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Quei critici — specialmente di sinistra — che non hanno mai capito niente di Carlo Cassola e del significato complessivo della sua narrativa, hanno accolto l’uscita del romanzo «Monte Mario» come una conferma della supposta "involuzione" intimistica e individualistica (magari anche piccolo-borghese, termine allora tanto di moda e usato per bollare con l’eterno marchio d’infamia qualcuno o qualcosa) dell’Autore.
Meglio ancora — o peggio ancora, a seconda dei gusti: quegli stessi critici, che spadroneggiavano nella cultura italiana degli anni Sessanta, Settanta ed Ottanta, dopo aver preso trionfalmente l’abbrivo con il Neorealismo nei due decenni precedenti, videro in «Monte Mario» una involuzione – se così si può dire – nella involuzione. Non solo l’ex "impegnato" e "quasi neo-realista " Cassola (ché tale era stato da loro promosso sul campo e arruolato di forza, ma a sua insaputa), era passato, o meglio ritornato, dai temi sociali e politici della stagione di «Fausto e Anna» e, in parte, anche de «La ragazza di Bube», alla sua vena irrimediabilmente intimista, minimalista e lirico-sentimentale (già evidente fin da «Il taglio del bosco»: che però, in virtù dello stile apparentemente neorealista, lorsignori avevano "assolto", sia pure con la condizionale, in attesa di vedere cosa sarebbe seguito); egli, ai loro occhi, aveva spinto tale tendenza poetica oltre ogni limite di rispettabilità e tollerabilità, sguazzando senza ritegno in una dimensione introspettiva, psicologica e spirituale, che presentava, semmai, qualche analogia con i «Racconti morali» di Eric Rohmer ma che, nell’ambito specifico della letteratura italiana, non aveva — o meglio, quei signori pensavano che non avesse — alcun precedente degno di rispetto. Onde ai vari Nanni Balestrini e ai suoi sodali del "Gruppo 63" non rimase che gettare il supremo anatema contro un’arte che essi non erano nemmeno in grado di capire: quello di essere Cassola nient’altro che un bluff letterario, una Liala che si era fatta passare abusivamente per l’intellettuale organico di gramsciana memoria, ma che ora aveva definitivamente gettato la maschera e rivelato il suo vero, meschinissimo volto.
Ed era il volto di un narratore piccolo borghese ferocemente nemico del progresso, e, dunque, implicitamente, nemico anche della classe operaia: al punto di scegliere, come protagonista del suo ultimo romanzo, «Monte Mario», addirittura un ufficiale dei Carabinieri: figuriamoci! E questo nel 1973, cioè nel pieno degli "anni ruggenti" della contestazione studentesca, con i professori alla Toni Negri che farneticano, dalle loro cattedre, di rivoluzione proletaria mondiale e di instaurazione del marxismo-leninismo, e con gli studenti che marciano nelle piazze scandendo slogan e inneggiando a Fidel Castro, Mao Tze Tung, Che Guevara e Ho Chi-Min. Ma proprio nel 1973, proprio nell’anno del golpe di Pinochet in Cile, quando l’anima di tutti i progressisti si tinge di rabbia e di sdegno per i misfatti della reazione a livello planetario, Cassola si permette di parlare della storia d’amore del capitano Varallo- uno che, probabilmente, con gli studenti romani ha avuto a che fare solo per sfarli schedare o arrestare durante i disordini all’Università -, e, come se non bastasse, una storia d’amore che finisce male, e nella quale non entra neppure un soffio del vento della contestazione, neppure un refolo della questione sociale, delle lotte operaie, della brutalità capitalistico-padronale e della "schifosa" borghesia denunciata da "veri" intellettuali, come Pier Paolo Pasolini o Alberto Moravia?
Pasolini: quello sì che era bravo, che aveva capito! Nel suo film «Porcile»(1969), il giovane Julian, rampollo di una dinastia di capitalisti, prima di lascia sodomizzare dai maiali, infine si fa divorare da lessi: geniale parabola sulla lurida borghesia, decadente e lussuriosa, priva di ideali e di dignità, che corre a perdifiato verso l’autodistruzione. E a tutto questo lerciume borghese, ciliegina sulla torta, Pasolini aggiunge la durezza e l’insensibilità dei genitori, e degli adulti in genere, verso i giovani, ai quali — poveretti – non resta che farsi divorare dai suini, per disperazione e per protesta. Basti dire che herr Klotz, il padre di Julian, è un nazista che se la intende con altri pessimi soggetti come lui: gente che, durante la Seconda guerra mondiale, rubava i denti d’oro degli Ebrei uccisi nei campi di sterminio, e che con quel denaro ha fatto carriera! Moravia, poi: ecco un altro che aveva capito tutto, a meraviglia! In capolavori assoluti come «Io e lui» (1971), dialogo fra un uomo e il suo indomabile organo sessuale, e «La vita interiore» (1978: ma apparsa dopo ben sette anni di lavoro!), dialogo di una ragazza con una Voce e con un Intervistatore, il grande scrittore di sinistra affronta la decadenza morale della borghesia, l’insostenibilità dell’etica borghese, la noia, lo schifo e il disprezzo per qualsiasi cosa sia borghese, il tutto fra un atto di sodomia e l’altro, fra una masturbazione e l’altra, fra un sacrilegio e l’altro (nel secondo romanzo, Desideria, la protagonista, orina sul banco della chiesa durante la messa, immerge le dita nella pozza, e con essa si fa il segno della croce, e ciò sotto lo sguardo della sua matrigna, una donna bisessuale, che, guarda caso, è disperatamente innamorata di lei e vorrebbe portarsela a letto). E solo tre anni prima del romanzo di Cassola, nel 1970, il regista Elio Petri aveva girato il memorabile film «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» (interpretato da un bravissimo Gian Maria Volonté), che era un vero e proprio guanto della sfida alla categoria dei poliziotti, dei commissari, dei questurini e di tutti i tutori dell’ordine costituito, presentati come brutali, ottusi, prepotenti, conformisti, servi del potere (democristiano), nonché sessualmente immaturi, repressi, potenzialmente sadici (il commissario del film ammazza la sua amante mentre stanno facendo l’amore, tagliandole la gola, un po’ perché vuol vedere se lo scoprono, e più ancora perché è stufo della sua "insubordinazione" e sospetta che lo tradisca, per giunta con un giovane di sinistra.
Possibile che, in anni così "gloriosi" e così saturi di aspettative rivoluzionarie e di palingenesi universali, sotto l’egida de «Il capitale» di Marx e del «Libretto rosso» di Mao, questo benedetto Cassola non trovasse di meglio da fare che scrivere un romanzo con un capitano dei Carabinieri quale protagonista? Un commissario che ama una ragazza (come se perfino i carabinieri fossero creature umane, capaci di amare, e non soltanto vili manutengoli del Potere) e che soffre per lei? Un commissario che è anche (horribile dictu!) una bava persona, di sentimenti onesti e sinceri, niente affatto cinico e ottuso, anche se non particolarmente intelligente (e che però sa di non esserlo: il che è già una forma d’intelligenza), ma semplicemente molto solo? Ciò doveva apparire quasi una provocazione: e, come se non fosse bastato, qualche anno dopo (nel 1981), Cassola avrebbe replicato la sfida con un altro romanzo, «L’amore tanto per fare», presentando ai lettori, di nuovo, il buon Mario Varallo nelle vesti del protagonista, per giunta promosso da capitano a colonnello. Errare humanum est, perseverare diabolicum!
Fra lo sconcerto, l’insofferenza e la rabbia appena dissimulata dei "compagni", ci fu anche qualcuno, come il critico marxista Giuliano Manacorda, che – bontà sua — si sforzò perfino di capire
Ha scritto Manacorda nella monografia «Invito alla lettura di Cassola» (Milano, Mursia, 1973, 1978, pp. 101-104):
«"Monte Mario", il romanzo uscito nel 1973 presso Rizzoli, segna il passaggio di Cassola alla Casa editrice milanese.
La storia racconta quanto accade nel giro di quattro settimane a Mario Varallo e Elena Raicevic. Già fidanzati e poi lasciatisi per iniziativa di Elena, essi si ritrovano quando Elena decide di abbandonare la casa dove abitava con il padre e la matrigna e di chiedere una breve ospitalità all’ex fidanzato che è capitano dei carabinieri. L’ospitalità si prolunga più del previsto e dà luogo così ad una strana convivenza in cui Mario sente crescere via via l’attrazione fisica per Elena e il desiderio di sposarla, mentre Elena gli impedisce qualunque rapporto che non sia castamente fraterno e respinge ogni possibilità di matrimonio; infine lascia l’appartamento senza preavvisare Mario e quando poco tempo dopo lo incontra casualmente, determina in lui la definitiva convinzione che non la desidera più.
Anche in "Monte Mario", perciò, la trama dei fatti esteriori è ridotta al minimo, pur se la vicenda è nettamente contenuta tra un cominciamento e una fine; ma quasi tutta la storia si svolge all’interno del piccolo appartamento di Mario e ha per esclusivi protagonisti i due giovani. E soprattutto Cassola ha risolta ha risolto il problema narrativo affidandosi totalmente al dialogo; se si tolgono le ultimissime pagine, tutto accade attraverso il continuo e fitto scambio di battute; l’evolversi della situazione (o piuttosto la sua condanna alla staticità), le reazioni psicologiche, i piccoli accadimenti quotidiani son tutti detti da Cassola per l’interposta persona dei due personaggi, che vengono narrandosi mentre si scambiano le parole della loro narrazione. La presenza del dialogo nei romanzi cassoliani era sempre stata abbastanza rilevante, ma aveva costituito un elemento di lontana derivazione naturalistica che svolgeva, particolarmente nei primi e negli ultimi volumi, una funzione abbastanza ridotta ai fini della costruzione dell’opera. Qui, al contrario, assurge a suo elemento strutturale, che risolve non un generico problema narrativo, ma quello specifico dell’ultimo Cassola, che è, come si è visto, di come portare a compimento la demolizione del vecchio "cliché" romanzesco per ricostruire dalle sue ceneri un nuovo modello.
In questo senso, il dialogo il dialogo svolge in "Monte Mario" la funzione che in "Ferrovia locale"era stata svolta dal caleidoscopio delle presenza avvicendantisi senza intrecciarsi e in "Paura e tristezza" dalla meticolosità del referto biografico. Cade perciò, pur nella somiglianza esteriore, l’aspetto naturalistico e al suo posto compare lo strumento nuovo, non mimetico di una realtà da ritrarre, ma costitutivo di questa realtà, lo strumento che contemporaneamente pone e dice l’ovvietà del comportamento umano anche quando la situazione potrebbe sembrare eccezionale o anormale; che si risolve in "chiacchiera" anche quando sembra che stia per affrontare un momento saliente dell’esistenza; che non riesce a creare la vita, la quale ha già in sé, in certe sue misteriose predeterminazioni, il solco scavato che va ineluttabilmente percorso.
Tutto ciò non spersonalizza il dialogo, al contrario. Il dialogo può assumersi l’intera funzione portante del romanzo proprio perché conserva ed esprime le individualità di chi lo pronuncia. Quella superficiale, legalitaria, parafascista del capitano dei carabinieri Mario Varallo, triestino, partecipe nell’adolescenza delle manifestazioni irredentiste, fisicamente ben messo anche se non privo di qualche piccolo complesso e, infine, poco intelligente e cosciente di esserlo, un po’ velleitario, un po’ calcolatore e incapace, in ultima istanza, di portare a termine le decisioni che sembra aver preso; – di fronte a lui l’individualità decisa ma inafferrabile di Elena, intelligente e nevrotica, tentatrice e frigida, apparentemente indifesa e detentrice, invece, del vero carattere forte nella relazione che lei ha voluto, controllato e concluso. Ci troviamo, insomma, di fronte ad un altro personaggio femminile che nei riguardi dell’uomo assume l’autentico ruolo di protagonista relegando il "partner" al rango di figura riflessa.
Ciò che manca invece nel romanzo – e che il titolo lasciava intendere presente – è il paesaggio romano, con l’eventuale funzione psicologica che avrebbe potuto svolgere. Chi, appellandosi a quell’indicazione topografica di Monte Mario, avesse pensato ad un ritorno di Cassola agli scorci della periferia romana dei racconti giovanili (si ricordi quale importanza, nella sua biografia letteraria, ha Ponte Milvio, proprio ai piedi di Monte Mario) resterà totalmente deluso. Quei pochi noni — Monte Mario, Via Flaminia, Due Ponti — non fanno paesaggio, e tanto meno paesaggio romano; la fantasia di Cassola non si è trasferita dalla campagna maremmana all’ambiente della grande città, poiché è andata a collocarsi in due stanzette che non hanno un’ubicazione geografica: sono un punto qualsiasi del mondo dove due creature si dicono i loro sentimenti e ne escono svuotate. L’altro grande cardine del naturalismo — il paesaggio appunto — è pur esso crollato e ne è rimasto appena qualche nome che non ha importanza andare a ricercare sulla carta.
Ciò che invece si è conservata, tenace e irrinunciabile nella scrittura di Cassola, è la lingua, semplice, scarna, disaggettivata, privata anche (siamo fra triestini che abitano a Roma) di quella vernice toscana che era pure una sottolineatura stilistica di un qualche rilievo. Lessico e sintassi di questo dialogo ininterrotto non possono essere, dunque, che il contino punto limite di destrutturazione linguistica che Cassola tocca ogni volta e ogni volta riesce a spostare ancora un poco più in là (o forse un poco più in giù).»
Come si vede, Manacorda si sforza di capire: si sforza, appunto. Ma capisce quel che può e quel che vuole. In Varallo, per esempio, non vede un protagonista, ma un semplice riflesso della vera protagonista: Elena (come vuole la sola dottrina politicamente corretta nei rapporti intersessuali: il femminismo). Per giunta Varallo gli appare "superficiale, legalitario, parafascista": figuriamoci, da giovane ha persino partecipato alle manifestazioni irredentiste (?) della sua Trieste: quando, per intenderci, Tito voleva prendersi la città e Togliatti era pronto, prontissimo a regalargliela. Più fascismo di così…
Venendo sul terreno propriamente letterario, Mancorda rimane deluso perché nel romanzo manca il paesaggio, ossia l’ultimo, esile filo che legava Cassola al naturalismo e dunque, in qualche modo, alla gloriosa tradizione neorealista.
Quanto alle considerazioni sulla "destrutturazione linguistica" del dialogo, in «Monte Mario» come in altri romanzi di Cassola, ci sarebbe molto da dire. Davvero Cassola ha voluto fare questo? Non sarà che Manacorda vuole fare di Cassola, ad ogni costo, un combattente della Grande Guerra Rivoluzionaria contro il capitale, arruolandolo honoris causa fra i "destrutturatori", e sia pure solo al livello della lingua e non (come sarebbe più giusto e doveroso) della società, della politica o dell’economia? È vero, infatti, che la forma dialogica, nella scrittura di Cassola, tende ormai verso il "grado zero": ma lo fa per mostrare l’alienazione e lo svuotamento dei rapporti umani nella società borghese, oppure perché la sua poetica, per ragioni interne assolutamente coerenti, lo spinge verso la semplificazione linguistica, in funzione dell’approfondimento psicologico? Ossia perché, per Cassola, quando la parola dialogata non riesce più a dire, è allora, nel silenzio, che la verità — o la non verità — dei sentimenti, emerge in tutta la sua evidenza, e riesce a dire più e meglio di cento, mille parole?
Siamo sempre lì: se si è neorealisti, si è dalla parte "giusta" della barricata; se non lo si è, ci si trova — per forza di cose: oggettivamente, come si diceva allora nel lessico politicamente corretto, ossia sinistrorso — da quella "sbagliata". Se almeno questi scrittori borghesi e decadenti avessero mostrato un po’ di buona volontà; se almeno non avessero reciso del tutto il cordone ombelicale con il Vento del Nord, con gli ideali di cambiamento della Resistenza, con la classe operaia… Cassola, dopotutto, aveva parlato della Resistenza, e sia pure a modo suo (cioè in modo eretico). Che tristezza, adesso, vederlo finire così…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels