandi potenze dividere l’Italia, ai fini di uno sfruttamento collettivo, pacificamente, in sfere d’influenza. Qui sta il problema di Milano, e così si spiega il fatto che la lotta per l’Italia diventò in massima una lotta per Milano.»
La tesi del Fueter, nella sua chiarezza e linearità, ci sembra non priva di persuasività ed efficacia: a suo parere, pertanto, fu la geografia, più che la storia, a decidere l’esito della lotta ingaggiatasi fra gli Stati regionali italiani e le grandi monarchie europee tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo. Come dire che, se Milano — perché «la partita decisiva si giocava per Milano», e da Milano dipendeva l’intero sistema degli Stati italiani — fosse stata sul mare; se fosse sorta sulla laguna veneta, e avesse potuto disporre di una flotta come quella veneziana, le cose sarebbero andate in maniera assai diversa da come andarono.
Pure, sentiamo che anche questa tesi contiene una parte di verità, ma non convince sino in fondo. Anche se è vero che la geografia gioca una parte decisiva nel destino dei popoli e nelle vicende degli Stati (come negare, ad esempio, che Napoleone non sarebbe stato sconfitto in Russia, se non avesse dovuto combattere una campagna su di una scala geografica smisuratamente ampia, ossia contro il fattore spazio e il fattore tempo riuniti insieme, e alleati con il suo nemico sul campo: l’esercito zarista, sostenuto dal denaro britannico?), resta il fatto che anche il fattore geografico non rappresenta un elemento astratto ed estraneo, imponderabile e imprevedibile, ma che esso fa parte del quadro geopolitico complessivo, e che sta agli uomini politici volgerlo a proprio favore, se e quando possibile.
Non è forse vero che la lunghezza della Penisola italiana offre la possibilità di intercettare un esercito invasore, il quale, nell’avanzare, abbia allungato eccessivamente le proprie linee di rifornimento? Fu proprio così che la Lega italiana, nel 1495, ebbe la magnifica occasione di distruggere l’esercito francese a Fornovo sul Taro: se Carlo VIII non fosse sceso fino a Napoli (di dove fantasticava di salpare per una crociata contro il Turco), gli Stati italiani non avrebbero avuto il tempo e la possibilità di raccogliere un esercito per bloccargli la via della ritirata in Francia, allorché egli si rese conto della minaccia che lo sovrastava alle spalle. E fu colpa loro se non seppero sfruttare la circostanza: la geografia aveva dato loro una mano, ma le occasioni favorevoli non si presentano una seconda volta a chi le ha mancate la prima.
È curioso osservare come certe circostanze si ripetono, a distanza di anni o di secoli. Per l’Italia, la ripetizione quasi esatta del 1495 si presentò nel 1943, prima e subito dopo l’8 settembre. Gli Italiani erano sul loro territorio, più numerosi, con una marina ancora forte: se finirono per soccombere in pochi giorni (e in maniera assai più ingloriosa che a Fornovo) davanti ad una forza d’invasione germanica più debole, costretta ad allungare a dismisura le proprie linee di comunicazione e praticamente sprovvista dell’ appoggio navale, ciò fu dovuto all’insipienza dei suoi capi politici e militari. La mancata battaglia di Roma dell’8 settembre 1943 corrisponde alla mancata vittoria di Fornovo del 6 luglio 1495: però, in quest’ultimo caso, Francesco Gonzaga ci era almeno andato vicinissimo, mentre Badoglio non seppe fare di meglio che scappare a tutta velocità, prima ancora di cominciare a battersi.
Pertanto, alla domanda se sia stata la geografia a determinare la sconfitta degli Stati italiani nel Rinascimento, dobbiamo rispondere in maniera negativa, o almeno parzialmente negativa. Il Fueter dice che essi erano troppo piccoli per avere la meglio sulle monarchie nazionali, il che è vero. Ma se erano piccoli, ciò dipese dalla incapacità della classe dirigente italiana di realizzare un disegno di unificazione nazionale, come in Francia e Spagna. E in questo, la geografia non c’entra: è neutrale…
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio