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Se lo Stato è il governo «giusto», chi stabilisce le condizioni della sua giustizia?

Il pensiero filosofico, politico e giuridico di Jean Bodin (1529-1596) è il frutto di una stagione altamente drammatica della storia francese: la seconda metà del XVI secolo, ossia l’età delle guerre di religione, culminate nella strage della notte di San Bartolomeo.

Il problema politico e morale da lui posto, pertanto, nasce da una imperiosa necessità di pace, tolleranza e giustizia sociale: ma appunto per questo egli sentiva con estrema urgenza la carenza di un potere autorevole, energico, capace di imporre ai cittadini il rispetto della legge e di smorzare o prevenire la loro tendenza all’aggressività e alla prevaricazione (che è una tendenza naturale: ma Bodin non insiste troppo su questo punto, credendo, come lo crederanno i giusnaturalisti, che il sistema della natura è conforme a ragione, e che, pertanto, se l’uomo si attiene alla ragione, non può allontanarsi troppo nemmeno dal bene). Pur se meno cupamente pessimista circa la natura umana, anche Bodin, come Hobbes, giudica gli uomini incapaci di governarsi da sé stessi, e, pertanto, ha scarsa o nessuna fiducia nella forma di governo repubblicana, la quale, per sua natura, non riesce a disciplinare e tenere sotto controllo le forze distruttive, sempre pronte ad emergere, là dove vi sia un potere inefficiente, o debole, o incerto.

Per Bodin, senza ombra di dubbio, la miglior forma di governo è la monarchia assoluta: anche in questo il suo pensiero finisce per convergere con quello di Hobbes. C’è bisogno di un potere forte, il potere dello Stato, che è la sovranità: un potere che è conforme a ragione ed anche al volere divino, ma che non deriva da un patto sociale – e qui diverge dal giusnaturalismo -, per cui i cittadini non vi si sottomettono per una libera scelta (nel quale caso manterrebbero pur sempre una specie di sovranità ideale, e la sovranità dello Stato sarebbe reversibile), ma perché così vuole la natura. Lo stato è la forma naturale che assume la vita sociale; e, senza di essa, non vi sarebbe nemmeno la possibilità di una vita realmente umana: per Bodin, stato, sovranità, ordine e giustizia sono praticamente sinonimi. L’ordine sociale garantito e, se necessario, imposto dallo stato, è secondo l’ordine naturale e secondo giustizia.

Lo Stato, dunque, deve disporre di un potere assoluto per imporre pace e giustizia ai cittadini, ma la monarchia assoluta non deve degenerare in tirannide: essa deve perseguire sia il bene dei cittadini, sia il bene dello Stato: perché l’uno non potrebbe stare senza l’altro. Vi è quindi una vaga somiglianza con il pensiero di Niccolò Machiavelli, a cominciare dalla estrema drammaticità delle rispettive situazioni storiche: le invasioni straniere in Italia, le guerre civili in Francia. Tuttavia, nonostante Bodin condivida con il Segretario fiorentino l’idea che lo Stato — incarnato dal Principe o dal Sovrano – è al disopra di tutto, vi è un limite anche a quel che può fare chi detiene il potere, per quanto la situazione possa richiedere estremi rimedi per dei mali estremi e, quindi, una certa durezza e spietatezza, se occorre, affinché la navicella dello Stato non faccia naufragio. Il limite è il bene dello Stato insieme a quello dei cittadini: limite che anche Machiavelli sembra adombrare, ma che non afferma in maniera troppo esplicita, sì da suscitare l’impressione – specie nel suo trattato più famoso — che, in fondo, tutto quel che gl’importa è che il Principato sia saldo e forte e che nessuno osi minare la sua sicurezza o attentare alla sua stabilità. Per Bodin, invece, una monarchia che non persegua il bene comune degenera in tirannide: anche se non arriva al punto di legittimare, in un simile caso, il "diritto alla resistenza", come farà Locke. Queste idee sono espresse nella sua opera più importante, il trattato «Les Six Livres de la République» (1576).

Inoltre, come per Hobbes, anche per Bodin la tolleranza religiosa svolge un ruolo fondamentale nella vita della società e nel suo ordinato e pacifico svolgimento: nel suo «Colloquium heptaplomeres de rerum sublimis arcanis abditis» (scritto nel 1587, ma rimasto inedito e pubblicato solo nel 1858), gli esponenti di sette fedi diverse discutono strenuamente fra loro e riescono a trovare una base comune ed un punto d’intesa nel fatto che il mondo è governato da una legge divina che si esprime in un ordine naturale conforme a ragione. Ottimisticamente, Bodin non dispera che i seguaci delle diverse religioni possano un giorno arrivare, sulla base di tale base comune, a riconoscere la possibilità e, forse, la necessità, di superare le loro contrapposizioni, per costruire una famiglia più vasta.

La religione, per Bodin, è importante, perché rappresenta di per sé un limite e un correttivo al potere dello Stato, che, altrimenti, da assoluto rischierebbe di diventare arbitrario e tirannico: cosa che non potrà accadere, se il sovrano si ricorderà sempre di prendere l’ordine divino quale modello per la sua azione di governo. E sarà proprio questo fatto a rendere il sovrano rispettoso del bene dei cittadini, nonché dei loro diritti, i quali, derivando dalla natura, sono conformi alla legge divina: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla proprietà. Insomma, il potere monarchico tempera da sé le proprie asprezze e i propri eventuali eccessi, uniformandosi alla legge naturale presente ovunque nel mondo: la quale, a sua volta, è il riflesso del volere divino.

Bodin non risponde, in sostanza, alla possibile obiezione che non esistono reali garanzie che la sovranità dello stato sia esercitata in senso "buono": egli auspica che sia così, perché, nel suo ottimismo razionalista e naturalista, s’immagina che nulla potrebbe funzionare, tanto meno lo Stato, se il sovrano si abbandonasse all’ubriacatura del potere. In questo, egli è ancora un figlio del Rinascimento: dà quasi per scontato che l’uomo sia una creatura ragionevole, e che — come aveva affermato Socrate — sia sufficiente conoscere il bene per desiderare di farlo. Tuttavia, ahimè, non lo dimostra, non tenta di argomentarlo: lo "pone" (come direbbero gl’idealisti hegeliani), e, avendolo posto, s’immagina anche di averlo dimostrato.

Così riassumono la concezione dello Stato di Jean Bodin gli storici della filosofia Giovanni Reale e Dario Antiseri nella loro «Storia della filosofia», Brescia, La Scuola, 1997, vol. 2, p. 99):

«Lontano dagli eccessi del realismo di Machiavelli, così come dall’utopismo di More è Jean Bodin (1529/30-1596) nei suoi "Sei libri sulla Repubblica".

Occorre, perché ci sia lo Stato, una forte sovranità che tenga unite le varie membra sociali, collegandole come in un solo corpo. Ma questa forte sovranità non si ottiene con i metodi raccomandati da Machiavelli, che peccano di immoralismo e di ateismo, ma instaurando la giustizia e facendo appello alla ragione.

Ecco la celebre definizione di Stato data da Bodin: "Per Stato s’intende il governo GIUSTO, che si esercita con POTERE SOVRANO su diverse famiglie e in tutto ciò che queste hanno in comune fra loro"; "[…] lo Stato non è più tale senza quel POTERE SOVRANO che tiene unite tutte le membra e le parti di esso, che fa di tutte le famiglie e di tutti i collegi un sol corpo. […] Insomma, È LA SOVRANITÀ IL VERO FONDAMENTO, IL CARDINE SU CUI POGGIA TUTTA LA STRUTTURA DELLO STATO e da cui dipendono tutte le magistrature, le leggi e le ordinanze; essa è il solo legame e il solo vincolo che fa di famiglie, corpi, collegi, privati, un unico corpo perfetto, ch’è appunto lo Stato".

Per "sovranità" Bodin intende potere assoluto e perpetuo che è proprio di ogni tipo di Stato. Tale sovranità si esplica soprattutto nel dar leggi ai sudditi, senza loro consenso.

Come abbiamo già detto, l’assolutismo di Bodin ha precisi limiti oggettivi nelle norme etiche (la giustizia), nelle leggi di natura e nelle leggi divine; e questi limiti sono anche la sua forza. La sovranità che non rispettasse queste leggi, sarebbe non sovranità, ma tirannide.

Di un certo rilievo è anche lo scritto di Bodin dal titolo "Colloqium heptaplomeres" ("colloquio tra sette persone"), che ha come tema la tolleranza religiosa ed è immaginato svolgersi in Venezia tra sette seguaci di religioni differenti: 1) un cattolico, 2) un seguace di Lutero, 3) un seguace di Calvino, 4) un ebreo, 5) un maomettano, 6) un pagano, 7) un sostenitore della religione naturale.

La tesi dell’opera è che (come l’Umanesimo fiorentino aveva sostenuto) esiste un fondamento naturale che è comune a tutte le religioni. Su questa base comune sarebbe possibile un generale accordo religioso, pur senza sacrificare le differenze (ossia quel "plus") proprio delle religioni positive.

Stando, dunque, al fondamento naturale implicito nelle differenti religioni, ciò che unisce risulta più forte di ciò che divide.»

Gira e rigira, si torna sempre al punto di partenza: chi stabilisce le condizioni della giustizia che lo Stato dovrebbe rappresentare, esso che non si lascia giudicare da alcuno e che non riconosce nulla e nessuno al di fuori di sé e al di sopra di sé? Non sarà questo, forse, uno Stato totalitario ante litteram, che preannuncia da lontano gli Stati totalitari del XX secolo? Che cosa possiamo aspettarci da uno Stato siffatto, che abbia a sua diposizione un potere così grande? E che su quel potere né noi, né alcun altro cittadino abbiamo la facoltà di esercitare alcuna critica, di sollevare la minima obiezione, perché, se così facessimo, indeboliremmo e renderemmo meno autorevole quello stesso Stato, che ha la funzione di proteggerci?

Eppure, qui ci troviamo chiaramente in presenza di una debolezza del pensiero di Bodin, di una sua contraddizione e di un vizio nel suo ragionamento. La sovranità dello Stato è un fatto naturale e ragionevole, che nasce spontaneamente, non però sotto la forma del patto o contratto sociale, ma in forma assolutamente spontanea e irriflessa: non deriva da una cessione di diritti e di sovranità da parte dei cittadini, perché nessun singolo cittadino potrebbe parlare di diritti o di sovranità per sé solo. A tutelare i suoi diritti, la sua vita e i suoi beni, pensa lo Stato: ad esso compete una simile funzione, e a nessun altro: la sovranità non può essere divisa, né frammentata. Ecco perché la repubblica non solamente è debole (in quanto la sovranità vi si disperde per mille rivoli), ma anche pericolosa per i cittadini: infatti, in regime di uguaglianza si scatenano lotte tremende provocate dalla gelosia, dall’invidia, dalla superbia. Non vi sono rivalità più micidiali, dice Bodin, di quelle che insorgono fra uguali.

Ma se il singolo cittadino non ha ceduto alcuna sovranità, come accade che lo Stato si trova a detenere una sovranità assoluta? Che gliel’ha data, o chi gli ha permesso di prenderla? Per Bodin, lo Stato sorge in maniera naturale, proprio come la famiglia: la famiglia, infatti, è la società fondamentale, ed è perfettamente naturale; altrettanto naturale è la sovranità dello Stato. Si tratta di una tesi ben difficile da sostenere, tanto più che Bodin aveva sotto gli occhi, per così dire, i modelli sociali "scoperti" dai navigatori europei, specialmente nelle due Americhe: la tribù, il clan, l’orda nomade, la federazione di villaggi e di città. Lo Stato non sorge dal nulla; la sua sovranità non è un fatto naturale, ma politico: da qualche parte essa deve venire, oppure è una convenzione, un potere stabilito artificialmente. Sia come sia: se la sovranità s’identifica con lo Stato assoluto, e questo con la monarchia assoluta, chi potrà trattenerla dalla fatale involuzione verso la tirannide? Certo, Bodin ammette ed esalta la funzione dei corpi intermedi, i parlamenti, le corporazioni, ecc., ma il problema sussiste: tali organi non hanno poteri decisionali, ma soltanto consultivi, oppure di tipo pratico e organizzativo. Il timone dello Stato è posto saldamente nelle mani del sovrano, perché, specialmente su di un mare in tempesta, uno solo deve stare al timone.

Bodin non sembra aver poco riflettuto sulle poleis greche, sulle repubbliche antiche e su quelle moderne, come Venezia (la quale, ai suoi tempi, aveva già alle spalle una storia gloriosa e quasi millenaria) o come la Confederazione svizzera. La sua monarchia assoluta sembra nascere più da un desiderio, da un auspicio, da un atto della volontà, che da un processo naturale e razionale. Perché mai la monarchia dovrebbe corrispondere alla natura e alla ragione? Se la società originaria è la famiglia, c’è un bel salto fra essa e lo Stato monarchico, con la sua struttura complessa e la sua sovranità perpetua e irrevocabile. Lo Stato, soprattutto, pretende per sé il monopolio della giustizia: ma chi lo aiuterà, o lo costringerà, a restare dentro i limiti del giusto? Se lo Stato si fa misura della giustizia e suo solo ministro autorizzato, chi vigilerà affinché si mantenga ad essa fedele? E ancora: se è lo Stato a decidere ciò che è giusto e ingiusto (e non solo ciò che è legittimo o illegittimo), non si avrà la metastasi totalitaria dello Stato etico? Sono domande che attendono ancora delle risposte…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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