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Per “filosofi” come Paul-Louis Couchoud, Gesù Cristo non è altro che un mito

La figura di Paul-Louis Couchoud (nato a Vienne nel 1879 ed ivi morto nel 1959, grande amico di Anatole France), illustra molto bene la rozza superficialità, la iattanza, lo spocchioso senso di superiorità di una cultura positivista rocciosa, intollerante, mai neppure sfiorata dalla più piccola ombra di dubbio sul fatto che la scienza, e solo la scienza, sia la "clavis universalis" atta a risolvere i massimi problemi del mondo e della vita; una cultura tutta impegnata nella sua speciale "battaglia per la civiltà" contro l’oscurantismo religioso e contro ogni credenza di ordine soprannaturale, prima fra tutte quella cristiana. Per codesto sedicente filosofo, la cui attitudine mentale era tutto, fuorché di tipo filosofico, Gesù Cristo non è nemmeno un personaggio storico, ma una creazione leggendaria, o, al massimo, una scialba figura di predicatore millenarista, uno dei tanti sorti in quel tempo dal popolo d’Israele e messi a morte dai dominatori romani: una figura della quale si sono avidamente impossessati i suoi seguaci per fondare un nuovo culto religioso ed escatologico e per avvalorare le loro strane teorie sulla natura del rapporto esistente fra Dio e l’uomo, sul peccato e sulla redenzione. Anzi, per essere più precisi, l’esistenza storica di Gesù – che, seppure possibile, resta a noi velata da una distanza misteriosa e impenetrabile, dal momento che i Vangeli non possono essere presi sul serio come documenti storici e altre fonti, più imparziali, non ve ne sono – è ammessa dal Nostro non tanto in base ad un ragionamento storico vero e proprio, ma piuttosto viene postulata per induzione, essendo necessario ammettere, sia pure a malincuore, che un fatto originario deve esservi stato, per dare origine, attraverso il mito della morte e risurrezione del profeta, alla religione cristiana. Dovette esservi un fiammifero, come egli dice parafrasando Nietzsche, che fece scoppiare l’incendio.

Vale la pena, per farsi un’idea della inconsistenza e della mediocre qualità del suo modo di procedere, riportare una paginetta di questo autore, oggi pressoché dimenticato, ma, che fu, ai suoi tempi, un saggista non privo d’importanza nell’imprimere un deciso orientamento materialista e antireligioso alla cultura francese ed europea dei primi decenni del Novecento (da: P. L. Couchoud, "Il mistero di Gesù" (Milano, Fratelli Bocca Editori, 1945, pp. 64-5):

«Questo Gesù [vale a dire, quello delineato da Loisy] ha su quello di Renan il grande vantaggio di non essere un personaggio arbitrario, una figura di Ary Scheffer, collocato fuori dello spazio e del tempo. Egli è un vero ebreo della sua epoca. È strettamente verosimile. Entra in una serie sufficientemente nota di rivoltosi disgraziati. La sua avventura modesta e senza rilievo illumina, accanto ad altre più impressionanti, le origini della grande insurrezione. Appartiene ad una serie di giudei ingenui e chimerici. Aggiunge un nome al largo martirologio della sua nazione.

Se si va al fondo delle cose, si vede ch’egli è semplicemente verosimile. È molto. Se Gesù è esistito, ecco in qual modo egli può essere concepito storicamente. Ma non è tutto? Su che cosa riposa in fin dei conti la sua esistenza reale?

Non si può dire che riposi sui testi. I testi evangelici non si presentano come documenti di storia. Se si presentassero come tali, non potrebbero essere accolti. Gesù disegnato sulla falsariga di Theudas e dell’Egiziano, non esce da questi direttamente. È piuttosto imposto loro. Avendo questo modello nello spirito, si vaglia qua e là e si valorizza qualche frammento che, senza ciò, sarebbe considerato della stessa natura dei frammenti vicini e soggetto alla medesima interpretazione.

In ultima analisi, Gesù storico è tratto da un’induzione. Lo si distingue male, o piuttosto non lo si distingue affatto, nella caligine dubbiosa in cui è perduto. Egli si trova nel limite della visibilità, o, per meglio dire, al di là. Ma lo si suppone, lo si indovina al fondo del crepuscolo. Lo si decreta d’autorità, lo si suppone come indispensabile, perché occorre che un primo impulso sia stato dato al movimento cristiano.

Poco importa ch’egli sia fuori dalla vista. Egli non poté fare che poca impressione. Nietzsche disse di lui: "Un fondatore di religione può essere insignificante. Un fiammifero, nulla di più!" Loisy riprende per suo conto la parola e dice parlando degli esecrabili "mitologi": "Abbiamo di meglio da fare che confutarli. Se essi diventassero troppo insistenti, chiederemo loro semplicemente: Dov’è il fiammifero?".»

Questo modo di ragionare è veramente straordinario. Couchoud ammette che il fiammifero dovette esistere, perché comunque l’incendio è scoppiato, e qualcosa dovette provocarlo; ma poi ribalta l’onere della prova, e domanda aggressivo a coloro i quali volessero saperne di più: "Dov’è il fiammifero?", come se dimostrarne la reale esistenza toccasse non allo storico, ma a coloro i quali mostrano di voler approfondire la cosa.

Ci sembra un modo di procedere che ha qualcosa di ricattatorio, quasi di mafioso. «Attenti – dice Couchoud a quanti credono all’esistenza di Cristo – che noi ve l’abbiamo concessa solo per spirito conciliativo e per una certa necessità logica; però, se incominciate a diventare seccanti, se non vi basta che vi abbiamo concesso il dito, e volete prendervi la mano con tutto il braccio, allora siamo pronti a farvi il viso feroce, a rinfacciarvi la mancanza di prove degne di questo nome, a rimettere in discussione ogni cosa; anche a negare tutto, se ci costringerete. Pertanto vi conviene essere ragionevoli: accontentatevi di quel che poco che vi abbiamo concesso e non domandate null’altro, Chi era realmente Gesù, che cosa ha veramente detto e fatto, questo non avete il diritto di domandarlo: vi basti sapere che era un poveraccio, un ingenuo e un sognatore, come tanti altri; e che è finito male, come tanti altri falsi profeti: uno più, uno meno, che differenza volete che faccia? Certo, questo ha provocato un bel po’ di movimento: non già in vita, dal momento che è passato praticamente inosservato; però dopo la morte, sì. I suoi discepoli, i suoi seguaci, hanno fatto un baccano d’inferno: ci hanno rintronato gli orecchi; e, francamente, ne abbiamo ormai abbastanza; che ci lascino in pace, una buona volta.

Non vi basta sapere che Gesù è stato uno fra mille, un tipo insignificante, sparito nel nulla in quel gran calderone ribollente che era la Palestina romana nei primi decenni del I secolo? Se fosse stato un personaggio notevole, il mondo se ne sarebbe accorto e gli storici "veri" avrebbero parlato di lui. I suoi seguaci non sono degni di fede, i loro testi non hanno valore storico; se fossero giudicati degni di recare la loro testimonianza, allora bisognerebbe rifiutare ad essi una tale credibilità». E qui il buon Couchoud si tradisce, per così dire: tale è la sua iattanza, che lo porta a scoprire le carte, senza neanche avvedersene. Afferma: «I testi evangelici non si presentano come documenti di storia. Se si presentassero come tali, non potrebbero essere accolti»: ma perché? Perché non dovrebbero essere accolti, se si presentassero come documenti storici? Perché la cosa dà fastidio ai Couchoud? La loro faziosità ideologica è tale, da non accorgersi nemmeno che i testi evangelici si presentano come documenti di storia, eccome. Gli evangelisti non pensano certo di essere dei creatori di favole: dicono quello che hanno visto e udito, testimoniano le cose cui hanno assistito. Si espongono, perché sanno che chi c’era non può negare la verità di quei fatti, anche se dovesse allontanarsi dalla loro maniera d’interpretarli. E questa è la prova logica che i Vangeli e le epistole cattoliche furono scritti a breve distanza di tempo dai fatti: solo pochi, pochissimi decenni. Chi era stato presente, era ancora in vita e poteva ricordare benissimo. Anzi, è ben difficile che avesse mai potuto dimenticare. Perché Gesù non era stato poi così insignificante, se la sua vita e il suo insegnamento avevano potuto dare origine ad un incendio così gigantesco. «Se si va al fondo delle cose, si vede ch’egli è semplicemente verosimile», dice Couchoud; ma una verosimiglianza non è un fatto, è qualcosa di meno, mentre un fiammifero è un fatto certo e solido, specialmente se da esso scaturisce un incendio di quelle proporzioni.

Eppure, un "filosofo" come Couchoud ha fatto scuola: i suoi discepoli e imitatori sono addirittura legione. Non c’è quasi giornalista o saggista d’acque basse che non si sia voluto cimentare nella grande impresa: sminuire l’insignificante predicatore di Galilea, ridimensionare il "mito" di Gesù Cristo, sussurrare minacciosi che, se i suoi ammiratori non se ne stanno buoni, loro sono pronti a ritirargli quel parziale riconoscimento che hanno concesso, di malavoglia, alla realtà della sua esistenza storica. Insomma, sono sempre in tempo a ritirargli il passaporto e ad espellerlo dai libri di storia: ne hanno il potere, basta solo che vengano provocati oltre un certo limite. Quanti credono all’esistenza storica di Gesù, devono sempre ricordarsi di essere solo dei tollerati, degli inquilini provvisori, e in fondo abusivi, nel grande edificio del sapere moderno. Non hanno pagato il biglietto d’ingresso: sono entrati di straforo, per semplice forza d’inerzia, grazie al peso di un’antica tradizione. Ma che stiano attenti a non tirare troppo la corda, perché la pazienza degli storici seri, ossia di formazione positivista, ha pure un limite.

È molto triste pensare che, per decenni, anzi, per un paio di secoli, dalla metà del Settecento a quella del Novecento, simili "pensatori" e simili intellettuali abbiano avuto pressoché il monopolio nella riflessione sulla figura storica di Gesù Cristo, almeno nell’ambito della cultura laica. I pesantissimi pregiudizi di matrice illuminista, dai quali muovevano e che li condizionavano costantemente, non permettevano loro di ragionare diversamente, di porsi in un’altra maniera rispetto all’oggetto della loro riflessione. Sarebbe stato preferibile che Gesù non fosse mai esistito, perché la sua esistenza poneva tropi interrogativi ai quali non avevano voglia di rispondere, nella loro pigrizia e superbia intellettuale. Credevano di sapere già tutto: che cosa è possibile e che cosa no, sia da un punto di vista scientifico (miracoli, risurrezione), sia da un punto di vista storico (testimonianze, attendibilità). Ma, dal momento ch’egli aveva avuto il cattivo gusto di essere esistito, per lo meno che non desse troppo fastidio; cioè, che quanti erano disposti a prenderlo sul serio non esagerassero con le pretese. Gesù, in fondo, era stato un abusivo; e aveva avuto pure il torto di appiccare un incendio che, dopo duemila anni, non dava ancora segni di volersi spegnere. La cosa era spiacevole; bisognava evitare che divenisse un ingombro, una pietra d’inciampo sulla marcia trionfale della Ragione e del Progresso.

A dire la verità, non è che le cose siano migliorate molto, negli ultimissimi tempi. Di intellettuali razionalisti, positivisti e progressisti come Couchoud, ce ne sono a bizzeffe: sempre tutti rigorosamente volterriani, spregiudicati e liberi da pregiudizi (s’intende, a modo loro), ma in fondo così piccini, così modesti, così prudenti nella loro spregiudicatezza. Negatori timidi, scettici con il salvacondotto in tasca (non si sa mai), demolitori fino a un certo punto. Non si chiedono perché la grande storia non si sia accorta di Gesù, quand’era vivo o poco dopo la sua morte; dicono che Gesù è verosimile, ma non del tutto certo. E, se anche è certo, dev’essere stato ben diverso da come lo descrivono i Vangeli; deve aver detto e fatto altre cose, ben differenti. Non è possibile lasciare ai preti l’ultima parola; bisogna che la cultura laicista se lo riprenda, che riesca ad arruolarlo fra i suoi, e sia pure al prezzo di qualche vistosa forzatura.

Così, ognuno si fa il Gesù che preferisce, secondo il proprio talento. Chi ne fa un rivoluzionario, uno zelota; chi un esoterista e un occultista; chi un umanista integrale ante litteram. Ce n’è per ogni gusto, per ogni possibile palato. Qualche volta si torna alla negazione pura e semplice: nonostante tutto. Oppure, facendo perno sui Vangeli apocrifi, si insiste a rifilare al pubblico un "Gesù segreto", merce rara e preziosa, fuori dai supermercati dove si smercia un banalissimo Gesù alla portata di tutti. Rudolf Augstein, liberale, fondatore del settimanale «Der Spiegel», nel 1972 scrive un libro, «Gesù, figlio dell’uomo», che tende a smitizzare tutto, a demolire tutto, non lasciando in piedi quasi più nulla. Lo storico delle religioni Ambrogio Donini, parlamentare comunista ed ex allievo di Ernesto Buonaiuti, riduce il cristianesimo a un mito e liquida il "caso" Gesù come una specie di bolla di sapone. L’antropologa femminista Ida Magli fa di Gesù un rivoluzionario, politico e non solo (ancora!), un femminista e un liberatore in materia sessuale. Marcello Craveri, antropologo marxista, fa di Gesù un profeta ebreo che non si è mai sognato di proclamarsi Figlio di Dio. Come direbbe il buon Pascoli de «La quercia caduta»: ognuno loda, ognuno taglia. E intanto, rimane sempre la scomoda domanda , posta da Gesù stesso (Matteo, 16, 15): «E voi, chi dite che io sia?»

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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