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2 Novembre 2015Uno scrittore non si definisce "cattolico" in quanto scrittore; nondimeno, il fatto di essere cattolico non può non riflettersi nella sua opera, dal momento che la fede religiosa non è un vestito della domenica, che s’indossa e poi si ripone nell’armadio, ma, fra le altre cose, un modo di vedere il mondo; e la visione del mondo di ciascuno scrittore è l’elemento fondamentale del suo mondo poetico, sul quale s’innestano personaggi, situazioni, problemi.
Negli altri Paesi di tradizione cattolica, e perfino in quelli ove, da secoli, i cattolici sono ridotti a una esigua minoranza, esiste una tradizione letteraria cattolica, riconosciuta come tale dagli storici delle letteratura, dai critici e dal mondo culturale in genere. In Francia esiste una tradizione letteraria e filosofica che va da Blaise Pascal, a Fénelon, a François-Réné de Chateaubriand, a Joseph De Maistre, a Frédéric Ozanam, a Charles Péguy, a Paul Claudel, a Joris-Karl Huysmans, a Léon Bloy, a François Mauriac, a Julien Green, a Maxence Van der Meersch, a Gilbert Cesbron, e che si prolunga fino ai nostri giorni: è ben nota, riconosciuta, accettata, "fa blocco". In Gran Bretagna esiste una tradizione che parte da Thomas More e prosegue con il cardinale Newman, Robert Hugh Benson, Gilbert Keith Chesterton, Ronald Knox, Clive Staples Lewis, John Ronald Reuel Tolkien, Graham Greene, Evelyn Waugh: e l’elenco potrebbe continuare; anche qui, vi è continuità, si nota il flusso di una tradizione.
In Italia, ovviamente, gli scrittori cattolici ci sono, ma la critica e la storia letteraria tendono a minimizzare la cosa, e, soprattutto, a dedicarvi una breve presa d’atto, caso per caso; non li considera come parte d’una tradizione. Il fatto che siano cattolici scrittori come Antonio Fogazzaro, Federigo Tozzi, Giuseppe Fanciulli, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Domenico Giuliotti, Piero Bargellini, Tito Casini, Marino Moretti, Nicola Lisi, Giovanni Testori, Eugenio Corti, Mario Pomilio, Rodolfo Doni, non viene percepito e, perciò, rappresentato, come un elemento di continuità, di tradizione, ma come qualcosa di episodico ed estemporaneo. Si va dal: «Toh, anche lui era cattolico! Ma guarda, chi l’avrebbe mai detto?», al più sommesso: «Ma certo, è noto che si tratta di uno scrittore cattolico; e allora? Ciascuno è libero di professare le idee che crede, c’ è posto per tutti». E dietro questa finta tolleranza, un feroce sottinteso: «Però non entrerà mai a far parte del salotto buono della cultura letteraria italiana»; perché quel salotto, da quando l’Italia è stata forgiata a misura della Massoneria, negli ultimi decenni del XIX secolo, e, più ancora, da quando la cultura italiana è stata abbandonata, per ragioni strategiche, alla cultura marxista, dopo il 1945 (mentre il partito cattolico si riservava il potere politico, e lasciava ai comunisti le idee: un suicidio annunciato), è riservato per forza di cose agli intellettuali laici e, se possibile, irreligiosi o ateisti: agli Svevo e ai Pirandello, ai Montale e ai Calvino, ai Moravia e agli Eco. Gli scrittori cattolici sono tollerati, ma solo in anticamera: non possono aspirare a nulla di più, perché rappresentano la tradizione cui massoni e marxisti hanno dichiarato guerra, e che, prima o dopo, deve rassegnarsi a scomparire. Questo si vuole, là dove si puote ciò che si vuole: e più non dimandare. O si sta con il Progresso, con i maggiori premi letterari e con i salotti buoni televisivi, ove è d’obbligo ripetere i mantra e le giaculatorie laiciste — i salotti bipartisan dei Corrado Augias e dei Giordano Bruno Guerri, tanto per la par condicio -, dove si rinverdiscono i crimini della Santa Inquisizione e si descrive la civiltà moderna come il Migliore dei Mondi Possibili; oppure si sta con il regresso, la superstizione, l’ignoranza, e, allora, bisogna rassegnarsi a essere dei perdenti.
Scriveva, circa quarant’anni anni fa, Mario Pomilio nel presentare il secondo romanzo di Rodolfo Doni, «Muro d’ombra», che gli era valso il Premio Selezione Campiello (da: R. Doni, «Muro d’ombra», Milano, Rusconi, 1974):
«Rodolfo Doni torna al romanzo dopo i due volumi del "Diario d’un cinquantenne", una pausa di riflessione che è servita tra l’altro come a esaurire la ricca vena autobiografica che nel Dini della prima fase debordava volentieri all’interno dei romanzi: tant’è vero che il secondo dei due volumi si concludeva col proposito di "riprendere lo scrivere in altra forma: più immaginosa; e dove la fantasia faccia ancor più ‘verità’".
La promessa è stata assolta appunto con "Muro d’ombra", la prova più felice, fino a oggi, di Doni, quella dove la sua inventiva si muove più libera e netta di scorie, ma per un verso conservando intatta la giustezza realistica e il sapore di "vissuto" delle sue prove autobiografiche, per ‘altro sviluppando meglio la sottile qualità metaforica che gli era peculiare fin dalle prime prove.
Scrittore di ispirazione cattolica, è definito solitamente Doni. E del cattolico egli possiede sicuramente sia la capacità di muovesi attraverso la più dimessa realtà quotidiana come dentro una mappa folta di segni, sia soprattutto la concretezza: la disposizione, vogliamo dire, ad accettare l’esistenza nella sua interezza, senza evasioni, e anzi con l’intero carico delle sue responsabilità; il sentimento di essa come "servizio" da compiersi, in tutta umiltà, al posto in cui siamo stati scelti; la convinzione che l’assoluto lo si può rintracciare nell’esperienza di tutti i giorni. È in fondo il suo messaggio. E il lettore di "Muro d’ombra" lo verrà scoprendo attraverso la vicenda del protagonista, un uomo piuttosto tipico, per tanti versi, del nostro tempo (un piccolo industriale arrivato e adagiatosi nell’inautenticità e nelle abitudini del benessere), che da una frattura che lo costringe a letto è indotto a un ripensamento di sé e delle inadempienze della propria vita: una crisi da cui lui sente di non poter certo uscire riaffondando nell’inautenticità dell’esistenza di prima, ma nemmeno attraverso le false tentazioni mistiche e le velleità di fuga nel "religioso" che per un attimo sembrerebbero attirarlo. Si tratta piuttosto di operare un giro di vite, una "riduzione cruenta" nei propri sentimenti (analoga all’altra che deve subire perché torni a posto la sua caviglia fratturata), si tratta di riprendere il proprio posto nella vita assumendone con animo mutato il peso quotidiano e gli stessi errori, e sapendo che essa è dura pazienza, e semmai dura gioia.
Il merito di Doni sta nell’aver narrato questo processo di "conversione" secondo un’alta perplessità che esclude i miracolistici approdi a una certezza tutta dispiegata. Sta soprattutto nell’aver estratto da una realtà così dimessa, e narrata per modi così sommessi, la parabola di un’esperienza che ci è comune a tutti, quando la vita ci mette alle corde e ci costringe ai suoi bilanci.»
Secondo Mario Pomilio, dunque, sono quattro le caratteristiche essenziali, che contraddistinguono la visione del mondo propria di Rodolfo Doni, in quanto scrittore cattolico: il fatto di cogliere, nella dimessa realtà quotidiana, una fitta trama di segni, che richiedono d’essere decifrati (come Dante nella selva oscura); la concretezza, intesa come la disponibilità ad accogliere la realtà nella sua interezza, nel bene come nel male, senza eliminare nulla dal quadro d’insieme, ma accettandolo per quel che esso è (in quanto la creazione è cosa buona, come dice Dio stesso nel primo libro della Bibbia; e, se esiste il male, ciò dipende da colpa umana), senza tentativi di fuga davanti al negativo e senza sottrarsi al fardello delle responsabilità umane; il senso della vita come servizio, che va adempiuto in spirito di umiltà; e infine la certezza che l’Assoluto può essere attinto nella realtà ordinaria, nella vita d’ogni giorno, e non solo mediante esperienze particolarmente solenni o particolarmente drammatiche.
Questo, infatti, è il messaggio di fondo: l’Assoluto, cioè Dio, si trova ovunque; così come ovunque si trovano occasioni per incontrare l’Amore, che è il faccia a faccia fra l’uomo e Dio. Non occorre andare chissà dove, né fare — o tentare di fare — chissà cosa: Dio è dietro ogni angolo; di più: è dietro di noi, dietro ciascun essere umano, vicinissimo, palpabile: sta all’uomo sentirne il respiro e voltarsi per riconoscerlo. E uno scrittore cattolico, in fondo, si pone questo obiettivo, e nessun altro: aiutare il lettore ad acquisire tale consapevolezza; accompagnarlo per mano, come fa Dante nel suo immenso poema, alla scoperta di questa folgorante, semplice verità: che solo in Dio, come dice S. Agostino, l’uomo può trovare la pace, e, finché non l’ha trovata, continua a girare a vuoto, a illudersi e a restare puntualmente deluso, a soffrire i tormenti della fame e della sete. Ma, una volta che abbia intuito questa verità, il cammino verso la luce non può non avere inizio, perché lo sospinge una forza istintiva: la forza dell’anima che cerca la felicità, che cerca la pienezza, che cerca il bene; e che, una volta che i abbia intravisti, si avvia in quella direzione.
Questo concetto è bene espresso nell’ultima pagina di una delle opere più vere e commoventi di Graham Greene, «La fine dell’avventura»: Bendrix, esausto e amareggiato per aver perduto Sara, il suo grande amore, moglie del suo amico Henry (che è morta di malattia), e per il fatto che a rubargliela è stato Dio, si complimenta ironicamente con Lui, perché ha saputo portargliela via, Gli rimprovera di "aver fatto abbastanza" e Gli chiede soltanto di lasciarlo in pace per sempre; però si intuisce che anche per lui, come già per Sara, il cammino verso la conversione, e verso la pace in Dio, è ormai iniziato: sono le ultime resistenze di un’anima esacerbata, che non vorrebbe arrendersi alla forza luminosa dell’amore, perché ne ha paura.
Tornando a Rodolfo Doni — che, dopo «Muro d’ombra», ha scritto parecchi altri romanzi, i più intensi dei quali sono «La doppia vita» (1980, che è considerato anche il suo capolavoro), «Colloquio con Lorenzo» (1993) e «Dialogo sull’Aldilà» (1998), lo scrittore toscano, nato a Pistoia nel 1919 e morto a Firenze nel 2011, è passato acanto ai salotti buoni della cultura italiana, ma senza esservi stato invitato a pieno titolo: ha vinto qualche premio letterario, ma le antologie scolastiche non lo hanno mai preso in considerazione; mentre vi è stato un periodo in cui un intero capitolo, accanto ai "grandi", veniva tranquillamente dedicato ad Alberto Moravia, e frequenti citazioni erano riservate al Pasolini dei «Ragazzi di vita» o, più recentemente, al solito Eco, per l’immancabile «Nome della Rosa»: autori ed opere non certo più profondi o più significativi; ma che avevano l’evidente vantaggio di appartenere alla cultura non cattolica. Infatti, in una cultura massonica e marxista, essere cattolici è un pessimo biglietto di presentazione: si può essere riconosciuti come scrittori (o pittori, o filosofi, o scienziati), ma a patto di non dirlo troppo in giro, e, comunque, accontentandosi di sedere nelle poltrone di seconda o terza fila. Perché chi crede al cattolicesimo non lavora per la Civiltà e il Progresso, ma per l’oscurantismo; pertanto, ha molte cose da farsi perdonare, e bisogna farglielo comprendere.
Lo scrittore cattolico ha un torto, in particolare, che la cultura dominante, impastata di materialismo e di relativismo, non è disposta a perdonargli: quello di non mettere al centro della sua opera l’uomo, ma Dio; di non concentrarsi sui problemi sociali e politici, ma "semplicemente" su quelli umani; di non sognare la rivoluzione, ma di "disperdersi" nel quotidiano; e insomma di essere un intimista, un rassegnato, un dispregiatore del mondo, nonché un bigotto, un baciapile, un docile strumento nella mani dei preti. Non gli si rimprovera di essere anche un pessimista, perché tutti i "grandi" scrittori non cattolici, o anti-cattolici, lo sono: perfino quando s’infervorano nel sognare la rivoluzione (sogni di cui sono rimasti orfani; il che non impedisce loro di trastullarsi con la nostalgia per Fidel Castro e "Che" Guevara, o, alla peggio, per Pancho Villa ed Emiliano Zapata), non estendono, di solito, il loro entusiasmo alla vita d’ogni giorno. Figli dell’esistenzialismo di Sartre (e, si capisce, della psicanalisi freudiana), hanno la vita in gran dispitto e, tutto sommato, preferirebbero non averci niente a che fare. Allora si stordiscono col sesso, eterosessuale o anche omosessuale, come nei romanzi pornografici di un Moravia o di un Pasolini; ma, naturalmente, solo per testimoniare la condizione alienante dell’uomo contemporaneo, e non perché piaccia loro rotolarsi nel fango; questo no. Se l’infame civiltà borghese, nata dallo sfruttamento di classe, si decidesse a scomparire, non ci sarebbe più bisogno di abbrutirsi con la pornografia, né ci sarebbe più alienazione nel sesso, perché il sesso tornerebbe ad essere una cosa libera e gioiosa.
Rodolfo Doni, come qualsiasi scrittore cattolico, prende la vita con la dovuta serietà, ma anche con la schiva affettuosità e con la sobria benevolenza che sono proprie del cristiano. Non esclude nulla, riconosce la dignità di ciò che esiste, ma vuole andare ancora oltre: alla radice del mistero — a Dio…
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