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Pascoli poeta cristiano?

È cristiana, l’anima di Giovanni Pascoli? Non l’anima dell’uomo, naturalmente — la cosa non ci riguarda -, ma del poeta, dell’autore di opere superbe e profondamente innovative, cariche di una dolente e pensosa umanità e di una struggente malinconia, come «Myricae» (1891), «Poemetti» (1897), «Canti di Castelvecchio» (1903)? Possiamo considerare Pascoli, un po’ come il suo amato maestro Virgilio, un poeta "naturaliter christianus", pur non essendolo stato in maniera esplicita e consapevole?

Prima di rispondere a questa domanda, o tentare di rispondervi, dobbiamo ben considerare che cosa si intenda per "anima cristiana". Ci sembra che essa non sia, né possa limitarsi ad essere, un accostamento, più o meno occasionale, più o meno informe, di temi e suggestioni misticheggianti e carezzevoli, di buonismo indiscriminato, di pacifismo inerme, di rinunciatarismo e fatalismo imbelle, di ascetismo generico o, peggio, di vittimismo camuffato da rassegnazione, meno ancora di sentimentalismo a buon mercato.

Nossignori: l’anima cristiana, o che sente in profondità la suggestione della visione cristiana della vita, si raccoglie, per così dire, intorno a un nucleo di "verità" e di certezze che la sostenfgono nelle lotte della vita stessa (perché la vita, per il cristiano, è lotta: inevitabilmente e ineludibilmente), che si possono riassumere nella viva coscienza del Bene e del Male, agenti in una irriducibile opposizione reciproca (con buona pace di tutti gli spiritualismi orientaleggianti e di matrice New Age, i quali sfumano le differenze e arrivano all’unità indifferenziata dei due poli etici); nel trascendimento del male attraverso l’accettazione della sofferenza, vista come occasione di redenzione e non come inutile trastullo del caso, come ironia o come beffa del destino; nell’anelito a una dimensione di esistenza più piena e luminosa, di cui la vita terrena è solo la preparazione fuggevole, che va rispettata e apprezzata in se stesa, ma giammai assolutizzata, né staccata dal suo significato di prova, cammino, pellegrinaggio; nell’accettazione serena della morte quale momento necessario di passaggio alla vita ulteriore; nel sentimento di un Dio presente, amorevole, sollecito, personale, che cerca l’uomo e dal quale è cercato, e che, solo, garantisce il senso ultimo della vita e della morte, nonché il supremo criterio di giustizia nelle relazioni umane; e che la dimensione personale dell’esistenza è il criterio-guida per una vita buona, in quanto il bene si realizza sempre nell’incontro benevolo positivo dell’io con il tu, un tu che è volto, figura, corpo e anima di un altro essere, fratello nel dolore, compagno di strada nel pellegrinaggio e mai nemico in se stesso, per quanto le sue idee o i suoi atti possano creare una barriera di fatto insuperabile.

Ebbene: nessuno di questi atteggiamenti, di queste disposizioni, di queste certezze, o almeno di queste aspirazioni, si trova nel mondo poetico di Pascoli: assolutamente niente; però, in compenso, vi si trovano frequentissimi atteggiamenti, pensieri e inclinazioni i quali, superficialmente, dall’esterno, ad uno sguardo non troppo attento, possono assomigliare all’anima cristiana e alla visione cristiana della vita. La pietà per gli infelici; la commiserazione per i sofferenti; il senso incombente del male; il bisogno di trovare ad esso una risposta (ma senza riuscirvi affatto!); un certo stringersi gli uni agli altri, una certa tendenza declamatoria al bene e al perdono, un certo senso di compassione e una ricerca di consolazione, che però ricade sempre su se stessa; una generica fratellanza umana, un generico invito alla bontà, che scivola, nelle poesie meno felici, in un lezioso pargoleggiare: tutto questo c’è nella poesia di Pascoli, e, a chi non vada un poco al fondo delle cose, ma sia portato a guardare in maniera frettolosa e con scarso discrimine, può anche passare per "cristiano", nel senso più vago e tenue del termine. Manca, però, l’essenziale: la coscienza del Bene e del Male, il valore salvifico della sofferenza, la fede — o almeno la ricerca della fede — in un Dio personale, che sa e può e vuole venire incontro all’uomo. Mentre il Dio di Pascoli — se pure esiste — non sa fare altro che unire le sue lacrime alle lacrime dell’uomo (si pensi alla chiusa della poesia «X agosto»): un Dio imbelle e impotente, che piange ma non può soccorrere alcuno; o che, forse, è troppo lontano per intervenire, per spandere la Sua Grazia fra le creature che lo cercano e lo invocano.

Ha scritto il critico letterario Mario Puppo — genovese, classe 1913, morto a Trento nel 1989, autore di importanti studi e ricerche, specialmente sul Romanticismo e sulla letteratura italiana del XIX secolo (in: F. Montanari — M. Puppo, «Storia della letteratura italiana», Torino, Società Editrice Internazionale, 1983, vol. 3, pp. 202-04):

«Si è parlato di cristianesimo a proposito dell’atteggiamento pascoliano, ma si tratta di un equivoco. Il poeta che scrisse i "Poemetti cristiani", che tanto sentì il fascino dell’appello all’amore universale, non conobbe del cristianesimo alcuni elementi fondamentali. Sul piano morale, l’interpretazione del significato del dolore e del male, con i connessi sentimenti della giustizia e della responsabilità. C’è in lui non trasfigurazione del dolore, e redenzione attraverso il dolore, ma rassegnazione ad esso e qualche volta decadentistico assaporamento del dolore come una voluttà e come pretesto per essere compatito. E ancora, non superamento del male per il trionfo di una realtà positiva, ma vanificazione di esso nell’indiscriminata accettazione di tutto, senza distinzioni. L’odio è stolto più che cattivo e l’amore non nasce dalla fede in un supremo principio del bene, ma dalla coscienza di un’invincibile infelicità comune. Il buon pievano di "Benedizione" benedice tutto, anche il loglio e il serpente, e anche all’assassino si deve pietà e non giustizia, perché tutti siamo ugualmente infelici (cfr. "Nel carcere di Ginevra"). Sul piano metafisico, il desiderio d’immortalità, che risuona tante volte e spesso con accenti così vibranti e angosciosi nella poesia del Pascoli, è desiderio di prolungare la vita nel suo aspetto terreno, non volontà di trascenderla, è soprattutto desiderio quasi morboso che i propri cari morti non siano morti. L’ora della morte è bella se riconduce alla madre ("Commiato"), e nulla importa alla schiava Thallusa della vita eterna se il figlio non potrà più riconoscerla ("Thallusa"). Il sentimento pascoliano della morte ha un che di angustamente egoistico ed edonistico, che lo distacca non solo dal sentimento autenticamente cristiano di un Dante o di un Manzoni, ma da quello stoicamente eroico di un Foscolo o di un Leopardi.

Anche il sentimento di Dio (di un Dio che è invocato quasi solo come garanzia dell’immortalità) ha qualche cosa di materialistico: Dio è spazialmente come il termine di un’infinita, vertiginosa caduta nel cosmo ("La vertigine"), come una pupilla aperta nell’ombra al confine ultimo dell’universo, non come una voce che parla dentro il cuore dell’uomo. Il Pascoli è un grande poeta del cosmo, ma la sua visione del cosmo è ben lontana da quella dantesca di un universo non solo chiuso, gerarchicamente disposto, e accentrato attorno alla terra, ma anche popolato di PERSONE; è la visione di uno spazio infinito e privo di centro, nel quale la terra è sospesa sopra vertiginosi abissi senza fondo, dove incessantemente si producono immani e ciechi cataclismi (cfr. il poemetto "Il ciocco").

Privo di precise strutture metafisiche e morali, il mondo del Pascoli è anche privo di dimensione storica. La storia, che fu la grande musa del Manzoni e del Carducci, ha molta parte anche nella poesia pascoliana, ma violentemente svuotata dei suoi significati obiettivi, privata delle sue coordinate logiche e delle sue misure temporali, trasfigurata mediante connessioni arbitrarie e simbologie soggettive, trasformata come in un immenso mare nel quale galleggiano alla medesima superficie fatti cose nomi lontanissimi nel tempo e nello spazio. Scrisse il Pascoli stesso che egli si commuoveva soltanto davanti alla bellezza della natura e che un albero vale più che la torre del Mangia e il campanile di Giotto. E anche la storia è da lui adeguata alla natura. Essa è un mondo naturale di luci, di colori, di suoni, popolato di richiami e allusioni, di analogie e di mistero, investito da quella medesima ardente soggettività visionaria e trasfiguratrice che investe i monti, le piante, gli animali, gli astri. Fatti e persone perdono la loro fisionomia spirituale, si trasformano in forze naturali, si dissolvono in simboli e fantasmi; molto spesso, purtroppo anche in astrazioni.

D’Annunzio esaltò il Pascoli anche come il più grande degli umanisti per le sue poesie latine e per le sue rievocazioni del mondo classico. Ma se umanesimo è prima di tutto storicismo, senso dell’individualità dei momenti e dei personaggi storici, nessuno meno umanista del Pascoli. Nei fatti e nei personaggi dell’antichità, storici o mitici, egli proietta se stesso, la sua inquieta soggettività, la sua angoscia e il suo sentimento del mistero, e li immerge in un’atmosfera di penombre e di simboli. Nei "Poemi conviviali" il mondo classico è tutto permeato da un’inquietudine precristiana, percorso da trasalimenti di sensibilità romantica e decadente. Significative, da questo punto di vista, le antologie latine del Pascoli, "Lyra" ed "Epos", in cui titoli sunti e commenti immergono i testi degli antichi poeti in un’aria pascoliana; e le traduzioni omeriche, nelle quali Omero, pur tradotto alla lettera, acquista una voce inconfondibilmente pascoliana. Una trasfigurazione analoga dei testi di epoche e scrittori diversi e lontani avviene nelle antologie italiane, "Sul limitare" e "Fior da fiore", dove, attraverso il taglio dei brani, i titoli, le note, come dice il Valgimigli, "ogni scrittore vi diventa Pascoli". Umanesimo è anche senso vivo della tradizione letteraria e gusto dell’arte letteraria, anche come retorica. Il Pascoli trascurò quasi completamente secoli interi della nostra storia letteraria, passando di colpo da Dante e dal primo Trecento all’Ottocento, a Leopardi, Manzoni, Tommaseo. Artefice sottilissimo, signore di tutti i segreti della tecnica, proclamò di volere una poesia non letteraria e giunse a negare la validità di un’arte poetica come attività consapevole e addottrinata del poeta. La poesia sta nelle cose, non la fa il poeta. Egli tutt’al più ci mette i versi. Questo modo di concepire la poesia, così diverso da quello della tradizione italiana, è uno degli aspetti più interessanti e vitali della personalità pascoliana e, con la tecnica stilistica che coerentemente ne deriva, costituisce il suo più stretto legame con la poesia del Novecento.»

È una pagina di critica superba, che ci lascia ammirati: con sobrietà, senza inutili sottolineature, senza sbavature, in maniera pacata, logica e consequenziale, Puppo mette in fila gli argomenti pro e contro il "cristianesimo" pascoliano e demolisce implacabilmente ogni possibile interpretazione a favore, mostrando, con evidenza del tutto persuasiva, che l’anima di Pascoli non ha praticamente nulla di cristiano, se non una certa vaga somiglianza esteriore con essa.

Nel clima culturale e spirituale odierno, dove elementi di modernismo sono penetrati largamente nella concezione cattolica e dove, per molti cattolici, il cristianesimo si è ridotto ad una generica dichiarazione d’intenti, ad una speranza con la "s" maiuscola, ad una fede quasi tutta laica e immanentista, pur se ispirata, a parole, alla Rivelazione (ma assai meno, o niente affatto, alla Tradizione), e dove numerosi elementi di relativismo sono stati accolti come fossero fattori positivi e di arricchimento, invece che — come lo sono, in effetti — di appiattimento e d’impoverimento, in un tale clima, dicevamo, non fa meraviglia se qualcuno vuol riproporre la vecchia interpretazione di un Pascoli quasi cristiano, o semi-cristiano, e insomma "naturalmente" cristiano, come lo fu, in un certo senso, Virgilio. Ma il paragone è del tutto sbagliato e fuor di luogo: perché Virgilio fu un poeta pagano, che non conobbe Cristo, né il Vangelo; Pascoli è un poeta moderno, nella cui dimensione spirituale e culturale vi sono poco meno di due millenni di cristianesimo; non si può, pertanto, nel suo caso, parlare di cristianesimo "naturale": sarebbe uno scherzo di dubbio gusto. Oggi, e non al tempo di Virgilio, o si possiede un’anima cristiana, o non la si possiede: e questo, ovviamente — nel caso di un poeta — non significa che si debba aderire a tutti i dogmi della religione cristiana, o accettare integralmente la dottrina della Chiesa cattolica; significa, molto più semplicemente, condividere l’atteggiamento di fondo, che è proprio dell’anima cristiana, nei confronti di Dio, della vita, dell’altro, illuminati dalla Fede, dalla Speranza e dalla Carità. Ma, in Pascoli, la Fede non c’è; la Speranza nemmeno, o, al massimo, è una tenute, timidissima speranza tutta umana; e, in luogo della Carità, troviamo un buonismo che ignora la giustizia e che accomuna il buono e il malvagio, senza distinzione e senza espiazione da parte del secondo, in nome della condizione infelice e dolorosa che caratterizza il destino umano.

Questo pessimismo radicale, sconsolato, e questo relativismo etico, non sono cristiani. Pascoli non è un poeta cristiano: è, semmai, un poeta cristianeggiante, nel senso che accoglie, del cristianesimo, solo ciò che rientra nel suo orizzonte spirituale. È anche un grande poeta, naturalmente: un poeta che merita d’esser letto e riletto, e cui spetta un posto nel novero dei classici. Solo, non è cristiano…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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