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Cesare e la conquista della Gallia nell’interpretazione di Theodor Mommsen

Quanto ha pesato, nella storia d’Europa, la conquista romana della Gallia, voluta e condotta da Caio Giulio Cesare con ferma determinazione, cogliendo al volo un pretesto relativamente modesto (la richiesta degli Elvezi di effettuare una migrazione dai monti del Giura fino alle rive dell’Oceano Atlantico, passando per un "corridoio" della provincia romana, la Gallia Narbonense), in un momento in cui sembrava un azzardo investire consistenti risorse militari in una impresa dall’esito dubbio e dai non meno incerti vantaggi, e mentre a Roma vigeva un potere ufficioso quanto mai instabile, il cosiddetto Primo triumvirato?

Abbiamo già tentato di dare una risposta a questo interrogativo in un precedente lavoro (cfr. il nostro articolo: «La campagna di Cesare in Gallia fu proprio necessaria?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 30/05/2012), per cui non vi ritorneremo sopra; quel che intendiamo fare, adesso, è prendere in esame l’interpretazione che di quell’evento diede il grande storico tedesco Theodor Mommsen, (nato a Garding, nello Schleswig-Holstein, il 30 novembre 1817 e morto a Charlottenburg, nella zona occidentale di Berlino, il 1° novembre del 1903), premio Nobel per la Letteratura nel 1902.

Questo il bilancio che Theodor Mommsen tracciava della conquista delle Gallie da parte di Cesare (cit. in: Enzo Nencini, «Romanorum sospites. Antologia delle opere di Cesare e Virgilio», Milano, Principato Editore, 1972, pp. 137-8):

«Il più importante risultato di questa grandiosa impresa non fu quello della rovina di questo grande popolo per mezzo delle imprese transalpine di Cesare; molto più importante per le sue conseguenze fu il risultato positivo anziché il negativo. Non si saprebbe mettere in dubbio, che se il governo del senato si fosse conservato nella sua vita apparente ancora per alcune generazioni, la cosiddetta immigrazione dei popoli si sarebbe verificata quattro secoli prima di quello che si verificò e sarebbe avvenuta in un’epoca, in cui la civiltà italica non aveva gettate profonde radici né nelle Gallie, né sulle rive del Danubio, né in Africa, né in Ispagna. Il grande capitano e uomo di stato dei Romani, nel riconoscere nelle tribù germaniche un degno nemico del mondo romano-greco, col fondare egli stesso con ferma mano e persino negli ultimi particolari il nuovo sistema di difesa offensiva, coll’introdurre il sistema di difendere i confini dello Stato con fiumi e con ripari artificiali, ridurre a colonie lungo i confini le più prossime tribù barbare per la difesa contro le più lontane, e completare l’esercito romano con soldati arruolati nei paesi nemici, procurò alla cultura ellenico-italica il tempo necessario per incivilire l’Occidente appunto come da essa era stato incivilito l’Oriente.

Gli uomini comuni vedono il frutto della loro opera; il seme sparso da uomini di genio, invece, cresce lentamente. Passarono secoli prima che si comprendesse che Alessandro non aveva soltanto creato un regno effimero in Oriente, ma che aveva introdotto in Asia l’ellenismo; altri secoli passarono prima che si comprendesse che Cesare non aveva soltanto acquistato pei Romani una nuova provincia, ma che aveva fondata la romanizzazione delle province occidentali. Anche solo i lontani posteri hanno conosciuto il significato delle spedizioni, che sotto il punto di vista militare si potevano considerare come inconsiderate, e che non ebbero immediato successo nell’Inghilterra e nella Germania. Un enorme ciclo di popoli la cui esistenza e le cui condizioni erano fino allora state narrate con qualche verità e con molta poesia solo da navigatori e da commercianti, fu ampliato per esse al mondo… Questo ampliamento dell’orizzonte storico, ottenuto colle spedizioni di Cesare oltre le Alpi, fu un avvenimento della stessa importanza storico-universale come l’esplorazione dell’America col mezzo di schiere europee. Al circolo ristretto degli Stati bagnati dal Mediterraneo si aggiunsero i popoli dell’Europa centrale e settentrionale, gli abitanti delle rive del Baltico e del Mare del Nord, al vecchio mondo se ne aggiunse uno nuovo, ed il vecchio e il nuovo d’allora in poi entrarono a formare un corpo solo esercitando l’uno sull’altro un’intima influenza…

È opera di Cesare quindi se, dalla passata grandezza dell’Ellade e dell’Italia, un ponte conduce all’edificio più magnifico della moderna storia del mondo, se l’Europa occidentale è diventata romana, se l’Europa germanica è divenuta classica,… se Omero e Sofocle non si limitano, come fanno i Veda ed i Calidasa, ad attirare il botanico della letteratura, ma fioriscono per noi nel proprio giardino. E se la creazione del suo grande predecessore in Oriente fu quasi interamente distrutta dall’infuriare delle tempeste del Medio Evo, quella di Cesare è durata oltre le migliaia d’anni che hanno cambiato religione e stato al genere umano e che hanno mutato persino il centro di gravità della civiltà, e continuerà ad esistere per tutta quella che noi chiamiamo eternità.»

Mommsen, pur essendo un tedesco dell’estremo settentrione della Germania (il suo paese natale, all’epoca, faceva anzi parte del Regno di Danimarca), aveva un temperamento focoso, come uomo e come storico; era, in fondo, un romantico che si dissimulava dietro la gelida corazza del filologo classico, del numismatico, dell’epigrafista e del giurista; e, come tutti i passionali, aveva la tendenza a eccedere nei suoi giudizi, a enfatizzare, a drammatizzare. È decisamente fuori luogo, oltre che indice di un radicato eurocentrismo, parlare con una certa qual sufficienza di opere come i Veda e di autori come Kalidasa, e riproporre il cliché, un tantino logoro già a quel tempo, di un’India e di un’Asia che riservano le proprie gemme spirituali e intellettuali a pochi, raffinati cultori dell’arte e del pensiero, mentre solo l’Europa avrebbe saputo creare una civiltà realmente capace d’integrare passato e presente, attingendo alle radici della classicità greca per trovare lo slancio necessario alla sua crescita.

Politicamente, Mommsen era un liberale nazionalista, che trasportava nello studio della storia romana tutto il bagaglio delle sue passioni politiche, tanto da non farsi ritegno di scagliare i suoi strali contro Cicerone, Pompeo, Catone Uticense, da lui accusati di pusillanimità, inconsistenza, velleitarismo, quasi fossero stati uomini politici del suo tempo: ottimo mezzo per lasciarsi fuorviare da una lettura del passato in chiave del presente (e non, come semmai sarebbe giusto, il contrario). Simile, in questo, a Jules Michelet, il tedesco non veste i panni dello scienziato se non come filologo ed epigrafista; come storico non possiede, e nemmeno si sfora di cercare, il necessario distacco dalla materia trattata, per cui sovrappone continuamente i suoi giudizi ai fatti, sovente con uno spirito tagliente di polemista che maneggia la penna come fosse una spada.

Il fatto che Mommsen giudichi "positiva" la conquista delle Gallie, perché prevenne le migrazioni germaniche di quattro secoli dopo e diede tempo alla romanità di insediarsi a fondo nelle province occidentali dell’Impero, è indice della sua maniera partigiana di interpretare la storia: ed è curioso che questo nazionalista tedesco, dopo essersi lusingato al pensiero che il grande Cesare abbia riconosciuto nel mondo germanico un degno avversario di Roma, adotti poi il punto di vista della romanità quale metro di giudizio assoluto; ci si sarebbe aspettato che egli dedicasse un pensiero anche al punto di vista dei suoi antichi connazionali, da sempre smaniosi di aprirsi la strada verso le fertili campagne situate oltre il Reno e aldilà delle Alpi. Ai Campi Raudii e ad Aquae Sextiae, ad esempio, Caio Mario aveva massacrato migliaia di Cimbri e Teutoni che, con tutte le loro famiglie, avevano tentato di migrare verso l’Europa meridionale: più che invasioni nel vero senso della parola, si era trattato, appunto, di migrazioni, che, per una serie di fattori climatici e demografici, erano divenute per quei popoli settentrionali una necessità di vita o di morte. Ma forse, in questo caso, in Mommsen prevalse la forma mentis del filologo classico: probabilmente egli pensava che era stato un bene anche per i Germani il fatto di essere stati respinti per quattro secoli e inchiodati sulla riva destra del Reno: perché ciò aveva permesso loro di assorbire lentamente quel po’ di rispetto verso la cultura greco-romana che, quando le dighe si ruppero ed essi dilagarono nell’Impero di Occidente, rese possibile un loro incivilimento in senso "europeo"; cosa che non sarebbe avvenuta se le invasioni avessero avuto successo già nel I secolo avanti Cristo e, dunque, se Cesare non avesse conquistato la Gallia, facendone un antemurale della romanità.

Il giudizio favorevole sulle spedizioni di Cesare oltre il Reno e oltre la Manica, ossia nel territorio della Germania e nell’isola della Britannia, discende da un analogo ordine di pensieri. Anche se tali spedizioni parvero, sul momento, fallimentari, o, tutt’al più, giustificate solo come azioni tattiche di contenimento e di prevenzione di future invasioni, il risultato fu che esse gettarono le basi per il successivo coinvolgimento dell’Europa centrale nella sfera culturale della romanità e, quindi, posero le premesse per la nascita di una civiltà nuova, quella medievale, in cui la tradizione greco-romana del Sud si incontrò e si fuse con quella celtica e germanica del Settentrione; e il lievito, per così dire, di questa unione sarà il cristianesimo.

Quest’ultimo aspetto, però — il ruolo storico svolto dal cristianesimo nella fusione della romanità col germanesimo — non viene affatto sviluppato dal Mommsen, e non solo per ragioni cronologiche (la sua «Storia di Roma», in tre volumi, pubblicata fra il 1854 e il 1856, giunge solo fino all’età di Cesare, ed esclude quindi il periodo imperiale), ma anche e soprattutto per le riserve mentali dell’autore, che, probabilmente, gli impediscono un sereno e spassionato giudizio storico. Egli, infatti, non ama il cristianesimo, e specialmente il cattolicesimo: quando Bismarck scatena il Kultukampf contro la Chiesa romana, a partire dal 1872, si schiera dalla parte del governo e contro i cattolici; viceversa, quando si apre la disputa antisemita — alcuni anni dopo -, per la concessione dei pieni diritti civili agli Ebrei, si schiera a favore di questi ultimi e contro il suo collega, l’eminente storico Heinrich von Treitschke, contrario alla concessione dei diritti ad una minoranza che, a suo parere, nulla aveva a che fare con il popolo tedesco e la sua civiltà.

Mommsen idealizza la figura di Cesare, probabilmente perché vede in lui la sintesi dei due valori civili che sente con più forza e che più ammira: il sentimento patriottico e l’ideale di un governo "illuminato", energico ma non dispotico, capace di sintetizzare e di armonizzare le migliori qualità del carattere nazionale. Per lo stesso motivo disprezza Pompeo e i pompeiani, i quali, aggrappati ai loro astratti principi repubblicani, non comprendono il senso dell’evoluzione economica, sociale e culturale del mondo romano e si oppongono a quel rinnovamento delle strutture politiche che, solo, potrebbe adeguare il governo della città-stato alla dimensione ormai mediterranea, anzi, universale, dell’impero di Roma. L’errore di Mommsen è quello di pensare la storia romana da liberale tedesco del 1848: ovunque egli vede nessi e relazioni opinabili, e sovente irrealistici, fra le due società e le due fasi storiche; e, se è vero che uno storico non riuscirà mai a spogliarsi interamente dell’abito mentale che è proprio del suo tempo (né, forse, ciò sarebbe auspicabile), è altrettanto vero che il Nostro non compie alcuno sforzo per assumere un punto di vista più obiettivo e per valutare i fatti della storia romana in base alla loro logica interna, e non come riflesso delle sue personali passioni politiche. A questo difetto si aggiunge la presunzione professorale e quasi un certo qual senso d’infallibilità che lo contraddistingue, come uomo e come studioso.

Come uomo, aveva una grande opinione di se stesso: non è da padre timido e incerto mettere al mondo sedici figli; e, nonostante il suo pessimismo politico (da liberale deluso per l’esito fallimentare della rivoluzione del 1848), nulla vi è in lui di più lontano dal senso di estraneità e di "inettitudine" alla vita di un Niels Lyhne (dell’omonimo romanzo di Jacobsen) o di un Tonio Kröger (del racconto di Thomas Mann), ma anche dal disgusto per la "volontà" di Schopenhauer o dalla drammatica angoscia esistenziale di Kierkegaard. I suoi capelli disordinati e lunghissimi erano la bandiera del suo disprezzo per le convenzioni borghesi: ma la sua rivolta antiborghese finiva lì.

Come studioso, era addirittura foderato di supponenza. Una volta, in un salotto romano, disse a Ferdinand Gregorovius, il grande storico della Roma medievale, che aveva già pubblicato la sua monumentale «Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter»: «Posso darle un consiglio? Scriva una storia della città di Roma nel Medioevo». Non sappiamo quale sia stata la risposta di Gregorovius; quella che avrebbe meritato, sarebbe stata: «E lei, perché non scrive una storia di Roma antica?».

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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