
Cesare e la conquista della Gallia nell’interpretazione di Theodor Mommsen
30 Ottobre 2015
Il limite della politica è che chi sa, non può fare; e chi può fare, non sa
31 Ottobre 2015C’è un aspetto della psicologia infantile che non è stato sufficientemente esplorato e meditato, specialmente dai pedagogisti e dagli educatori: quello relativo alla malizia innata dei bambini, rispetto alla quale si richiedono, nell’adulto, una lucida consapevolezza ed un forte senso di responsabilità, perché dal modo in cui egli l’affronta, possono derivare conseguenze incalcolabili nella vita futura del fanciullo.
Prima di tutto, la consapevolezza. Se si pensa, sulla scia di Rousseau (e, prima ancora, dei giusnaturalisti), che il bambino sia tutto innocenza e purezza, che sia una specie di angelo caduto in terra, e che colpevole della sua eventuale corruzione sia soltanto la società degli adulti, allora qualsiasi ragionamento intorno a questo problema diventa semplicemente impossibile, ed è meglio lasciar perdere. Naturalmente, anche l’eccesso opposto conduce ad un vicolo cieco: perché, se qualcuno è convinto che l’uomo è solamente un grumo di malizia fin dalla nascita, allora tanto vale dichiararlo non redimibile e buttar via qualsiasi progetto pedagogico e qualunque intenzione educativa.
La verità, a nostro giudizio, sta nel mezzo: la personalità del bambino è un impasto di bene e di male, ancora in gran parte inconsapevole; diciamo "in gran parte", e non "del tutto", perché siamo tuttavia convinti che, anche se per via non razionale, il bambino intuisce, in qualche modo, il bene e il male, o la possibilità di bene e di male, che giacciono nella sua stessa anima; non ha affatto chiara la distinzione fra il bene e il male che vengono, per così dire, dal di fuori, però "avverte", "sente", con l’istinto dei gatti o dei puledri, il male e il bene di cui egli stesso è potenzialmente detentore; per cui, allorché si accinge a compiere una cattiva azione, non bisogna credere che egli sia totalmente inconsapevole e, perciò, del tutto "innocente".
Questo è un discorso assai delicato, e che si presta a fraintendimenti ed equivoci. Stiamo parlando non solo della seconda infanzia, quando già incominciano ad agire, sul bambino, le parole e gli esempi delle persone adulte; ma anche della prima infanzia, quando ancora gli adulti non si preoccupano di dargli dei veri ammaestramenti di ordine morale, ma lui, nondimeno, afferra al volo, in maniera irriflessa, la malizia degli adulti, anche e soprattutto quando essi cercando di tenerla nascosta, e ne "deduce", in maniera istintiva, che anch’egli è suscettibile di adottare quella stessa malizia, se lo vuole. Naturalmente, la stessa cosa vale per la bontà degli adulti, che agisce su di lui anche senza che, negli adulti, vi sia una intenzione pedagogica nei suoi confronti. Questo secondo aspetto sarebbe consolante, se non si desse il caso che i cattivi esempi, nel bambino (ma in lui soltanto?), esercitano una maggiore presa che quelli buoni; per cui, se si vuole neutralizzare, o controbilanciare, un cattivo esempio, ce ne vogliono dieci di buoni. Perché sia così, non lo sappiamo: ma l’esperienza, e non la teoria, ce lo dice continuamente, se noi siamo disposti ad apprendere la lezione che ci viene dai fatti. E coi fatti, lo sappiamo, non si discute, né si litiga: bisogna solo prenderne atto, e cercare d’interpretarli.
Assodato, quindi, che la malizia, almeno allo stato potenziale, nei bambini esiste, e che non è affatto una eresia parlarne, ma, anzi, un fatto doveroso dal punto di vista educativo, resta da vedere come l’adulto debba porsi nei suoi confronti. La cosa peggiore che egli può fare è quella di stuzzicarla: il che è precisamente quel che fanno moltissime persone, moltissimi genitori, moltissimi parenti e perfino un certo numero di educatori professionali. Scherzi e frizzi, allusioni e strizzatine d’occhi, specialmente in ambito sessuale, sono la forma d più devastante di diseducazione che l’adulto può adottare nei confronti del bambino, specialmente se si è accorto, in questo o quel bambino, che la malizia esiste, sonnecchia, ed è pronta ad essere sollecitata e risvegliata.
Bisognerebbe togliere la qualifica di genitore a quei papà e a quelle mamme che, davanti alla malizia dei loro figli piccoli, la incoraggiano, ci scherzano sopra con aria complice, la solleticano, la vezzeggiano, la corteggiano, la ingrandiscono, la assecondano. Il giusto atteggiamento sarebbe quello, se possibile, d’ignorarla: perché una cosa si sgonfia spontaneamente se non è alimentata, almeno in quella fase della vita, e a patto che non intervengano circostanze straordinarie. Non potendola ignorare, si dovrebbe intervenire per scoraggiarla, ma senza mostrare di scandalizzarsi, senza enfatizzarla, senza farla apparire più grande di quel che è, per evitare di produrre un effetto opposto a quello che ci si prefigge.
Come sovente accade, a riconoscere e mettere a fuoco questo aspetto della natura umana non sono stati gli scienziati, gli psicologi, ma gli scrittori e i poeti. Una notevole intuizione si trova ne «Le confessioni di un italiano» di Ippolito Nievo, laddove lo scrittore padovano delinea il carattere della protagonista femminile, la Pisana, la quale, bambina ancor piccolissima, aveva già certe arie e certe civetterie da donna; e le riflessioni di ordine generale che egli ne trae, sul piano dell’educazione, sono degne di figurare in un testo di pedagogia. Non che siano da accogliere a scatola chiusa; anzi, abbiamo molte riserve su quel che egli dice; ma è innegabile che gli spetti il merito di aver visto il problema, di averlo posto all’attenzione dei suoi lettori, di averlo trattato con serietà e delicatezza, ma anche con piglio risoluto, come esso richiede.
Scriveva, dunque, Ippolito Nievo nel suo capolavoro «Le confessioni di un Italiano» (cap. II; Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1954, pp. 48-50):
«Lasciando andare che, come accennava in addietro, anche i ragazzi hanno la loro malizia, non mi pare per nessun conto dicevole che e profittevole quella libertà fanciullesca dalla quale sovente i sensi vengono stuzzicati prima dei sentimenti;, con sommo pericolo dell’euritmia morale per tutta la vita. Quanti uomini e donne di gran senno ereditarono la vergognosa necessità del libertinaggio dalle abitudini dell’infanzia? — Parliamoci schietto. — La metafora di assomigliar l’uomo ad una pianta, che tenerella si torce e si raddrizza a talento del coltivatore, fu bastantemente adoperata, perché possa usarla anch’io come una buona maniera di raffronto. Ma più che una tale metafora varrà a spiegar la mia idea l’apologo del cauterio che una volta aperto non si può più rinchiudere gli umori concorrono a quella parte, e convien lasciarli colare sotto pena di guastarne altrimenti tutto l’organismo. Data la sveglia ai sensi come si può negli anni dell’ignoranza, sopravverrà sì la ragione a vergognarsene o a lamentarne la sozza padronanza, ma come sopravviene la forza di debellarli e di rimetterli al loro posto di sudditi? — Lo sviluppo seguita l’avviamento che gi si diede nei principii, in onta al’elegie della ragione, e al rossore che se ne prova; e così si formano quegli esseri mezzi, anzi doppi nei quali la depravazione dei costumi è unita all’altezza dell’intelletto, e fino ad un segno anche all’altezza dei sentimenti. Saffo ed Aspasia appartengono alla storia non alla mitologia greca; e sono due tipi di quelle anime capaci di grandi passioni non di grandi affetti, quali se ne formano tante al nostro tempo per la sensuale licenza che toglie ai fanciulli di essere innocenti prima ancora che possano diventar colpevoli. Si dirà che l’educazione cristiana distrugge poi i perniciosi effetti di quelle prime abitudini. – Ma lasciando che è tempo sprecato quello nel quale si distrugge, e invece si sarebbe potuto edificare, io credo che una tal educazione religiosa serva meglio a velare che ad estirpare il male. Tutti sanno quali stenti indurassero sant’Agostino e sant’Antonio per domare gli stimoli della carne e vincere le tentazioni; ora pochi pretenderanno esser santi come loro, eppur quanti ne trovate che pratichino le eguali astinenze per ottenerne gli uguali effetti? È segno che tutti si rassegnano a pigliar le cose come stanno; contenti di salvar la decenza colla furberia della gatta che copre di terra le proprie immondizie, come dice e consiglia l’Ariosto. Sì, sì; ve lo dico e ve lo confermo; giovani e vecchi, grandi e piccini, credenti o miscredenti, pochi vivono adesso che attendano e vogliano combattere le proprie passioni; e confinar i sensi nella sentina dell’anima, dove la natura civile ha segnato loro il posto. Nato il male, non è questo il secolo de’ cilici e delle mortificazioni da sperarne il rimedio. Ma la educazione potrebbe far molto coltivando la ragione, la volontà e la forza prima che i sensi prendano il predominio. Io non sono bigotto: e non predico pel puro bene delle anime. Predico pel bene di tutti e pel vantaggio della società; alla quale la sanità dei costumi è profittevole e necessaria come la sanità degli umori al prosperare d’un corpo. La robustezza fisica, la costanza dei sentimenti, la chiarezza delle idee e la forza dei sacrifizi sono suoi corollari; e queste doti meravigliose, saldate per lunga consuetudine negli individui, e con essi portate a operare nella sfera sociale, tutti conoscono come potrebbero in germinare proteggere ed affrettare i migliori destini d’un’intera nazione. Invece i costumi sensuali, molli, scapestrati fanno che l’animo non possa mai affidarsi di non essere svagato da qualche altissimo intento per altre basse e indegne necessità: il suo entusiasmo fittizio si svampa d’un tratto o almeno diventa un’altalena di sforzi e di cadute, di fatiche e di vergogne, di lavoro e di noie. L’incancrenirsi di siffatti costumi sotto l’orpello luccicante della nostra civiltà è la sola causa per cui la volontà è diventata aspirazione, i fatti parole, le parole chiacchiere; e la scienza si fatta utilitaria, la concordia impossibile, la coscienza venale, la vita vegetativa, noiosa, abominevole. In qual modo volete far durare uno, due, dieci, vent’anni in uno sforzo virtuoso, altissimo, nazionale, milioni di uomini de’ quali neppur uno è capace di reggere a quello sforzo tre mesi continui? Non è la concordia che manca, è la possibilità della concordia, la quale deriva da forza e da perseveranza. La concordia degli inetti sarebbe buona da farne un boccone, come fece di Venezia il caporalino di Arcole. Ora, quando sarà bisogno che le forze si sieno quadruplicate, troverete in quella vece che la maggior parte si è infiacchita, sviata, capovolta: e invece d’aver fatto un passo innanzi l’avrà indietreggiato di due. — Vi parrà qui di esser ben lontani col discorso dalle piccole e ridicole lasciviette fanciullesche; ma guardate bene e vedrete che le si avvicinano ed ingrandiscono come dietro la lente d’un cannocchiale le macchie del sole.»
Il rimedio alla malizia e alla possibile depravazione del bambino, dunque, starebbe, per Ippolito Nievo, nel coltivare la ragione, la volontà e la forza di carattere; non ritiene che l’educazione religiosa possa far molto, ma soltanto a nascondere il male, invece di estirparlo. E accusa il suo secolo — il XIX – di essere di per sé favorevole alla sregolatezza dei sensi e, dunque, di costituire una continua occasione di tentazione per i bambini e per i giovani, ponendoli sulla via delle cattive abitudini e della schiavitù dei sensi.
Quest’ultima osservazione ci riconduce al ruolo devastante che esercita la società dei consumi dal punto di vista della diseducazione del bambino, dell’adolescente, del giovane. Oggi, poi, il dilagare della tecnologia, messa imprudentemente nelle mani dei piccoli — televisione, computer, telefonini, giochi elettronici — fa sì che agli adulti sia quasi completamente sfuggita di mano la direzione spirituale e morale del bambino, di cui si sono impadroniti, ma alla loro maniera, sinistra e distruttiva, appunto quei gingilli tecnologici. E questo è un problema che sembra non avere soluzione: perché anche se una coppia di genitori decidesse di eliminare la tecnologia dalla propria casa, o di impedire che il bambino vi attinga liberamente, nondimeno la sua presenza a livello complessivo è così capillare e pervasiva — amici, parenti, scuola, eccetera — che neppure in quel caso sarebbe possibile sottrarlo alla sua influenza. Senza contare che la tecnologia è divenuta indispensabile — nello studio, nel lavoro, perfino nel tempo libero: per prenotare un viaggio o un albergo, ad esempio — che escluderne il bambino vorrebbe dire farne un adulto disadattato e completamente emarginato, una specie di Robinson alla rovescia: solo in mezzo alla folla. Eppure una via d’uscita deve esserci: siamo stati noi ad aver creato una tale situazione; a noi incombe il dovere di aiutare il bambino a trovare il modo di venirne fuori.
Non siamo d’accordo con Ippolito Nievo, invece, quando egli minimizza o svaluta la funzione della educazione religiosa. Senza negare che essa, qualora si riduca a mero formalismo, serve a velare, non già a risolvere il problema, resta il fatto che l’educazione religiosa, basata sui valori spirituali e finalizzata alla ricerca del senso ultimo della vita, è la migliore risposta al problema della linea educativa da tenere nei confronti della malizia infantile. Perché trovare Dio, accordare la volontà umana alla Sua, significa trovare anche la pace: e questa è la vera risposta alla tentazione del male…
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