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10 Novembre 2015Possiamo considerare come ottimista o come pessimista la visione del mondo e della vita umana che emerge dalle opere di William Shakespeare?
Si tratta di una domanda volutamente provocatoria e quasi assurda: tanto per cominciare, bisognerebbe vedere a "quale" Shakespeare ci si riferisce; perché, evidentemente, l’autore del «Macbeth» e quello del «Sogno di una notte di mezza estate» non portano avanti lo stesso discorso, non muovono da una stessa visione del reale.
Oppure no? A prescindere dalle intricate e irresolubili discussioni a proposito della "vera" paternità delle opere di Shakespeare (argomento al quale anche noi abbiamo dedicato un articolo: «Quel grande punto interrogativo di nome William Shakespeare», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 15/02/2009), resta il fatto che, pur con le debite distinzioni e con le differenti sfaccettature, una certa unità di fondo, nell’immenso corpus delle opere shakespeariane — sonetti, drammi e commedie — indubbiamente esiste, o, comunque, è riconoscibile.
Si dice che Shakespeare è moderno perché avverte dolorosamente il dissidio dell’uomo con se stesso, il divorzio fra l’intelligenza e le passioni, la paralisi o l’accecamento della volontà; perché rappresenta l’uomo come bloccato da un eccesso d’introspezione, da uno scrupolo di verità e di giustizia che eccede le sue risorse concrete, attanagliato da fantasmi di potere, gloria e successo che gli offuscano la vista e gli nascondono il significato recondito delle cose e il mistero del suo stesso vivere: e tutto è certamente vero.
Resta da dire che la malinconia di Shakespeare, la nevrosi da cui sono afflitti i suoi personaggi, il senso improvviso e struggente di abbandono, di straniamento, quasi d’irrealtà che irrompe da profondità misteriose e gela l’anima con un soffio di morte, talvolta proprio nei momenti più lieti, sono di natura siffatta, che li si coglie meglio, in un certo senso, proprio là dove essi sono meno evidenti, vale a dire nelle commedie piuttosto che nelle tragedie; e, fra le commedie, in quelle eufuistiche («La bisbetica domata»; «I due gentiluomini di Verona»; «Pene d’amor perdute»; «Sogno di una notte di mezza estate»; «La commedia degli equivoci») piuttosto che nelle classiche commedie romantiche («Il mercante di Venezia»; «Tanto rumore per nulla»; «Come vi piace»; «La dodicesima notte»; «Le allegre comari di Windsor») o nei drammi romanzeschi («Il racconto d’inverno»; «La tempesta», eccetera).
Infatti è proprio nelle commedie più aeree e leggere, dove massimo sembrerebbe il "disimpegno" dell’Autore rispetto ai grandi temi dell’esistenza e soprattutto davanti alla serietà della vita, al senso drammatico del tempo che scorre, al dovere che incalza e si scontra con la ricerca del piacere, al contrasto selvaggio tra le forze del bene e quelle del male: è proprio lì che emerge e si insinua, sottile, impalpabile, eppure fortissimo, ineludibile, quel senso di struggimento e di pena, d’illusorietà e di tristezza, che contamina anche le gioie più pure e getta un’ombra pensosa, indecifrabile, sul sereno orizzonte dell’esistenza umana; è lì che si tocca con mano e si percepisce palpabilmente quella sorta di sorda disperazione che afferra alla gola i personaggi shakespeariani, li getta nel disorientamento, li porta a rinchiudersi in un raccoglimento preoccupato, meditabondo, a volte quasi allucinato, nel quale cercano — si direbbe – di udire l’inudibile, di vedere l’invisibile, di toccare l’impalpabile, come se fossero giunti improvvisamente sulla soglia di un tempio misterioso, nel quale sospettano trovarsi il segreto ultimo della vita, ma che non osano oltrepassare, turbati e quasi paralizzati da un arcano timore, da una sorta di ancestrale fatalismo.
Sono dunque dei rassegnati, dei vinti, degli sconfitti, i personaggi di Shakespeare; dei disincantati, che non nutrono più alcuna illusione; o, addirittura, dei cinici, che hanno scoperto il grande gioco dell’esistenza, e continuano a viverla fingendo indifferenza, o persino entusiasmo, ma, in realtà, senza più credere in niente e in nessuno, come dei disperati, perché tanto la vita è solamente sogno, ed è fatta della stessa sostanza dei sogni?
Nella «Bisbetica domata» vi è un episodio collaterale, che ricorda la trama de «La vida es sueño» di Pedro Calderon de la Barca — un tema molto diffuso nel teatro europeo fra XVI e XVII secolo -, qui con la nota, particolarmente amara, di un finale mancante, di un punto interrogativo non risolto, come se non avesse alcuna importanza sapere quale destino finale attende il personaggio di Christopher Sly, un poveraccio che, per un breve attimo, travolto dai fumi dell’alcool e caduto in potere di un demiurgo in cerca di divertimento, s’illude di essere un gran signore e di avere a disposizione potere e ricchezze, nonché una bella moglie che è, in realtà — burla feroce del nobile che ha deciso di trastullarsi con lui, come farebbe un burattinaio con le sue marionette — un giovane paggio travestito, per cui si aggiunge anche l’ironia di un vagheggiamento sessuale basato su di un crudele inganno dei sensi, che, se venisse apertamente dissipato, provocherebbe vergogna e umiliazione nel povero illuso.
Ma anche quest’ultimo particolare — ambiguità sessuale di Shakespeare a parte: evidente, del resto, fin dai sonetti — rientra perfettamente nello schema "filosofico" entro il quale si muove la riflessione shakespeariana sul destino dell’essere umano: tutto è diverso da come sembra, tutto è illusorio, tutto è ingannevole; non esistono certezze, e, se potessimo vedere — per pura ipotesi — come stanno realmente le cose, se potessimo misurare, con un solo colpo d’occhio, l’abisso dei nostri inganni e, soprattutto, dei nostri auto-inganni, forse il cuore non ci reggerebbe e la nostra stessa mente comincerebbe a vacillare, così come vacilla irreparabilmente la mente della povera Ofelia nell’«Amleto», sospingendola verso il suo amaro destino di morte.
Vi è, dunque, qualcosa di pirandelliano nel mondo di Shakespeare, nel suo pessimismo antropologico e sociale: se ogni cosa è ingannevole, beffarda, ironica, e la vita altro non è che un gioco delle parti e una commedia degli inganni e degli equivoci, allora altro non resta che abbandonarsi a tale beffa, a tale ironia, vivendole sino in fondo; che portare il paradosso alle estreme conseguenze, non tanto per demistificarlo — quanti veli si nascondo sotto il primo? due, tre, quattro? oppure infiniti? -, bensì per cercar di beffare la vita al tavolo della sua stessa beffa, e, nello medesimo tempo, per alleggerire la pesantezza della "verità" con le risorse insperate che ci vengono offerte da quegli stessi inganni, i quali — viceversa – se presi sul serio, potrebbero portarci alla follia, all’autodistruzione, al desiderio di non vivere più.
Ha scritto la sociologa e psicologa Serena Foglia, recentemente scomparsa — era nata a Trieste nel 1925 ed è morta a Milano nel 2010 – nella sua interessante monografia «Il sogno e le sue voci» (Milano, Rizzoli, 1986, pp. 102-104):
«Nel preludio alla "Bisbetica domata" anche Shakespeare riprende la favola del "Dormente", trasformandola in farsa. Christopher Sly, un povero stagnaro, dopo una solenne bevuta viene raccolto in preda ai fumi dell’alcol da un Lord, in vena di trastulli, e trasportato a palazzo. Qui viene vestito da gentiluomo, e il Lord raccomanda ai servi di trattarlo in modo che al risveglio egli non dubiti dell’inganno. Gli si racconta infatti che è un gran signore appena guarito da un’annosa follia che l’aveva reso smemorato. Sly stenta a credere alla messinscena, chiede della birra, dice e ripete d’esser un aggiusta caldaie. Gli si dà allora a intendere che un paggio, travestito da dama, sia la sua bella sposa. A questo punto il poveretto viene colto dal dubbio:
"Dunque un signore sono, io? E una donna così ho? / O sogno? O ho sognato fino a questo momento?" (Prol., 2; tr. Cesare Vico Lodovici, Einaudi, 1964).
Il desiderio di possedere colei che gli indicano come "Madame Wife" prevale: egli è davvero un Lord, se ha dormito per quindici e più anni ora non dormirà più. Dorma il mondo — "Let the world sleep" -, lui potrà nel mentre soddisfare l’uzzolo dei sensi che sente salire prepotente. La beffa non è finita: lo si convince che per non ricadere nel fatale letargo meglio rimandare voluttà e piaceri e assistere alla commedia che verrà rappresentata proprio per lui da una compagnia di guitti.
Alla fine della "Bisbetica" Shakespeare non riprende la farsa iniziale, né ci dice che fine ha fatto il povero Sly. Poco importa se verrà restituito, secondo il modello classico, alla sua miseria, alle risse della taverna, alla vita abituale.
Quel che conta è che lo scherzo sia servito a scacciare la melanconia: "Melancoly is the nurse of frenzy" (Dalla tristezza nasce la follia) – e per evitare così grave danno è opportuno concedersi qualche svago, sorridere all’esistenza, spesso più comica di quanto si creda.
Questo scettico monito ha però alle spalle un’amara filosofia: gli atti umani, virtù e peccato, eroismi e delitti, violenza e sacrificio dipendono tutti dal cieco caso che determina il destino. Uguale morte attende il buono come il malvagio. Eppure si deve amare, per decreto di Dio, quest’incresciosa e incerta vita. E per amarla bisogna dar spazio al sogno, all’immaginazione, ai chimerici trastulli, e sollevarsi da una realtà che è maligna e oscura solo se la vediamo tale.
Così, nella "Tempesta", Prospero usa la magia per mutare il mondo, riplasma gli uomini, intreccia i destini, pone il fantastico entro il reale, la realtà nella fantasia. Ma basta un gesto perché quell’universo fittizio, oscillante tra il sogno e il mistero, si sfasci e scompaia. La commedia è finita, gli attori se ne vanno. Simile all’aereo edificio appena distrutto cadranno palazzi e templi, cadrà il mondo intero. Tutto diventa simbolo della fragilità della vita. Tutto è sogno, e anche noi "siamo della stoffa di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno" (IV, 2).»
Sì: vi è qualcosa di forzato, di artificiale, di nevrotico, nell’allegria delle commedie shakespeariane, nello sforzo — ché palesemente esso è tale — dei personaggi per atteggiare il volto al sorriso, davanti alle imprevedibili trovate e alle ironiche giravolte di quella immensa commedia che è la vita stessa. Si veda, a questo proposito, il girovagare nel bosco notturno delle due coppie di innamorati del «Misdummer night’s dream» (e si ricordi che la notte di mezza estate, cioè del solstizio, era, tradizionalmente, la notte delle streghe e delle magie, non solo in Inghilterra, ma in tutta Europa), con il gioco incessante, pirotecnico, degli scambi di ruolo nelle loro reciproche dinamiche; o, meglio ancora, la farsa involontaria dei commedianti ateniesi che provano, al lume della luna, la tragedia di Piramo e Tisbe, che dovrà allietare le nozze di Teseo ed Ippolita; e, ancora, lo scherzo crudele che Oberon tende a Titania per mezzo di Puck, facendola innamorare di un uomo dalla testa asinina: tutti costoro, ciascuno a suo modo, sono degli illusi, i quali appaiono tanto più commoventi, quanto più (o quanto meno?) si avvedono della loro condizione intrinsecamente contraddittoria, autoironica, imprevedibile; quanto più (o quanto meno?) intuiscono che la vita sfugge continuamente di mano a coloro che tentano di stringerla, proprio come fa la sabbia sulla spiaggia marina, quando la si stringe nel pugno, ed essa scivola fuori tra le dita.
Forse, dopo tutto, la cosa migliore è fare finta di nulla; fingere di non aver compreso, di non aver visto; battere in breccia l’assurdità della vita, lasciandosi trasportare dal suo ritmo capriccioso e imprevedibile; non chiederle più di quel che essa può dare, non metterla alla prova, non pretendere delle risposte chiare ed univoche, nette e definitive: ma accontentarsi, al contrario, di scivolare con passo leggero sulle sue ombre e sulle sue zone indecifrabili, nei suoi angoli morti, nei suoi coni di oscurità, come se fossimo animali notturni, come pipistrelli silenziosi, sgusciando agilmente oltre i suoi trabocchetti, che sono tali solo per coloro, forse, i quali non accettano il fatto che essa sia come effettivamente è, la vorrebbero diversa, pretenderebbero d’imporle ordine e misura.
Il mondo di Shakespeare è il mondo anticlassico del Barocco: stralunato e perplesso, ma anche proteso, coraggiosamente, a osare quel che mai era stato osato: a gettare uno sguardo totalmente umano, totalmente integro, totalmente non giudicante, sul mistero insondabile del reale, chiamandolo con il suo nome, riconoscendolo, rifiutandosi di ammantarlo con vani espedienti, di edulcorarne la drammatica incertezza. L’uomo deve imparare a convivere con l’assenza di risposte, o, quanto meno, con l’estrema difficoltà a trovarle. Per cui il dubbio radicale incombe fino all’ultimo, fino al suo testamento spirituale. Prospero, ne «La tempesta», perdona i suoi nemici per magnanimità o per stanchezza? Forse non lo sapremo mai. Forse non lo sa nemmeno Shakespeare…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels